!-- Menù Orizzontale con Sottosezioni Inizio -->

News

mi piace

venerdì 4 maggio 2018

Camille Claudel: la Dannazione nelle Mani


 

(di Alessia Ghisi Migliari) 


Avete mai visto il suo ‘Valzer’?

Due corpi incantati (nel senso di incatenati), avvinti, abbandonati a se stessi, dita che si sfiorano, la veste di lei che si scioglie nella materia – si percepisce il possesso.
La scultrice è una giovane donna sfortunatissima, densa di un’intensità mentale e carnale che sta tutta nella sua arte – nelle sua mani, sì.
Nelle sue mani perchè sono ciò che le permette di ‘creare’, ma anche perchè sono spesso il soggetto che più di tutti comunica, nelle sue opere: le mani, che pare che siano di sua fattura anche in alcune opere del fatale maestro, Rodin.
In ogni suo lavoro si percepisce una costante tensione senza sosta, nudi in posizioni plastiche e disperate e sublimi e passionali.

E dietro lei: Camille.
E’ solo un’adolescente quando arriva a Parigi, con madre e fratelli; fino ad allora, Camille Claudel era rimasta nel nord della Francia, dove era nata, ad Aisne, nel 1864.
Il suo amore per lo scolpire, l’estrarre dalla materia immagini della sua mente, l’ha da quando è piccola, e nella capitale francese può finalmente inseguire quella che, per una signorina dell’epoca, non è esattamente una carriera raccomandabile.
Ma è indomita e tenace e quindi finisce all’Accademia Colarossi, per poi tornare a casa – Montparnasse è un eden, per un’aspirante artista.

Ad aiutarla è lo scultore Boucher, che si era accorto del suo talento nel mentre che lei posava come modella, perchè Camille, oltre che dotata è bella, secondo canoni che si potrebbero dire moderni.

Affitta uno studio con degli amici inglesi, plasma, inizia ad esporre, conosce Rodin – di cui verrà definita “pupilla”, il che è abbastanza semplicistico.
Comincia a seguirlo come apprendista e musa (molte opere di Rodin ritrarranno Camille) per poi divenire a pieno titolo collaboratrice in tanta parte della produzione.
Auguste Rodin potrebbe essere per età suo padre, ma del padre non ha certo la solidità: da sempre immerso in un rapporto conflittuale con la compagna Rose (che non lascerà mai), conflittuale a priori, instabile negli umori e inaffidabilenelle relazioni, è lo stereotipo del “creativo” senza pace.

Tra lui e la giovane inizia una tormentosa (ovvio) storia d’amore – anche questa definizione semplicistica, visti i protagonisti.

La gelosia della ragazza e l’incostanza di lui rendono i loro incontri disperati e spesso infelici.
Sono due anime di quelle che paiono incontarsi per realizzare un progetto di pena (vedasi il già raccontato Oscar Wilde con “Bosie”) – Camille trascura le proprie sculture per concentrarsi su quelle di lui, metafora di quella rivoluzione copernicana che avviene nella mente della Claudel: è Auguste il centro di tutto, in questo periodo.
Quando il suo adorato tenta di aiutarla a “svezzarsi”, stimolandola a mostrarsi come singola artista e non più come sua protetta, puntualmente lei si impegna per restare dietro le quinte, malgrado l’alta considerazione per quanto esce dalla sue mani dannate (volendo fare ovviamente gli psicologi, c’è da chiedersi quando nascondersi in Rodin l’abbia esentata dall’entrare in una realtà spaventosa proprio perchè fulgida – il realizzarsi può essere spaventoso).
Non è ben considerata, socialmente: è una donna che fa la scultrice e intrattiene una relazione ambigua – una fama che non si smorza nemmeno con la presunta fine della liason con Auguste.

