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lunedì 4 febbraio 2019

Breve storia di due orfane, a Roma (seconda parte)


di Marco Moretti



(foto dal web)
Si udì un tentativo malriuscito di soffocare una risata, Mario ricordò con piacere la bocca di Susan.
-          Arrivo con un taxi tra mezz’ora.
-          Facciamo un’ora.
-          Quarantacinque minuti.
Fu il turno di Mario per la risata.
-          Susan, tipico nome dalle origini arabe. Maestra di contrattazione.
-          Hai vinto, ci vediamo dopo il bagno nel caffè.
Doccia, barba, vestiti e colazione.


E riflessione: una divisa, anche quando smetteva il camice. Jeans, maglione e piumino in inverno; jeans, polo e niente altro in estate. Con minime variazioni nelle stagioni di mezzo.
Rifiuto ponderato della folla, tradotto solitudine, con la sfortuna di turno nei pochi intervalli. Di recente sempre più brevi.
Cercò di abbreviare anche l’attesa di guida turistica e tassista sfogliando il giornale: la cronaca locale narrava dell’incendio che aveva ridotto in cenere l’allevamento canino di Stefan Juric, oltre a carbonizzare una trentina tra cuccioli e animali adulti; la struttura si trovava nella pineta tra Roma e Ostia, non lontano dal mare. Un prefabbricato in materiale altamente infiammabile in cui i cani nascevano e crescevano in attesa di un padrone. O un’adozione, come preferiva dire Sandra.
Jeff si materializzò sulla poltrona accanto a Mario e lo osservò con aria di sfida. Scacciò l’immagine e il “senso per i guai”, lui con i cani non ci azzeccava nulla. Pensò a Sandra e alla dicitura sul biglietto da visita.
Poi vide Susan, in carne e ossa. Dopo i saluti le mostrò l’indirizzo, dandosi  dell’inguaribile idiota recidivo.
-          È lontano dal posto in cui andiamo oggi?
-          Un chilometro scarso, a piedi è una bella passeggiata.
-          Sei libera per l’ora di pranzo…e nel primo pomeriggio?
-          Vada per il pranzo, ma prima devo vedere una persona. L’orfanella che ho adottato…e il mio fidanzato
-          Non sono geloso, vedrai che riusciamo a fare tutto.
Bel gesto il tuo, coraggioso. L’età della piccola?
-          Si pensa intorno ai nove mesi, è stata abbandonata e non potevo sopportare il posto in cui viveva. Lui non approva, ma se vuole me deve prendere il pacchetto completo.
Un incubo: gemelle, adozioni, compagni recalcitranti o peggio. Basta, nessuna voglia di “sfamarsi”, prenderle o darle: solo due passi sui ciottoli della via consolare, respirare storia e fare qualche domanda a Sandra.
Si chiese quanto stava mentendo a se stesso.
Lo verificò poche ore dopo, con l’arrivo del fidanzato di Susan: il tipo si palesò in modo inequivocabile nei panni di Mister Congiuntivo. Anch’egli pareva indossare una divisa, la stessa del viaggio in treno, la medesima strafottenza quale accessorio indispensabile. Con lui stava l’orfanella, o meglio il bestione trascinava la piccola: si trattava di un esemplare di cane meticcio. Bianco e nero, il muso corto e simpatico, lo sguardo attento; corte orecchie penzolanti completavano la figura.
A Mario piacque, cioè dovette ammettere che era carino.
Zampettava con aria felice e curiosa, cercando di opporsi ai frequenti strattoni della bestia a due zampe che la teneva al guinzaglio.
-          Il solito stronzo, - Susan mordicchiò le unghie, già ridotte male - guarda poi se uno deve portare fuori il cane vestito come per andare in ufficio.
-          Non siamo in montagna, - replicò Mario con un ghigno - ce lo vedresti con gli scarponi?
-          Ma neanche conciato così, Moony ha bisogno di correre. E lui lo sa bene!
Il duo si avvicinò, la cagnolina diede uno strattone e si liberò del guinzaglio. Raggiunse Susan e abbaiò scodinzolando, poi annusò Mario e lo fissò silenziosa roteando la coda.
-          Ci piace, mi pare che ci piace. – sentenziò Mister Congiuntivo.
-          Tu sempre in ritardo, poi questa fissa di trascinarla!
