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venerdì 30 settembre 2016

ELIO VITTORINI, un uomo

articolo di Mimma Zuffi

Queste righe non vogliono essere né un saggio né un articolo di riflessione, bensì un omaggio al percorso di vita di un grande della nostra letteratura: ELIO VITTORINI
ELIO VITTORINI, un uom

Conobbi Elio Vittorini quando ero una bimbetta e quel nome, allora, mi disse ben poco. Più tardi, precisamente nel marzo 1965, lo incontrai nuovamente alla Mondadori e due cose mi colpirono subito: la voce e gli occhi, intelligenti, penetranti, pronti a cogliere qualsiasi lieve sfumatura.
Mi parlò della Sicilia, di Lawrence, di Faulkner, di Pratolini, di Montale, di come alcune volte, chiuso in ufficio, si sentiva soffocare, e la fantasia gli veniva in aiuto.
Vorrei ora sia tracciare una sintetica biografia di questo autore che può essere considerato uno dei grandi della letteratura italiana del Novecento sia analizzare due suoi capolavori.


Elio Vittorini nasce a Siracusa il 23 luglio 1908, maggiore di quattro fratelli. Vive gli anni della sua infanzia in Sicilia, spostandosi da un paese all’altro in seguito ai trasferimenti del padre ferroviere. Ancor prima di frequentare la scuola, aiutato dal padre Sebastiano, legge Robinson Crusoe e Le Mille e una Notte, che rimangono impressi in modo indelebile nella sua mente.
Nel 1921, sfruttando i biglietti ferroviari gratuiti del padre, fugge da casa verso l’Italia Settentrionale. 
Nel 1924 interrompe gli studi di ragioneria, si stabilisce nei pressi di Gorizia, dove trova lavoro come contabile, e poi come assistente in una impresa di costruzioni.
Al 1927 risale la pubblicazione dei primi articoli sulla terza pagina de "La Stampa", diretta a quel tempo da Curzio Malaparte. Questa collaborazione continua fino al 1929, allorché i suoi articoli non sono  più giudicati conformi all’ideologia fascista.
Il 10 settembre 1927 viene celebrato il matrimonio “riparatore” con Rosa Quasimodo, sorella del poeta Salvatore. Quando nell’agosto del 1928 nasce il loro primo figlio lo chiameranno Giusto Curzio, in omaggio a Curzio Malaparte.
Il 13 ottobre 1929 pubblica su “L’Italia letteraria” Scarico di coscienza  in cui afferma che è necessario ci sia un’ apertura europea per la letteratura italiana. Sempre nel 1929 Vittorini inizia la sua collaborazione con “Solaria”, facendo la recensione a Ritratto del mio paese di G. B. Angioletti.
Nel 1930 si trasferisce a Firenze, lavora a “Solaria” e a “La Nazione” dove impara l’inglese con l’aiuto di un tipografo. In collaborazione con Enrico Falqui cura l’antologia “Scrittori Nuovi” per l’editore Carabba.
Nel 1931 esce il volume di racconti Piccola Borghesia.
Nel 1933, sul numero di febbraio di “Solaria” esce la prima puntata di Garofano rosso. Nell’ottobre dello stesso anno, l’editore Mondadori pubblica la sua prima traduzione dall’inglese, si tratta de Il Purosangue di D.H. Lawrence. Due anni dopo, sempre per la stessa casa editrice, esce la traduzione de La vergine e lo Zingaro e altri racconti, sempre di Lawrence.
Nel luglio del 1936 scoppia la guerra civile in Spagna. Come conseguenza, Vittorini interrompe la stesura di Erica e i suoi fratelli.
In quel periodo, Vittorini assiste a una rappresentazione de La Traviata  e questo gli suggerisce osservazioni critiche sul rapporto tra melodramma e romanzo che esporrà poi nella prefazione a Il Garofano rosso nel 1948. Nel dicembre 1936 viene pubblicato il libro Viaggio in Sardegna, preceduto dalla prosa lirica Nei Morlacchi. Nel 1952 Mondadori ristampa questi scritti cambiando il titolo in Sardegna come un’infanzia.
Nel 1937 appare la sua traduzione, sempre per Mondadori, di Gordon Pym di E.A. Poe. Nel settembre dello stesso anno inizia la stesura di Conversazione in Sicilia.
Sul numero 5 di “Letteratura”, anno 1938, pubblica la traduzione di tre racconti di Saroyan, mentre sul numero 6 compare la prima puntata di Conversazione in Sicilia. Più tardi si trasferisce a Milano e comincia a lavorare per l’editore Bompiani.
Il 1939 vede tre altre sue traduzioni: Luce d’agosto di William Faulkner, Il mietitore di Dodder di T. F. Powy e Pian della Tortilla di Steinbeck. Per i tipi Mondadori, in collaborazione con Giansiro Ferrata, pubblica La tragica vicenda di Carlo III.
