(di Elettra Carnelli)
Il genocidio culturale: perdita del sacro, distruzione
di una cultura
Come
si evince dai paragrafi precedenti, uno dei motivi di fondo delle riflessioni
pasoliniane consiste nel rapporto tra cultura e economia nei processi di
modernizzazione accelerata, concomitanti ad uno sviluppo industriale repentino.
Occorre qui precisare il significato attribuito da Pasolini al termine cultura
che viene inteso, nei suoi scritti, come “il sapere e il modo di essere di un
paese nel suo insieme, ossia la qualità storica di un popolo con l’infinita
serie di norme, spesso non scritte, e spesso addirittura inconsapevoli, che
determinano la sua visione della realtà e regolano il suo comportamento.”[1]
Nelle culture subalterne Pasolini riconosce un elemento di astoricità nella permanenza di comportamenti antichi e di espressioni simboliche non indirizzate da un orientamento utilitaristico all’azione.
Nelle culture subalterne Pasolini riconosce un elemento di astoricità nella permanenza di comportamenti antichi e di espressioni simboliche non indirizzate da un orientamento utilitaristico all’azione.
Durante le sue
riflessioni sui cambiamenti sociali e comportamentali nell’Italia del boom
economico, Pasolini individua una certa debolezza dovuta all’assenza di una
morale di sostegno e alla mancanza di ideologie a supporto del nuovo modello
che va imponendosi. L’autore tenterà di
dimostrare gli effetti disastrosi che lo sviluppo neocapitalista stava
arrecando alla società individuando nel declino della civiltà contadina e
sottoproletaria uno dei principali fattori di crisi. Il mondo agricolo preindustriale risulta
essere caro a Pasolini non solo per motivi idealizzati o affettivi; esso
infatti incarna un tipo di civiltà “nella quale il sistema di relazioni sociali
e il sistema di connotazioni, cioè il significato attribuito ai processi
vitali, garantivano all’uomo un’integrazione comunitaria felice, senza
angosce.”[2]
In quest’ottica Pasolini individua nella civiltà contadina una sorta di età
dell’oro, in cui all’uomo era concesso di raggiungere la felicità perché
inserito in un sistema da lui riconoscibile e trasmettibile alle generazioni
successive.
L’autenticità dei valori di un
mondo che sta scomparendo rappresenta il cardine, il punto di riferimento
centrale delle sue priorità intellettuali. Il riconoscimento di un’idealità
aurea riferita allo stato di natura, che trovi un riscontro nell’aurea società
della ribellione attraverso l’autenticità dei valori popolari, rappresenta per
Pasolini il principio di speranza.[3]
È importante
sottolineare l’importanza che per l’autore riveste la conservazione di
un’integrità culturale, a suo avviso più rilevante dell’aspirazione ad un
miglioramento della qualità della vita: Pasolini legge il concetto di
emancipazione sociale in un’ottica relativistica rispetto ai criteri economici.
Egli si è infatti reso conto che “c’è […] un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente
comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che
quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura
della classe dominante.”[4]
La spinta uniformante del neocapitalismo ha violentemente proiettato le masse
contadine e sottoproletarie nella società dei consumi, dove non vi è spazio che
per la logica della merce e per l’edonismo del consumo, diffusisi a dogma per
l’intera società. Il vuoto lasciato dal declino della civiltà dell’Italia
paleo-industriale “aspetta probabilmente di essere colmato da una completa
borghesizzazione.”[5]
Questa condizione è il presupposto per il passaggio dal controllo di individui
al controllo di uomini-massa, omologati, interscambiabili, dediti al consumo,
privi di qualsiasi contatto con la realtà.