-          È un cane, deve annà ‘ndo volemo noi. Ce lo devi insegna’ subito.
Pinozzi tirò una riga su Mister Congiuntivo e accanto scrisse Zanichelli, ultima edizione.
-          Romolo, il mio fidanzato. -  Susan aveva calcato sul “mio”? - Il dottor Pinozzi, un cliente.
-          Susan è la meglio da Roma in giù. – sorriso inamidato, mani in tasca.
-          Penso anche in su. - rispose Mario, il fratello di Remo che cercava di capire se fosse un complimento.
-          Non riesci proprio ad arrivare puntuale, magari sei anche nato il giorno dopo.
Susan non intendeva mollare, parlava inginocchiata accanto alla cagnolina. Le accarezzava i fianchi.
-          Che devo di’, ieri il treno da Napoli pareva addormito. Semo arrivati a Termini   due ore dopo.
Da Zanichelli a Dizionario di sinonimi e contrari: sincero, schietto, leale. Bugiardo, falso, ambiguo. E stronzo. Qualche pelo si era alzato, un baio di battiti in più: il “senso” bussava. Neanche troppo timido.
-          Non ci conosciamo? – disse Pinozzi – Il suo viso non mi è nuovo, mai stato a Genova?
-          Il mio viso nun si scorda!  Magari mi hai visto sul giornale, io…
-          Basta con le chiacchiere, - Susan intervenne decisa scattando in piedi, ricordando a Mario la tigre che irrompe in un pascolo.
-          Genova non c’entra niente, adesso noi andiamo e tu hai altro da fare.
Moony si era nascosta dietro le gambe di Pinozzi, Romolo si grattava il mento e Susan continuava a decapitare le unghie.
Mario pensò che due bugie erano sufficienti, per il momento.
-          Bene, mi è venuta fame - sorrise, non stava mentendo - penso che Moony non sarà un problema. Si va?
-          Occhei, occhei pure io c’ho da fa’. Buon appetito attutti.
-          Salutami Juric…e Bogdan. - disse la donna.
              Dizionario rise sguaiato.
-          Si, come li pesci!
E salutò con due dita alla fronte, poi girò sui tacchi. Tronfio, i passi che pestavano su pietre romane.
Raggiunsero l’indirizzo sul biglietto da visita di Sandra, meno di due chilometri in compagnia di una tramontana dispettosa. Susan si strinse nella giacca, Mario verificò la legge dell’inestensibilità del colletto di un piumino, Moony zampettò con le orecchie sollevate: due allegre bandiere nere.
“Puppet rest” si mimetizzava nella vegetazione mediterranea, udirono i latrati prima di scorgere le costruzioni: una decina di casupole basse, in legno, parevano seminate nella pineta da una mano frettolosa. Nessuna simmetria, ordine o traccia di planimetria: vialetti in pietra facevano la spola da una costruzione all’altra, un’alta rete di recinzione montava la guardia. Camuffata con i colori della natura, come le telecamere che solo un occhio esperto poteva scovare. Al pari delle casupole, sulle cui pareti mani esperte avevano disegnato alberi, siepi, fiori.
-          Che sorpresa! - disse Sandra, materializzata da una porta mimetizzata quanto il resto. - La mia amica e il compagno di viaggio “misterioso”.
-          Ciao, - Susan con un abbraccio - ma risparmiati la storia della sorpresa. Ci hai individuato almeno da cinque minuti.
-          Inutile negarlo, anche se non speravo nel dottor Pinozzi. - sorriso soddisfatto.
              Mario squadrò Susan, ma la vide altrettanto sorpresa.
-          Ho la memoria di una reflex digitale, - ridacchiò Sandra - e avevo già incontrato il suo volto.
-          Complimenti, ma se l’ha visto sul giornale avevo di certo un occhio pesto e altri lividi.
-          Quelli passano, il resto della “polvere” invece?
-          In tutta franchezza non ci faccio molto caso: ogni volta che passo il panno se ne accumula altra. Dovrò decidermi e pulire a fondo.
-          Usi prodotti e strumenti adatti, mi raccomando.
Susan assisteva perplessa sul punto di dire la sua, ma giunse Jeff ad alta velocità: ingaggiò Moony che, liberata del guinzaglio, lo inseguì abbaiando felice.
-          C’è da fidarsi a lasciarli andare così?
Le due guardarono Mario come un vegetariano che chieda se c’è carne in un minestrone.