Nel 1940 escono molte sue traduzioni (“Che ve ne sembra dell’America?”, “ I pascoli del cielo”, “La peste di Londra”, “Il piccolo campo”) e comincia a preparare l’antologia Americana.
Nel marzo 1941 vede la luce, in 350 esemplari, Conversazione in Sicilia  che ha per titolo Nome e lacrime. Pochi mesi dopo viene ristampato da Bompiani con il titolo originale. Sempre Bompiani pubblica la prima edizione di Americana, ma la censura fascista ne vieta la vendita per le note critiche di Vittorini. Traduce Nozze di sangue di Federico Garcia Lorca e Il cammino nella polvere di John Fante.
Nel 1942 esce la ristampa di Americana, questa volta con la prefazione di Emilio Cecchi. Per Mondadori traduce Pagine di viaggio di D. H. Lawrence.
Il 26 luglio 1943, subito dopo la caduta del fascismo, Vittorini viene arrestato e rinchiuso nelle carceri di San Vittore. Liberato poco prima dell’8 settembre partecipa attivamente alla Resistenza e collabora alla stampa clandestina del PCI; pensa anche di far uscire un foglio intitolato “Il Partigiano”, che non viene però approvato dalle autorità antifasciste. Per Sansoni traduce Tito Andronico.
Subito dopo la Liberazione (1945) pubblica Uomini e no e per qualche tempo dirige l’edizione milanese de “L’Unità”. Il 29 settembre 1945 esce il primo numero de “Il Politecnico”, settimanale di cultura contemporanea, pubblicato da Einaudi e diretto dallo stesso Vittorini.
Sul numero 5/6 (1946) Mario Alicata pubblica “La corrente Politecnico” dove critica l’impostazione ideologica della rivista diretta da Vittorini. Da ciò prende il via la sua polemica con il PCI sul tema “politica e cultura” e che avrà termine con la “Lettera a Togliatti”,  pubblicata sul numero 35 de “Il Politecnico”, nella quale Vittorini sostiene l’autonomia del lavoro culturale nei confronti della pratica politica.
Nel 1947 esce Il Sempione strizza l’occhio al Frejus e sul numero due de “La rassegna d’Italia” appare la prima puntata de Lo zio Agrippa passa in treno. Alla fine dell’anno si chiude la rivista “Il Politecnico”, che nel frattempo era diventata mensile.
Nel 1948 pubblica da Mondadori  in volume Il Garofano rosso, scrivendo una prefazione nella quale critica sia il linguaggio sia la tecnica di quel suo vecchio romanzo. Sempre in quell’anno partecipa a “Rencontres Internationales” di Ginevra e interviene con una relazione dal titolo “L’arte è engagement naturale”, che riflette il tema dell’autonomia della cultura già esposto nella polemica con Togliatti.
Nel 1949 il romanzo Lo zio Agrippa passa in treno cambia titolo e diventa Le donne di Messina, pubblicato da Bompiani. Conversazione in Sicilia viene tradotto in America e Hemingway ne scrive la prefazione.
Nel 1950 cura per Einaudi l’edizione dell’ Orlando Furioso e riprende a collaborare con “La Stampa”. Nel 1951 Einaudi lancia una nuova collana di narratori, “I gettoni”, e Vittorini la dirige con entusiasmo e talento: Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Carlo Cassola, Lalla Romano, Mario Rigoni Stern sono solo alcuni degli scrittori che fa pubblicare. Nel settembre dello stesso anno si riapre la polemica con Togliatti.
Nel 1952 cura per Einaudi le Commedie di Goldoni.
Dal 1953 al 1956 vengono ristampati molti suoi romanzi, e nel 1957 raccoglie quasi tutti i suoi scritti critici, corredati da annotazioni e riflessioni, che pubblica per Bompiani con il titolo Diari in pubblico.
Nel 1956 rifiuta di far pubblicare Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Nel  giugno del 1959 esce il primo numero de “Il Menabò”.
Nel 1960 diventa direttore della collana “La Medusa” di Mondadori.
Nel 1961, in collaborazione con Fabio Carpi e Nelo Risi, stende la sceneggiatura del suo romanzo Le strade del mondo. Il film non viene realizzato. Muore suo figlio Giusto.
Nel 1963 Vittorini subisce una prima grave operazione.
Nel 1964 vede la luce una nuova collana di Mondadori progettata da Vittorini, “Nuovi Scrittori Stranieri”.
Il 12 febbraio 1966 muore a Milano mentre sta lavorando a Le due tensioni, libro che uscirà postumo.