La
scomparsa delle culture delle classi subalterne non riguarda solo una perdita
in termini antropologici o etnografici: queste manifestazioni infatti
rappresentano per Pasolini dei baluardi di resistenza all’avanzata di una
società scarsamente differenziata, dai valori omologanti e quindi degradanti
per l’individuo. In questo modo l’autore, che si è sempre battuto contro i
falsi miti e i falsi sentimenti, lasciti di una società clerico-fascista, si
trova a rimpiangere e a difendere le sacralità dell’universo mitico delle
culture preindustriali. Infatti l’avanzata del nuovo potere votato al
consumismo, infinitamente più efficace di qualsiasi altro potere manifestatosi
in precedenza, elimina ogni aspetto di sacralità che non riguardi i miti
consumistici della società del benessere; la persuasione a seguire una logica
edonistica della vita, focalizzata sul possesso, ridicolizza e minimizza persino i
dogmi e i miti di una concezione religiosa o moralistica. I nuovi valori del
consumo e della merce si rivelano essere più forti di quelli tradizionali, che
fino a quel momento costituivano gli elementi fondanti della vita degli
individui; Pasolini constata, non senza un certo sgomento, che persino la
Chiesa non è più in grado di far presa sulle coscienze e di contrastare la
sempre più incalzante civiltà del consumo.[6]
Il processo di
desacralizzazione della realtà risulta essere un punto particolarmente dolente
nell’analisi di Pasolini: questa sorta di secolarizzazione sancisce la perdita
della dimensione del sacro nel mondo simbolico dell’uomo e delle sue relazioni,
dove per sacro si intende “un elemento dell’esperienza sottratto alla
materialità della vita quotidiana, alla sua relazione immediata con la sfera
della vita biologica, e soprattutto con quella della vita raziocinante.”[7]
Il sacro è un momento di sospensione dalla quotidianità, inteso da Pasolini più
come parte di una filosofia della salvezza personale che come elemento della
religione. L’angosciosa constatazione della perdita di tale sentimento nel
popolo, ormai divenuto massa, ad opera del neocapitalismo arreca un vero e
proprio lutto a Pasolini, che definisce la miseria spirituale e morale che lo
circonda come frutto di un genocidio culturale.
Conclusioni

estremamente complesso e talvolta controverso; le borgate di Roma, la vitale miseria dell’India, la perfezione irreale di Sana’a, la distruttiva società dei consumi risultano essere eloquenti analisi di un mondo in trasformazione, che ancora oggi colpiscono per la loro concretezza. In sede di conclusioni non vorrei limitarmi a commentare quanto illustrato in precedenza, già di per sé eloquente, ma piuttosto sottolineare la sorprendente e vitale attualità di Pasolini nella sua apparente inattualità. Tale assunto, forse paradossale, può essere così giustificato: le opere di Pasolini, appendice vivente della sua stessa esistenza, contengono in filigrana un accorato e veemente appello alla conservazione di quell’inestimabile patrimonio che è la cultura di un Paese, travolta dall’avanzata di uno sviluppo senza progresso, privo di qualsiasi contatto col passato e, per questo, irreale e mostruoso. In virtù di questa strenua difesa di un mondo arcaico Pasolini è stato spesso considerato un intellettuale nostalgico, se non reazionario: il suo amore per il sottoproletariato è stato infatti interpretato in termini di regressione rispetto allo sviluppo dell’Italia del secondo dopoguerra. Tuttavia il rifugiarsi in un passato mitico o in un universo fantastico non è indice di disimpegno o di nostalgia, come potrebbe sembrare a prima vista: Pasolini infatti utilizza il rimando ad un origine preistorica o prerazionale per allontanarsi metaforicamente dalla realtà a lui contemporanea e per meglio comprenderne il brusco cambiamento. L’accorato appello alla conservazione, all’amore per la tradizione, alla cura dei ruderi non va pertanto interpretato come un reazionario allontanamento dalla realtà con le sue problematiche: è proprio nel rapporto col passato che Pasolini individua le radici di un fruttuoso rapporto col presente e col futuro, che i suoi contemporanei hanno dimenticato, travolti da un consumismo non necessario e da uno sviluppo che ha declassato l’uomo da individuo a consumatore.
Adesso, preferisco muovermi
nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente
sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati
i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati
negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente.[8]
La ‘forza del
passato’ che il poeta dichiara di incarnare in Poesie mondane[9]
non si esaurisce in un semplice richiamo ad un’epoca precedente, mitica e
arcaica, ma si proietta in avanti, oltre l’orizzonte del presente. Ogni operazione di rappresentazione della
realtà si tinge così di un certo anacronismo, in cui l’autore appare sempre
fuori sincrono, slegato rispetto al suo tempo. Pasolini è stato in grado di
abitare poeticamente questa disgiunzione con la sua epoca, riconoscendone gli
elementi di crisi e opponendovi resistenza; non a caso è stato uno dei
pochissimi, a suo tempo, ad aver compreso la portata dei rivolgimenti che
l’avanzata della modernità stava arrecando all’Italia e alla sua cultura.