-          Abbiamo buoni guardiani, - disse l’ospite - sei d’accordo Susan?
-          Se non è convinto potremmo fare le presentazioni, più tardi.
Mario allargò le braccia in segno di resa.
-          Vi credo sulla parola, ora che dite di riempire lo stomaco? Da queste parti ci sono un paio di posti che…
-          Non esiste - irruppe Sandra - ho già due ospiti, ma il cibo non è un problema. Andiamo.
Seguendo una sorta di navigatore satellitare interno, l’ospite guidò il gruppo nel dedalo di viottoli e casupole. Tra latrati e guaiti. Jeff era a suo agio, Moony rizzava le orecchie e annusava in più direzioni incerta sul percorso da seguire.
Passarono accanto a un edificio basso, squadrato, le finestre e la porta chiuse. Ai lati della soglia due statue di grandezza naturale, Mario giudicò fossero alte più di un metro: raffiguravano cani fieri, neri, muscoli da culturista, stavano seduti. Jeff li ignorò, Moony lanciò un guaito e si allontanò riparando dietro le gambe di Susan. Le statue avevano occhi magnifici, sembravano seguire il gruppo.
-          Zuul e Vinz, - disse Sandra a Mario indicando i due animali - continua a camminare e parla sottovoce.
              Susan abbozzò un ghigno sottile, Mario osservò le fronde degli alberi.
-          Paura che spaventi i passerotti?
-          No, mi spiacerebbe ti ritrovassi a terra. Indossi una giacca pulita.
-          Nel terreno non ci sono radici, - rise di gusto - non stiamo correndo quindi…
           Mario si zittì, i muscoli di Zuul gli erano parsi più pronunciati.
Pensò a uno scherzo della luce.
Poi lo udì: il suono sordo, simile a un brontolio ancestrale, proveniva dalla porta.
Che era chiusa.
Sigillata.
Pensò che le due statue erano di fattura pregevole, notò perfino i denti bianchi in quella di sinistra.
E realizzò.
Nel momento in cui ricordò i Ghostbusters che affrontavano Zuul e Vinz, sul grattacielo, pensò che Sandra non assomigliava per nulla a Sigourney Weaver.
In compenso i trenta passi che lo separavano dalla meta gli parvero altrettante miglia.
Sandra li condusse in una delle casupole attrezzata come foresteria: un monolocale con tavolo e sei sedie, una parete con piccola cucina e frigorifero, l’altra che si affacciava con una vetrata su un giardino recintato. Nell’angolo illuminato dal sole un divano e due poltrone. Occupate da altrettanti uomini con l’aria tutt’altro che felice.
-          Bogdan lo conoscete, - disse Sandra - l’altro è suo cugino Stefan. Ha passato la notte in bianco e perso ben altro che le ore di sonno. Loro sono Susan e il dottor Mario Pinozzi.
I due si alzarono per salutare. Mario, entrato per ultimo, ricambiò e fece una carrellata sui personaggi della rappresentazione: due uomini, uno giovane e il secondo di mezza età. Il primo fissava l’altro, capo chino e spalle curve, con rispetto e qualche grammo di compassione. Delle due donne, Susan scrutava in ordine il pavimento, il tavolo e altri arredi: il trucco per non fissare Bogdan e il cugino. Sandra stava al centro del locale, gambe divaricate e piedi rivolti alla porta; un’occhiata all’orologio, poi gli occhi sui cugini. Pinozzi registrava i dati, le posture, i gesti, i volti. Nelle trenta miglia virtuali appena percorse qualche pelo si era alzato, la frequenza cardiaca premeva sull’acceleratore e i muscoli tiravano.
Perché?
Non certo per i due potenziali pericoli da Ghostbusters, quelli non indossavano maschere né dovevano dissimulare le loro intenzioni. Semplicemente si mimetizzavano nella natura, come quelle costruzioni, la recinzione, le videocamere.
E le persone all’interno di questa oasi nella pineta?
-          Fra poco arrivano le vettovaglie, - Sandra polverizzò ogni ipotesi rivolgendosi a Stefan e Bogdan - Susan e Mario sono affamati e voi due avete passato la notte in bianco. Ci vuole un break.
-          Intanto beviamo qualcosa, - disse Susan, srotolando le parole - posso preparare un aperitivo.
