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martedì 10 novembre 2015

Intervista a Stefano Fabei, autore de "La Grande Guerra e la rivoluzione proletaria"

(di Mimma Zuffi)

In occasione della pubblicazione del volume La Grande guerra e la rivoluzione proletaria (in Edibus, Vicenza, 2015, € 18)  abbiamo chiesto un’intervista all’autore. 


Uno degli elementi che colpiscono maggiormente il lettore de La Grande guerra e la rivoluzione proletaria è l’atteggiamento ingenuo con cui i sindacalisti rivoluzionari e alcuni anarchici italiani guardarono al conflitto: cosa può dirci al riguardo?
E’ innegabile che alcuni di loro guardassero con una certa ingenuità alla guerra nella quale videro qualcosa di pedagogico per il proletariato, oltre che di esaltante in quanto strumento per sovvertire l’ordine costituito. Bisogna tuttavia conoscere il contesto, tenere conto che fino a quel momento i tentativi di creare una società più giusta erano falliti e gli strumenti fino allora adottati apparivano inadeguati per raggiungere l’obiettivo. La guerra sembrò l’occasione per eliminare i baluardi della reazione europea, gli Imperi tedesco e austro-ungarico, e al contempo uno strumento per fortificare un proletariato ritenuto poco combattivo e non preparato allo scontro sociale.



Come era possibile conciliare la guerra con le esigenze del proletariato? Fino allora la guerra non era stata vista dai rivoluzionari come frutto della volontà delle classi padronali che la imponevano alle masse operaie e contadine. Non era stata condannata come «forma estrema, perché coatta, della collaborazione di classe»? 
Quando scoppiò il grande conflitto risultò evidente una realtà nuova, caratterizzata dal fallimento di due miti considerati intramontabili dalle forze progressiste: il pacifismo e l’internazionalismo. Il primo di questi due dogmi era stato già in qualche modo messo in discussione al tempo della guerra di Libia, nel 1911; allora tra i sindacalisti c’era già stato chi aveva sottolineato la necessità di distinguere una «brigantesca gesta di prepotenza» dalla «guerra», potenziale corso di pedagogia rivoluzionaria.
Quanto all’altro tabù, la Seconda Internazionale fu costretta a constatare come i partiti socialisti più potenti e organizzati, iniziato il conflitto, avessero fatto causa comune con i governi «reazionari» dei loro Paesi. È quanto si verificò in Germania, Austria-Ungheria, Belgio e Francia, ma anche, in una certa misura, in Inghilterra. Solo in Russia e in Serbia i socialisti manifestarono apertamente la loro opposizione ai governi di guerra. La formula della neutralità assoluta non trovò rispondenza proprio fra i maggiori partiti aderenti all’Internazionale.

L’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 si verificò quindi in un momento di grande confusione per il mondo rivoluzionario italiano…
Senza dubbio… Dopo il fallimento della Settimana rossa nel giugno del 1914, i fatti imposero un grande processo di ripensamento della strategia sovversiva e  tutto, dalla pratica alla teoria, fu rimesso in discussione. Molti uscirono scossi dal fatto che quella clamorosa e inattesa dimostrazione dello spirito rivoluzionario presente in larghi strati proletari si fosse accompagnata alla conferma che un profondo e violento rivolgimento dell’ordine sociale era impossibile, almeno per il momento. La realtà aveva bruciato molti sogni e dimostrato come non si potesse fare la rivoluzione avendo di fronte l’esercito, e rispondere coi sassi ai colpi dei cannoni e delle mitragliatrici. In sintesi: il proletariato non era stato, e non era, capace di prendere il potere secondo i classici schemi rivoluzionari. Bisognava quindi non lasciare svanire la carica che animava il movimento elaborando una nuova strategia.
L’occasione parve essere offerta proprio dalla guerra; quanto più essa fosse stata dura e lunga sarebbe, tanto più sarebbe scattato rivoluzionariamente il Socialismo in Europa. Per Sergio Panunzio, ad esempio, la conflagrazione europea avrebbe indebolito il capitalismo aprendo la strada all’affermazione del Socialismo e del sindacalismo. Altri sindacalisti, con motivazioni spesso tra loro antitetiche, dietro l’impulso di suggestioni mazziniane, risorgimentali e nazionalistiche si schierarono per la partecipazione al conflitto. 
I sostenitori della causa della pace diventarono di conseguenza coloro che volevano conservare il capitalismo. Per Alceste De Ambris bisognava soprattutto salvare le condizioni di vita e di libertà politica già conquistate dal proletariato italiano, base per un’azione rivoluzionaria, dalle conseguenze, interne e internazionali, di una vittoria del feudalesimo e delle forze reazionarie europee rappresentate da Germania e Austria-Ungheria.

E quindi?
Quindi il proletariato doveva assumersi la sua parte di responsabilità perché nel caso in cui il kaiserismo e il pangermanesimo degli Imperi centrali avessero vinto, non vi sarebbe stata nessuna forza atta a controbilanciarli. Qualora, invece, fossero stati sconfitti si sarebbero avuti benefici economici, politici e morali, fra cui il Socialismo sollevato dall’ossessione pangermanistica e veramente internazionale, il sindacalismo autonomista e libertario al posto del centralismo autoritario e forse anche la rivoluzione dei popoli tedeschi liberati. Occorreva spazzare via i detriti ingombranti del Medioevo, far trionfare la libertà, premessa per l’avvenire.

E il Partito socialista italiano che posizione assunse?
Il PSI rimase su posizioni decisamente neutraliste ma alcuni socialisti sperarono che la guerra spianasse la strada alla rivoluzione; in questa confidò Benito Mussolini, allora schierato su posizioni vicine a quelle dei sindacalisti rivoluzionari.