CONVERSAZIONE IN SICILIA


Conversazione in Sicilia é caratterizzato da cinque blocchi narrativi che corrispondono ad altrettante tappe simboliche. Ho usato la parola “simbolico” perché il significato di questo libro deve essere cercato nei suoi sottesi simbolici, e non solamente nell’interpretazione della vicenda secondo uno schema tradizionale.
Queste cinque tappe sono:
1.     Il viaggio di Silvestro verso la Sicilia
2.     La conversazione con la madre
3.    Le visite di Silvestro con la madre per le iniezioni
4.   La conoscenza da vicino della palpitante Sicilia
5.   La conversazione con l’ombra di Liborio, fratello di Silvestro.
Nella prima parte l’autore espone il tema e la ragione dell’intera vicenda. Infatti, all’inizio ci imbattiamo in Silvestro, crucciato da una specie di angoscia che lo rende incapace dinanzi ai segni della sofferenza che affligge l’umanità. Egli confessa il suo stato d’animo “credere il genere umano perduto e non avere febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui. Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avendo voglia di nulla”, quando riceve una lettera dal padre lontano in cui lo invita ad andare a trovare la madre sola in Sicilia. Nel leggere questa lettera decide di intraprendere il viaggio, decisione che si potrebbe collegare al suo desiderio di fuga di fronte al male che perseguita il mondo. Quindi questo viaggio è l’espressione della ricerca di qualcosa che possa “curare” tale angoscia. Durante questa corsa verso la Sicilia, Silvestro si imbatte in alcuni personaggi degni di nota: il siciliano che non riesce a vendere le sue arance, i due poliziotti Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo; ogni personaggio ha la propria simbologia. Infatti, il siciliano delle arance rappresenta il carattere del genere umano offeso, mentre Coi Baffi e Senza Baffi rappresentano l’offesa. Rispetto agli altri il Gran Lombardo è diverso, non solo fisicamente (“era un siciliano, grande, un lombardo o un normanno forse di Nicosia, tipo anche lui carrettiere come quelli delle voci sul corridoio, ma autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri”), ma anche moralmente. Uno dei viaggiatori gli domanda: “Siete professore, voi?”, e la sua risposta, le sue parole sono quasi rivelatrici: “Credo che l’uomo sia maturo per altro”, - disse. Non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per essere un buon cittadino. Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri: è per questo che si sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose, da compiere. Cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo.”
Quindi Silvestro trova una prima definizione a quel “qualcosa” che cercava nelle parole del Gran Lombardo: l’uomo riscatterà le offese ricevute solo quando raggiungerà la maturità per “altri doveri”.
Nella seconda parte, il viaggio di Silvestro assume il carattere  di itinerario simbolico.
Dice un critico: “E questo non è un viaggio poetico impressionistico, ma viaggio poetico morale: l’uomo non va nella sua terra a cercare pace o idillio, ma a recuperare il perduto senso eroico di sé”.
Arrivato in Sicilia si accorge che il viaggio non si è esaurito negli incontri fatti in treno ed è concluso, ma sta per cominciare un altro viaggio “nella quarta dimensione” della memoria.