Anche il fratello minore che tanto ama, Paul Claudel (celebre diplomatico, poeta e sceneggiatore), non accetta questo modus vivendi: profondamente cattolico, non concepisce il comportamento della sorella e lo disapprova fortemente.
Ed è attorno ai suoi quarant’anni, che l’eccentricità si rafforza.
Un’eccentricità preoccupante, fatta di isolamento e disgregazione.
La miseria nella quale vive, unita al costante peggioramento psicologico, fanno sì che sia proprio lo stimato Paul a farla internare, nel 1913.
Passano gli anni: nelle sue lucide lettere, chiede di essere rilasciata e persino un medico propone alla madre di Camille un processo di re-integrazione all’esterno – ma la donna rifiuta.
Ha sempre creato guai, quella figlia strana.
Le missive di Camille sono imploranti, disperatissime, ma non servono.
Se, nel mondo, i suoi lavori prosperano, lei, rinchiusa, appassisce.
E muore, nel 1943.
Tristissima, la sorte di tanto innegabile genio.
E controversi gli aspetti psichitrici.
Senza dubbio, aveva una forte depressione, protratta per anni.
Indubbi anche i sintomi persecutori subentrati prima del ricovero e il degrado nel quale prese a vivere.
Se questo può far comprendere la scelta del fratello, più crudele appare l’assenza di una seconda possibilità: le istituzioni manicomiali erano, nel passato remoto, luoghi nei quali facilmente si entrava e difficilmente si usciva.
Luoghi permeati da una scienza ancora giovane, inesperta e a tratti spaventosa (si pensi al rischio corso dalla scrittrice Janet Frame, che stava per essere lobotomizzata), la psichiatria, e dalla credenza dell’impossibilità di una guarigione.
Il dolore immane, qui, risiede anche nell’assenza delle figure-chiave: la madre e la sorella si scordarono di questa “parente” scomoda che tanto le pregava di venirla a trovare o, assecondando il consiglio di un dottore, di lasciarla uscire.
Non scolpisce, Camille, in manicomio.
Decenni persi per noi appassionati d’arte, ma soprattutto mezza vita di un essere umano – mezza vita smarrita per lunghi corridoi angosciosi.
Ciò che colpisce è la nettezza di pensiero che traspare da molte sue lettere.
Considerazioni talvolta infantili e stanche, seduttive nel tentativo di convincere, ma sovente davvero penetranti, sconsolate e reali.
Parole che, a leggerle, si percepisce chiaramente l’ingiustizia dell’irreversibilità della condanna (poichè tale fu).
Questa donna senza dubbio bisognosa di cure, depressa e con un disturbo ancora oggi non ben definibile (si ricorreva sovente alla demenza precoce, la schizofrenia, definizione ampiamente elargita), la cui sintomatologia si può ricondurre a numerosi disturbi categorizzati del DMS IV TR, fu lasciata nel nulla.

Semplicemente, vegetava.
Lei, così bisognosa di attività ed espressione, svanisce nel niente, giorno dopo giorno.
Come disse atrocemente suo fratello: “Mia sorella Camille aveva una bellezza straordinaria, ed inoltre un’energia, un’immaginazione, una volontà del tutto eccezionali. E tutti questi doni superbi non sono serviti a nulla; dopo una vita estremamente dolorosa, è pervenuta a un fallimento completo”.

Se è vero il giudizio sulla pena da lei patita e della sua sconfitta come persona, definire Camille un “fallimento completo” è pressoché assurdo: è oggi una delle più celebrate e apprezzate scultrici.
Fa pensare, che tanta rarità debba essere costellata anche da tanta sofferenza – eppure capita spesso: in un mondo abitato da molte felici mediocrità, una creatura magnifica e viva come Camille ci ha dato opere preziosissime, al costo di una totale e perenne infelicità.
E’ forse uno dei più noti esempi di “mente d’arte” secondo luoghi comuni – chissà se avrebbe dato il suo talento e la sua unicità per un pò di banale e splendida quiete (forse le cure psichiatriche e psicologiche stemperano tanti potenziali artisti per lasciarci, fortunatamente, individui un po' più sereni!).

Lo stupore che possiamo avere oggi per una persona istituzionalizzata per decenni, senza possibilità di appello e lo stupore che si può provare di fronte ai suoi lavori finiscono per convergere.
E appare, prepotente, una delle sue realizzazioni più note: L’implorante, il cui titolo pare profetico delle preghiere che avrebbe rivolto poi per la libertà.
L’implorante è una figura femminile nuda, in ginocchio, la testa reclinata in muto gesto d’umiltà, le braccia in aria, aperte, arrese – è una posizione nella quale non si può resistere, se fosse viva, si sa che dopo un secondo, con le gambe in quella posizione, cadrebbe.

Una caduta infinita.

La caduta di Camille.
(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore)




Nessun commento:

Posta un commento