Ci furono quindi convergenze tra i sindacalisti rivoluzionari e il futuro Duce del fascismo?
Certamente. Mussolini e quegli «eretici del marxismo» che erano i sindacalisti che si ispiravano a Georges Sorel videro nella fusione di socialità e nazione un modello politico capace di sradicare una serie di punti fermi e di mescolare le carte prospettando una sintesi nuova. La scelta mussoliniana in favore della guerra e le posizioni sindacal-rivoluzionarie di Corridoni, Panunzio, De Ambris, Orano e altri furono l’anima dell’interventismo rivoluzionario, da cui poi cominciò quel turbolento dopoguerra fatto di sovversivismo e di richiami all’ordine.

E cioè il Fascismo…
Sì, ma anche l’antifascismo, a dimostrazione che movimenti culturali complessi diedero spunti e personaggi a fenomeni storici e politici contrapposti. Molti ex sindacalisti rivoluzionari interventisti seguirono Mussolini, ma altri ne diventarono oppositori… eliminabili.

Non le sembra che questi sviluppi siano stati contraddittori?
Sì e no… a seconda delle prospettive. D’altra parte quelli della storia non sempre sono sviluppi «logici». Occorre tenere in considerazione quel momento e quel mondo, caratterizzati da un’alta tensione ideologica, di cui ho cercato nel libro di rappresentare le sfumature. Per quanto riguarda i sindacalisti soreliani non ci fu solo l’adesione alle ragioni della nazione, ma anche la consapevolezza che si potesse essere nazionalisti e rivoluzionari nello stesso tempo: un modo nuovo di concepire la rivoluzione vista in termini non lesivi dello Stato. 

Quale fu il limite, se così si può dire, dei sindacalisti rivoluzionari interventisti?
Quello di non capire che la loro visione di un autogoverno delle categorie, di una società organizzata in termini sindacali, con poco Stato e con molta responsabilità di categoria, sarebbe stato cancellato dopo la guerra, perché anzi…  di lì a qualche anno lo Stato diventò una realtà pesante nella società e con il Fascismo il suo ruolo andò oltre il peso del Partito fascista e, ancor più, dei sindacati, diventati organismi di diritto pubblico.

Potrebbe dirci qualcosa circa la posizione assunta difronte alla guerra da Filippo Corridoni?
Per Corridoni, che avrebbe pagato di lì a poco con la vita, morendo da eroe alla Trincea delle Frasche (Carso, 23 ottobre 1915) la sua scelta interventista, il sindacalismo era nella teoria e nella prassi un’anticipazione teorica, un argomento dialettico che era servito nella lotta al riformismo ma si era dimostrato irrealizzabile in un Paese quale l’Italia ancora, per tre quarti, precapitalistica, priva di una situazione economica e sociale avanzata e quindi in grado di permettere l’affermazione del sindacalismo stesso: questa situazione doveva pertanto essere creata. La guerra avrebbe liberato l’Europa dall’incubo del militarismo e della reazione germanica, assicurato al proletariato di poter continuare a usufruire delle conquiste già ottenute, permesso una politica di disarmo e di sviluppo economico che avrebbe accelerato il processo di proletarizzazione creando le condizioni necessarie al naturale gioco dei conflitti di classe, eliminando il falso Socialismo cooperativista, mutualista, politicantista, e conducendo inevitabilmente al trionfo del sindacalismo. 

Quindi la Grande guerra come premessa alla rivoluzione?
In un certo senso sì, almeno nelle speranze dei sindacalisti interventisti. Il conflitto fu senza dubbio una tragedia, ma fu anche un’occasione di ripensamento dei vecchi schemi interpretativi della realtà politica, sociale ed economica. Favorì, con altri fattori, lo scoppio della rivoluzione bolscevica in Russia. In Italia fu il contesto in cui emersero molte di quelle idee che sarebbero state alla base del pensiero e della visione del mondo del Fascismo. Il socialista eretico Mussolini sintetizzò nella nuova dottrina politica posizioni, idee e suggestioni, espresse in modo talvolta incoerente con i presupposti ideologici originari, spesso percepiti come costrittivi e sclerotizzanti, dai sindacalisti interventisti.

Stefano Fabei, docente di Materie letterarie e Storia all’Istituto di Istruzione Superiore «Giordano Bruno» di Perugia, è uno scrittore appassionato di storia, collaboratore di varie riviste come «Studi Piacentini», «Treccani Scuola», «I sentieri della ricerca», «Eurasia», «Nuova Storia Contemporanea», «Rassegna Siciliana di Storia e Cultura», «Storia in rete». Saggista, dal 1988 ha pubblicato una ventina di volumi: La politica maghrebina del Terzo Reich, Guerra santa nel Golfo, Guerra e proletariato, Il Reich e l’Afghanistan, Il fascio, la svastica e la mezzaluna, Una vita per la Palestina, Mussolini e la resistenza palestinese, I cetnici nella Seconda guerra mondiale, Carmelo Borg Pisani: eroe o traditore?, La legione straniera di Mussolini, Operazione Barbarossa. 22 giugno 1941, I neri e i rossi. Tentativi di conciliazione nella repubblica di Mussolini, Fascismo d’acciaio. Maceo Carloni e il sindacalismo a Terni (1920-1944), Il generale delle Camicie nere, «TAGLIAMENTO» La legione delle Camicie nere in Russia (1941-1943), Storia del Marocco moderno, Les arabes de France sous le drapeau du Reich, Le faisceau, la croix gammée et le croissant. 
Per ulteriori informazioni visitare il  sito www.stefanofabei.it     


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