Bogdan annuì con un sorriso che non raggiungeva la sufficienza, Stefan restò congelato nella tristezza, Sandra diresse verso il pensile della cucina.
Mario disse la sua.
-          Per me acqua con ghiaccio, al massimo una Coca e limone.
-          Come sarebbe, non ci fa compagnia? - la voce di Sandra sapeva di rimprovero.
-          Alcool più Pinozzi uguale guai. E per oggi mi sembra che siamo a posto.
La padrona di casa non replicò e prese alcune bottiglie, bicchieri e shaker che lasciò sul tavolo. Indicò il tutto a Susan e si fece da parte, in paziente attesa.
Mario raggiunse Bogdan e Stefan che erano di nuovo seduti, questa volta sul divano, un cenno del capo e si lasciò cadere nella poltrona vuota.
-          Brutta storia, hai avuto parecchi danni? - disse all’allevatore di cani rimasto senza allevamento.
Questi non rispose e diede un’occhiata interlocutoria a Bogdan, che fece un cenno di assenso.
-          Tutto in fumo: costruzione, carte, camioncino.
Cani no, loro non in fumo. Loro bruciati, ricorda storie di nazisti e forni?      
                    Uguale.
                    Chi volere male cani? Chi uccidere animali è peggio di bestia!
Mario non replicò, Bogdan strinse il braccio del cugino e serrò le labbra.
-          Tu sa dove noi arriva? - Stefan fissava Mario.
      Lo posso immaginare.
      No, tu no immagina. Tu ascolta.
Altra occhiata a Bogdan e nuovo segnale di via libera. Poi gli occhi chiari si chiusero.
-          In mio paese guerra lunga, cattiva. Guerra mai bona, ma da noi slavi lotte sempre feroci. Religione, etnie, enclavi: tutte scuse, sai unica cosa comune? Uomo. Tu mai visto animali fare guerra? Mai visto esercito cani attaccare gatti? Uomo cattivo, soldato feroce, chi comanda soldati vera bestia.
Juric prese una pausa, respirò a fondo, osservò il gruppo che ascoltava. Mario accarezzava una barba inesistente, Susan aveva riempito un bicchiere con un litro di vino e tentava di rimediare. Sandra ascoltava concentrata, la spalla appoggiata al frigorifero. Bogdan si era adagiato nel divano, gli occhi ancora serrati.
-          Ma anche donne diventano cattive in guerra, - Stefan continuò la cronaca - per difendere figli, per paura, per vendetta. E male resta dentro: tu dottore, sa che non c’è vaccino per male. Avvelena tua vita.
Stava una piccola bambina in mio paese, Ivanka undici anni, lei perso genitori. Aveva cucciolo di cane e tutti aiutava lei: un giorno soldati arriva, fucila uomini e uccide cane. Nostra milizia salva però noi e prende prigionieri soldati. Ivanka anche lei salva, lei offre aiuto per pulire. Voleva aiutare.
Bogdan aveva aperto gli occhi e fissava Mario, ma non lo vedeva. Susan stava in ginocchio con il mento sul tavolo. Sandra una statua di ghiaccio.
-          Ivanka portava anche mangiare prigionieri, capo milizia diceva poi loro processo in città.
      Bambina portava zuppa a comandante soldati.
      E una sera lei taglia gola con rasoio.
      Capo milizia dice che non può punire bambina, ma altri soldati sanno.
E fucila tutti soldati.
Il silenzio, breve, è disturbato solo dal ronzio del frigorifero e del respiro Bogdan. Solo il vino che sgocciola sul pavimento scandisce i secondi.
-          Poi guerra continua e Ivanka cresce, con male dentro, e uccide ancora. Punisce uomini. Un giorno va in paese di mio cugino, da parte sbagliata di confine, e qualcuno accusa lui di parlare con soldati.
Da quel giorno lui parla con nessuno: Ivanka tagliato lingua e dato a cane.
      E poi rideva, lei sempre ride quando uccide o punisce. Ride come bambola.
Mario avvertì un fastidio al collo, le unghie della mano erano screziate di rosso. Aveva accarezzato il mento, grattato e infierito sulla pelle. Nessun dolore, nessun segnale della fame che monta quando fronteggia il male e i mostri: neanche nausea, solo l’idea di stare sull’orlo di un buco nero.
-          Guerra finisce, ma uccidere diventa lavoro. Anche minacciare e punire, veleno è forte e lei non guarisce.