Secondo quest’ottica la conservazione del passato non significa semplicemente
preservare la forma esteriore delle sue manifestazioni, ma piuttosto permettere
la sopravvivenza di modi differenti di vivere e di pensare; secondo Pasolini
infatti è nella dimensione naturale e preistorica della vita del popolo
contadino e sottoproletario che risiede una valida opposizione allo sviluppo
neocapitalista. Lottare per la conservazione di tutte le forme subalterne di
cultura è il mezzo più efficace di resistenza alla modernizzazione; il monito
“difendi, conserva, prega”, fulcro di uno degli ultimi componimenti poetici di
Pasolini, Saluto e Augurio[10],
deve essere fatto proprio da chi,
una volta compresa la ‘scandalosa forza rivoluzionaria del passato’, voglia
rivolgersi consapevolmente al futuro, architetti compresi. Infatti la perdita
di un rapporto col passato riguarda da vicino anche l’ambito architettonico e
paesaggistico: un atteggiamento noncurante verso il passato e la sua forza ha
portato, non solo in Italia, a conseguenze disastrose per le città e il
territorio, tanto che quel linguaggio architettonico “senza fantasia, senza
invenzione”, oggi nella sua versione imbellettata e aggiornata, viene
tollerato, o peggio, dato per scontato. Pasolini ha avuto, tra gli altri, il
merito di porre una questione a prima vista esclusivamente estetica sul piano
decisivo del rapporto tra città e società, in un’epoca in cui l’entusiastica
esaltazione dello sviluppo e del boom economico lasciavano poco spazio a
riflessioni critiche. Pertanto tollerare un paesaggio depauperato,
un’architettura mediocre o un’urbanistica approssimativa equivale ad accettare
uno sviluppo che, imbruttendo i luoghi, ne annienta anche gli abitanti.
Nell’ideologia pasoliniana la questione estetica assume una valenza etica e
politica, in cui bellezza e armonia sono assunti a requisiti basilari per un
mondo a misura d’uomo.
Il mio estetismo è
inscindibile dalla mia cultura. Perché mancare la mia cultura di un suo
elemento anche se spurio, magari, e superfluo? Esso completa un tutto: e non ho
scrupoli a dirlo perché proprio in questi ultimi anni mi sono convinto che la
povertà e l’arretratezza non sono affatto il male peggiore […]. Ciò mi dà il
diritto a non vergognarmi del mio ‘sentimento del bello’. Un uomo di cultura
[…] non può essere che estremamente anticipato o estremamente ritardato (o
magari tutte e due le cose insieme, com’è il mio caso). Quindi è lui che va
ascoltato: perché nella sua attualità, nel suo farsi immediato, cioè nel suo
presente, la realtà non possiede che il linguaggio delle cose, e non può essere
che vissuta.[11]
Alla luce di queste
considerazioni è opportuno domandarsi quanto l’accusa di inattualità rivolta a Pasolini
sia fondata: a prima vista è evidente l’anacronismo vissuto e abitato
dall’autore, che ha eccezionalmente analizzato e compreso la sua epoca grazie
alla sconnessione con il tempo storico in cui viveva. Ma è proprio grazie a
tale inattualità che le sue analisi, mosse da una razionalità lucida e inedita,
ancora oggi colpiscono per la loro attualità. In questo senso, paradossalmente,
l’essere fuori dal tempo storico, slegati rispetto alla propria epoca, è indice
di contemporaneità: “appartiene veramente al suo tempo, è veramente
contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle
sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale.”[12]
L’essere contemporaneo risiede proprio in un anacronismo, in una sconnessione
rispetto al tempo storico. Solo così sarebbe possibile comprendere e analizzare oggettivamente un evento di cui la
propria epoca va orgogliosa; coincidere col proprio tempo comporterebbe infatti
non vederlo davvero, perché abbagliati dalle sue luci. In questo modo
l’inattuale è in realtà colui che, in virtù di tale frizione rispetto al
presente,
può accedere alla verità
del suo tempo. La contemporaneità pertanto è “quella relazione col tempo che
aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo”[13],
è quell’azione coraggiosa che porta a non lasciarsi ingannare dalle luci della
propria epoca per guardarne le zone d’ombra a viso aperto. A mio parere questa
definizione di contemporaneità coincide con le opere e il messaggio di Pasolini:
l’amore dell’arcaico e il rifiuto del progresso e della modernizzazione “non
sono affatto lodi del tempo passato.”[14]
Esse sono piuttosto delle manifestazioni della non-coincidenza di Pasolini
rispetto alla sua epoca, che l’autore ha lucidamente analizzato mantenendo
posizioni di razionale opposizione fino alla fine della propria vita. Questa singolare
relazione col proprio tempo sembra essersi concretizzata in ogni opera di
Pasolini, in cui passato, presente e futuro sono sempre stati analizzati criticamente.