“…il nome del paese era scritto su un muro come sulle cartoline che io mandavo ogni anno a mia madre, e il resto, quella scalinata tra vecchie case, le montagne attorno, le macchie di neve sui tetti, era dinanzi ai miei occhi come d’un tratto ricordavo che era stato una volta o due nella mia infanzia... Questo era  il più importante nell’essere là: non aver finito il mio viaggio; anzi forse averlo appena cominciato… Pareva che non vi fosse stato nulla, o solo un sogno, un intermezzo d’animo, tra l’essere a Siracusa e l’essere là, e che l’essere là fosse effetto della mia decisione, d’un movimento della mia memoria…”

Nel ricordare, e quindi nel rivivere una seconda volta, i fatti, gli oggetti diventano doppiamente reali e fanno ancor più parte di noi stessi. La memoria diventa realtà, e aiuta Silvestro a ritrovare il paesaggio, la casa, la madre: “…e io vidi, nell’odore dell’aringa, la sua faccia senza nulla di meno di quando era stata una faccia giovane, come io ora ricordavo che era stata, ogni cosa era questo, reale due volte…”. E la madre, in questo processo di ricordo, perde, poco a poco, la dimensione materna, per assumere quella di donna.
Concezione, la madre, confessa il suo disprezzo per il marito che corteggia le altre donne, le chiama “api regine”, e scrive per loro poesie oltre a portarsele nel vallone; e per contrasto ammira svisceratamente il padre. Nel dialogo tra madre e figlio, le figure del padre e del marito finiscono per fondersi in una vivace altalena di immagini rievocative. Tuttavia Silvestro  percepisce che la madre non può essere quella donna arida che si fa credere e la pungola quindi a rilevarsi, a confessare che anch’essa è stata qualche volta “una sporca vacca”, come le altre donne: Concezione confessa il suo episodio d’amore con un viandante che era pure lui un Gran Lombardo perché pensava “ad altri doveri”.
Inizia ora la terza parte. La madre si fa accompagnare dal figlio attraverso una “piccola Sicilia ammonticchiata, di nespoli, e tegole, di buchi nella roccia, di terra nera, di capre, con musica di zampogne che si allontanava dietro a noi, e diventava nuvola o neve, in alto”. In ogni casa che visitano si ripete il rituale delle iniezioni, dell’odore di chiuso e della malattia, delle parole scarne: una specie di litania sulle sofferenze dell’umanità.
L’itinerario del viaggio si sposta dalla memoria alla realtà di quel mondo offeso, e i due mondi, ricordo-realtà, diventano un tutt’uno. Silvestro si rende sempre più conto dell’offesa ogni volta che varca la porta di uno di quei tuguri bui e maleodoranti. Attraverso i ragionamenti di Silvestro, Vittorini ci fa partecipi della sua filosofia sulla vita, sul male: “Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. Questo è un dubbio che viene, nella pioggia, quando uno non ha le scarpe rotte, e non ha più nessuno in particolare che gli occupi il cuore, non più una vita sua particolare, nulla più di fatto e da fare, nulla neanche da temere, nulla più da perdere, e deve al di là di se stesso i massacri del mondo: Un uomo ride e un altro piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato; è malato; eppure ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che , nella non speranza, lo vede ridere nei suoi giornali e manifesti di giornali, non va con lui che  ride semmai piange, nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato. Uccidete un uomo: egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, affamato; è più genere umano il genere umano dei morti di fame”.
Sembra quasi che Vittorini, partendo da un determinato fatto storico, il fascismo, ne abbia voluto dare un ritratto simbolico, piuttosto che una descrizione realistica.
Concezione conduce il figlio attraverso i meandri del sesso. Dapprima lo costringe ad assistere al “rito” dell’iniezione a due donne per potergli mostrare “come è fatta una donna” e, allo stesso tempo, continua a chiedergli “…quando è che hai visto la prima volta come è fatta una donna?” Il figlio comincia a rivivere, ancora una volta, i suoi ricordi e si rifiuta di accompagnare ancora la madre che vorrebbe fargli vedere la donna più bella, la signorina Elvira.
Nella quarta parte Silvestro incontra altri personaggi: l’arrotino Calogero, l’uomo Ezechiele, il panniere Porfirio, lo gnomo Colombo. Ognuno di loro propone a Silvestro la propria interpretazione degli altri doveri per alleviare i mali del mondo. Per Calogero è una rivolta individuale che sfoga arrotando il temperino di Silvestro: “Fa piacere arrotare una vera lama: Voi potete lanciarla ed è dardo, potete impugnarla ed è pugnale. Ah, se tutti avessero sempre una lama!”.
Per Ezechiele solamente il soffrire degli altri può alleviare il mondo: “Il mondo è grande e bello ma è molto offeso. Tutti soffrono per se stessi, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad essere offeso”.
Per Porfirio invece “solo l’acqua viva può lavare le offese del mondo e dissetare l’uman genere offeso”.
E per Colombo “acqua viva” è il vino che ha il potere di far dimenticare le sofferenze e le offese. Ma Silvestro, al quarto boccale di vino, si rifiuta di continuare a bere perché il vino può far dimenticare le sofferenze, ma non ha il potere di annullarle del tutto. “Generazioni e generazioni avevano cercato nel vino la nudità, e una generazione beveva dall’altra, dalla nudità di squallido vino delle altre passate, e da tutto il dolore versato.”
Silvestro abbandona la cantina e i suoi compagni occasionali perché “non era in questo che avrei voluto credere, in questo non c’era altro mondo”.
Nella quinta e ultima parte Silvestro fa l’incontro decisivo della sua vita: il fratello Liborio morto da poco in guerra. Dopo aver conosciuto l’ingiustizia, la miseria, la malattia, Silvestro incontra la morte. Il suo pensiero torna al passato, al ricordo delle recite del padre e agli spettatori che erano affascinati soltanto per “virtù di vino” e non per effettiva partecipazione. Di fronte a questa indifferenza, Silvestro esplode in “Oh, mondo offeso! Mondo offeso!”. La risposta che gli giunge è un enigmatico “Ehm”. La conversazione diviene più serrata, e Silvestro si rende conto di parlare col fratello minore.
Era notte sulla Sicilia e la calma terra: l’offeso mondo era coperto di oscurità, gli uomini avevano lumi accanto chiusi con loro nelle stanze, e i morti, tutti gli uccisi, si erano alzati a sedere nelle tombe, meditavano. Io pensai, e la grande notte fu in me notte su notte. Quei lumi in basso, in alto, e quel freddo nell’oscurità, quel ghiaccio di stella nel cielo, non erano una notte sola, erano infinite; e io pensai alle notti di mio nonno, le notti di mio padre, e le notti di Noè, le notti dell’uomo ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno uomo di fanciullo o di un morto.”
Il romanzo finisce con l’immagine di Silvestro accanto a una donna in bronzo offerta ai morti come estrema consolazione. Si chiude così un viaggio durato tre giorni e le notti relative.