-          Avevo sbagliato nel giudicare Bogdan, - Mario si fa coraggio - mi era sembrato un tipo scontroso. O riservato, accettate le mie scuse. Ma la tua storia che c’entra con oggi?
-          Ora conclusione. Ivanka sempre firma suo “lavoro”, lascia una S: iniziale di suo cane, Sinisa. Vuoi vedere schiena di Bogdan? No, meglio tu guarda vicino rovine bruciate, trova S fatta con sassi.
-          Ancora manca un tassello, perché avrebbe bruciato il tuo allevamento? Non torna, lei amava il suo cane.
La voce di Sandra disse la sua restando fuori campo, alle spalle di Mario.
-          Raccontagliela tutta, Stefan. Sbaglio o la provenienza di molti tuoi cuccioli è poco chiara? Magari hai dato fastidio alle persone sbagliate.
-          Sandra, non mi pare…- Susan tentò una difesa.
-          Cosa? Sai bene che parecchi cuccioli giungevano dai Balcani! “Importati” da mercanti senza scrupoli al soldo di qualche mafioso: gente che si arricchisce perché qualche borghesuccio che non ha mai avuto un cane cerca il giocattolino di carne per suo figlio.
La donna parlava fissando Juric, gli girava attorno come uno squalo fa con il naufrago che a stento resta a galla. Occhi negli occhi, l’allevatore accennò ad alzarsi. Susan trattenne Sandra per un braccio, una frazione di tempo.
-          Resta seduto e taci, e tu lasciami! - diede uno strattone - Voi invece ascoltate, anche tu cuginetto innocente.
-          Ora mi sembra che stai esagerando. - Mario scattò in piedi. Le mani in tasca, davanti aveva una donna. Ma era già capitato.
-          Oh, abbiamo un paladino. Visto che siamo passati al tu, fammi il favore di stare muto.
L’aria che li separava era pochissima, il torace di Sandra si alzava e si abbassava veloce. Mario strinse i pugni nelle tasche.
-          Sono tutto orecchi, cerca di non annoiarmi.
Sandra riprese a circumnavigare divano e poltrone. E proseguì con la sua storia.
-          Che bello, un pacchettino che si muove sotto l’albero di Natale. Poi la bestiola cresce, sporca e perde pelo e voilà: con un gesto del prestigiatore finisce in strada.
Mario scosse la testa e scrutò Susan che perdeva qualche lacrima dall’angolo degli occhi.
-          Qualche bestiola si imbatte in persone come Susan, e la scampa. Poi che c’entra Stefan con chi acquista un cane e poi se ne sbarazza?
-          Bravo avvocato, un applauso. - Sandra batté le mani - Hai idea di quanti cuccioli non superano i cinque mesi di vita?
-          No, - Pinozzi tentò una debole difesa - ma è un problema di proprietari. Ops, di adozioni sbagliate.
-          Basta! Non sai di cosa parli, discutiamo di cuccioli strappati alla madre inseminata più volte l’anno per produrre carne da macello! Passaporti falsificati per importare cani deboli e destinati a morire a causa di parassiti, che li hanno infestati nel doppiofondo di camion o furgoni. Solo in questo Juric può citare i nazisti, i viaggi di quelle bestiole ricordano i treni che correvano verso le camere a gas!
Bogdan scattò come il pupazzo di una scatola a sorpresa, le mani tese in avanti, un suono gutturale gli sfuggì dalla bocca spalancata.
Mario tese la gamba…e lo sorresse nella caduta. Poi lo abbracciò, come si fa con un pugile che picchia forte, come si fa con un amico demoralizzato.
Nessuno pensò a Stefan.
-          Tu, donna sbagliata! - abbaiò, i denti scoperti a pochi centimetri di Sandra - Io uscito da giro, capito miei errori e pagato. Pagato caro, perché io detto non voglio più vostri cani che muore. Loro dice okay, poi manda Ivanka e distrugge tutto. Perché? Dimmi tu, donna che sa tutto!
Seguirono secondi cristallizzati: persone, oggetti e mobilio divennero il prodotto di una stampante 3D. Statue a grandezza naturale di uomini e donne che avevano cessato di parlare e soffrire, simulacri di vite sospese.
Per poco, troppo poco.
La porta venne spalancata con forza e girò sui cardini, infrangendo la piroetta sulla parete. Cinque volti fissarono la figura sulla soglia.