Alla luce di tali riflessioni è riduttivo considerare Pasolini come un
nostalgico o un reazionario: il passato non è il punto di arrivo, quanto
piuttosto il punto di partenza della denuncia dell’apocalisse senza sacro operata dalla modernizzazione. Le sue
analisi non valgono come lamento, ma piuttosto come diagnosi di un presente
caotico e multiforme, in cui l’autore riveste il ruolo dell’intellettuale dallo
sguardo disincantato e amaro, le cui parole sono giustificate da un rifiuto
totale e viscerale:
‘Il rifiuto è sempre stato un
gesto essenziale. I santi, gli eremiti, ma anche gli intellettuali, i pochi che
hanno fatto la storia sono quelli che hanno detto di no, mica i cortigiani e
gli assistenti dei cardinali. Il rifiuto per funzionare deve essere grande, non
piccolo, totale, non su questo o quel punto, ‘assurdo’, non di buon senso.’ […]
Dire di no, dunque, non è solo l’unica via etica percorribile per tutti coloro
che contestano il corso del mondo, ma è pure l’essenziale stesso dell’uomo di
cultura così come dell’autentico religioso, del religioso, del religioso che fa
della propria vita una missione di religio,
cioè di mediazione tra l’uomo e il sacro.[15]
“Dire di no” al
presente non significa chiudersi all’avvenire, ma opporre resistenza a ciò che
c’è, registrando la scomparsa di una tradizione depositaria di senso e
salvezza, in attesa del suo ritorno: “il rifiuto sospende il corso del mondo e
apre il tempo dell’attesa.”[16]
In quest’ottica tutta l’opera e la vita di Pasolini esprimono, nel “continuare
imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a
identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”[17],
un appassionato e coinvolgente inno alla vita.
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Nottetempo, Roma 2008.
J. Ballò, G.
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Unicopli, Milano 2001.
R. Carnero, Morire per le idee. Vita letteraria di Pier
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P.P. Pasolini, Lettere luterane, edizioni Garzanti,
2015.
P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Ugo Guanda Editore,
Parma 2002.
P.P. Pasolini, Petrolio, edizioni Einaudi, 1992.
P.P Pasolini, Poesie, edizioni Garzanti, 2013.
P.P. Pasolini, Ragazzi di vita, edizioni Garzanti,
2014.
P.P. Pasolini, Scritti corsari, edizioni Garzanti,
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P.P. Pasolini, Storie della città di dio: racconti e
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P.P. Pasolini, Una vita violenta, edizioni Garzanti,
2010.
G. Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo: il
capitalismo secondo Pasolini, a cura di V. Ronchi, Bruno Mondadori Editori,
Milano 2015.
E. Siciliano, Vita di Pasolini, Oscar Mondadori, 2005.
AA. VV., Inattualità di Pasolini, in “aut aut”,
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M. Cerami, M. Sesti, Italia, 2006.
Accattone, P.P. Pasolini,
Italia, 1961.
Mamma
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P.P. Pasolini, Italia, 1962.
Uccellacci
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Appunti
per un film sull’India, P.P. Pasolini, Italia, 1968.
Le
mura di Sana'a (documentario in forma d'appello all'UNESCO), P.P. Pasolini,
Yemen, 1971.
La
forma della città,
P.P. Pasolini, Italia, 1974.
[1] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 99.
[3] Ibidem, pag. 175-176.
[4] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 24.
[5] P.P. Pasolini, Scritti corsari, op. cit., pag. 40.
[6] Cfr. P.P. Pasolini, Scritti Corsari, op. cit., pag. 12 e
segg, pag.34 e segg., pag. 77 e seg.
[7] G. Sapelli, op. cit., pag.
23
[8] P.P. Pasolini, Ideologia e poetica (1973), in Per
il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori, Milano 2001, vol. II,
pag. 2995, in D. Giugliano, Una storia
infame: Pasolini e l’orizzonte temporale occidentale, in AA. VV., Inattualità di Pasolini, in “aut aut”,
345, 2010, pag. 114.
[9] “Io sono una forza del passato. / solo
nella tradizione è il mio amore. /Vengo dai ruderi, dalle chiese, / dalle pale
d’altare, dai borghi / abbandonati sugli Appennini o le Prealpi, / dove sono
vissuti i fratelli…”, da P.P. Pasolini, Poesia
in forma di rosa, ed. Garzanti, 1964, in P.P. Pasolini, Poesie, ed. Garzanti, 2013, pag. 123.
[10] Cfr. http://www.doppiozero.com/materiali/ppp/saluto-e-augurio.
[11] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pagg.52-53.
[12] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, edizioni Nottetempo, Roma 2008, pag.
9.
[13] Ibidem.
[14] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 59.
[15] R. Kirchmayr, Pasolini, gli stili della passione, in AA. VV., op. cit., pag. 44.
[16] Ibidem,
pag. 45.
[17] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 215.
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