UOMINI E NO

Mentre in Conversazione in Sicilia l’evento storico viene analizzato attraverso una serie di simboli e un linguaggio allusivo, in Uomini e no siamo messi direttamente a confronto con la brusca realtà di quel periodo di fuoco.
In questo libro Vittorini offre, da un lato, azione e cronaca, dall’altro, riflessione, che viene messa in evidenza dall’uso del corsivo. Molto spesso la narrazione è interrotta da un commento che potrebbe stonare, quale anche un figlio di puttana può dire “mamma”. Infatti, in questo caso, ci si trova dinanzi a una scena drammatica, a una sorta di movimento cinematografico incalzante: “Una bomba a mano cadde sul camion. – Mamma mia! –, esclamò un milite. Anche un figlio di puttana può dire ‘mamma’. Ma un’altra bomba esplose tra le  ruote posteriori di una delle due macchine”.
Nell’evolversi della narrazione si trovano anche scene grottesche, quale l’episodio del fascista che affronta minaccioso la folla adunata in Largo Augusto domandando: “Chi non è antropofago?”, mentre cerca di liberarsi un dente da qualcosa, tenendosi spalancata la bocca con una mano, frugarsi dentro con l’altra fin quasi alla gola, la testa indietro, e tutto lui che traballava.
Le pagine iniziali fino all’incontro di Enne 2 con Berta sono intense.