E ciò che stringeva nella mano destra.
-          Bongiorno alla compagnia! Ciao amo’…toh ce stà pure la babbiona del treno. Stateve boni, - brandiva la pistola, agitata con la canna puntata verso il gruppo - tu, canaro da du’ soldi e pure il cugino chiacchierone!
Stefan accennò ad avanzare, Mario lo trattenne. Bogdan fu stoppato a fatica da Sandra. Susan riuscì a parlare per prima.
-          Brutto figlio di una…
-          Amo’, lassa sta’ mi madre. Statte bona e vie’ qua.
-          Muori! Che cazzo ti sei messo in testa, credi di essere uno della banda della Magliana?
-          Statte zitta allora, ma non di’ cazzate. Quanno annamo a magnà da Gino o all’ Hotel a Frascati  i mei quatrini nun te fanno schifo.
Lei si zittì e riprese a decapitare le unghie, dal punto che aveva lasciato.
-          Assettateve che ve racconto ‘na storia. Daje. - la pistola spazzava l’aria.
Romolo prese una sedia e la trascinò vero la cucina, si sedette a cavalcioni e attaccò.
-          Ce stà uno Slavo che vende cani a Ostia, in pineta. Se vole allarga’ e chiede in giro, tiene il grano e amici al suo paese. Ma deve esse’ ‘na cosa che pare pulita, contatti boni, ce vo’ uno del posto. E arriva Romolo, che se move bene e nun parla. Poi ce sta il cugino dello slavo, autista: Fiumicino, hotel, capito?
Così gli affari vanno bene, lo slavo lavora, Romolo se fidanza e c’ha    proggetti. Ma lo slavo non scuce quatrini veri, solo spicci.
Un ghigno, la cicatrice si allunga in una ruga. Il sorriso sghembo di un joker malato.
-          E nun po’ annà, Romolo vole li soldi veri.
Poi, un giorno, lo slavo tiene un’alzata d’ingegno e vo’ uscì dar giro. Fare le     cose ammodo, tiene rimorsi: porelli quei cani…Ma deve paga’ un conto salato.
E Romolo nun ce stà, chiama un amico bravo col piccì e ai compari niente grano. E quelli se ‘ncazzano e bruciano tutto. E Romolo dice “ce metto io gli euri e famo noi gli affari”. Fine.
Dieci occhi lo fissano, nel vano tentativo di utilizzare risorse in dotazione solo al Kryptoniano, ancora una volta la voce più giovane abbrevia il silenzio.
-          Perché i cani, che ti hanno fatto?
-          Niente amò, dovevamo solo fa’ pulizia. E da’ un messaggio.
-          Non chiamarmi amore, conosci solo la parola! -  Susan si avventò brandendo il cavatappi, Romolo la colpì al volto con la pistola.
La giovane rimbalzò, soccorsa da Mario e Sandra. L’odio negli occhi fece spazio alla cruda consapevolezza.
-          Finisce così? – si sorprese che stringeva le mani di Mario.
-          Ce l’hai voluto tu. Addio amo’…
Susan chiuse gli occhi, Bogdan e Stefan si alzarono, Mario si piazzò davanti a Susan. Sandra gridò.
Un nome.
Con gioia.
-          Jeff!
Il cane era entrato spiccando un balzo e serrando le mascelle sul polpaccio di Romolo; Moony lo seguiva a ruota, abbaiava in modo confuso e incerta sul da farsi. I cinque sotto tiro osservarono l’attacco, troppo a lungo. La preda temporanea colpì alla testa Jeff con il calcio dell’arma, il cane si accasciò senza un guaito. Allontanò poi Moony con un calcio e puntò ancora la pistola verso Mario e gli altri, indietreggiando: il medico piegò le braccia, Sandra urlava e Susan singhiozzava. I due cugini schiumavano rabbia.
-          Mo me so’ rotto. - Romolo alzò la mira.
-          Anche io, hi hi hi. Abbassa quella pistola, caro!
Alessia versione risorse umane si era materializzata sull’entrata: in tuta Adidas e arma con silenziatore. A Mario, per un secondo, dispiacque che non vestisse di giallo e tenesse in mano una spada di Hanzo.
-          E tu chi cazzo saresti? - Romolo spostava lo sguardo dal gruppo alla nuova arrivata.
-          Alessia…ops Ivanka, se preferisci. Hi hi hi.

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