Un grande suono allora irruppe in lui; e spinse correndo la bicicletta, attraversò i binari, raggiunse la piazza. Il tranvai era già lontano, percoteva di squilli il suo binario già oltre la fermata successiva, ma egli montò sulla bicicletta e lo rincorse. Un pezzo corse, e mai rivide, nel nero della folla chiusa dentro il tranvai, il gomito e la spalla di una donna per i quali correva. Pure sapeva di non essersi sbagliato, perdurava in lui il grande suono, e da ogni giornata che era stata, settembre e ottobre, novembre e dicembre, uno splendore veniva a lui, e si univa a quello che era ora. In piazza della Scala la donna scese. “Lo sapevo”, le disse, “ch’eri tu”. Lei si appoggiò alla bicicletta. “Era”, egli le disse, “come tu sei stata”. Lei gli prese e baciò la mano, lasciò che parlasse.

Assieme ad altre pagine queste possono rientrare nel quadro di Vittorini scrittore vero. Le altre sono: il vagabondare di Berta nel parco e il colloquio con il vecchio; la descrizione dei morti in Largo Augusto, con l’incontro tra i protagonisti dell’attentato al circolo fascista senza che tra loro venga pronunciata una sola parola; il loro dramma  lo si legge negli occhi e negli sguardi che si scambiano.
Nella parte finale di Enne 2 ci si avvicina, anche se da lontano, a certe pagine di Hemingway in Per chi suona la campana, quando Jordan attende l’arrivo dei falangisti. Ma l’attesa è diversa, infatti il gesto di Enne 2 sembra un rifiuto di vivere in cui la politica si sovrappone al sentimento. L’attesa di Cane Nero è anche l’attesa di un impossibile ritorno di Berta.
Così l’episodio di Giulaj azzannato dai cani del Capitano Clemm riveste tre aspetti: l’allegorico, il crudele e infine il mistico.
Il grande amore tra Enne 2 e Berta è al passo con gli avvenimenti, e l’impossibilità di un incontro definitivo tra loro è in carte causata dall’indecisione di Berta, ma anche dall’incertezza e dal clima che caratterizza la lotta partigiana. L’uomo lotta nella speranza di un futuro libero, di una libertà intesa universalmente. E questo sentimento balza in primo piano anche alla fine quando il giovane operaio non uccide un soldato tedesco perché era troppo triste.
In questo libro il corsivo non rappresenta solo un elemento diverso per indurre alla riflessione, ma dà la sensazione di un libro nel libro, un analizzare in profondità l’animo dell’uomo alla ricerca di un senso da dare alla propria vita al di là del male che distrugge l’uomo. In queste pagine l’amore per Berta non ha più ostacoli, e il clima della guerra pare dissolversi. Ma Enne 2 non può ricordare,  può solo sognare quello che non è stato e che vorrebbe fosse.

Uomini e no non si chiude con Enne 2 in attesa della morte – sentimento quindi negativo – ma con la frase dell’operaio imparerò meglio, quasi ad aprire nuovi orizzonti per il futuro post-bellico.

8 commenti:

  1. Grazie per questo articolo, veramente interessante, un omaggio a un grande scrittore: Elio Vittorini. Mi ha fatto piacere leggerlo e ricordarlo. Di Elio Vittorini ho letto diversi libri e raccomando di leggere qualcuno di quelli raccomandati da Mimma Zuffi. Ne vale la pena! Giovanna Rotondo

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  2. Grazie Giovanna, soprattutto perchè detto da te. Tra i libri da leggere metterei anche "Il garofano rosso".
    Un abbraccio. Mimma

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  3. Analisi approfondita di due capolavori scritti da un Maestro della letteratura italiana.
    Antonella

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    1. Grazie Antonella del commento, e da quello che dici mi pare che tu conosca i libri di Vittorini!

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  4. Bellissimo articolo, Mimma. Mi ha fatto riscoprire la vita di Vittorini ma soprattutto mi hai dato la voglia di andare a rileggermi Uomini e No. E quando un articolo ti spinge a leggere, vuol dire che è di quelli giusto. Grazie ancora. Carlo (A. Martigli)

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  5. Grazie a te Carlo, e detto da un Maestro della penna mi fa molto felice. E' uno splendido regalo.
    Mimma

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  6. Grazie a te ho ripreso in mano Uomini e no. Stupendo. Hai fatto un ottimo lavoro per uno scrittore con la S maiuscola.
    Daniela

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    1. Uomini e no è splendido, così come gli altri scritti di Vittorini. Hai letto Il garofano rosso?
      Grazie del commento e sono contenta che tu abbia ripreso a leggere uno dei miei autori preferiti. Mimma

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