(di Giovanna Ungaro di Montejaisi)
CINZIA, LA COCCA
Mentre era in vacanza, Cinzia era diventata gialla
come il limoncello. In ospedale le avevano diagnosticato una grave anemia
autoimmune e non le avevano nascosto che, qualora il fisico non avesse risposto
alla terapia cortisonica, avrebbe avuto scarse probabilità di sopravvivenza,
anche perché era portatrice di epatite C.
Una condizione tanto estrema l’aveva messa di
fronte ad uno dei concetti fondamentali del buddismo di Nichiren Daishonin, che
praticava da nove anni: la speranza è certezza di trasformazione. ‘In un
modo o in un altro di sicuro’ aveva pensato realisticamente ed aveva cercato di
farsene una ragione. Dopo qualche giorno di filo ferro con la salute e con una
compagna di stanza perennemente circondata da un gruppo di preghiera, era arrivata
ad un accomodamento: avrebbero pregato, da sole, ognuna secondo il proprio
credo. Di conseguenza il mantra Nam Myoho Renge Kyo si era intrecciato alle litanie
dei santi, in una sorta di ecumenismo ospedaliero che aveva entusiasmato il
cappellano ‘Il Signore è entrato in questa stanza’ ‘Allora apriamo la porta!’
aveva reagito Cinzia, che nel frattempo era diventata Cocca, perché aveva
cominciato a cocc…olare i ricoverati più
disastrati (ed a sedare i bisticci serali di fronte alla tivù con l’introduzione
dei bigliettini numerati, tipo ASL: chi pescava l’uno aveva diritto a scegliere
un’ora di programma e gli altri zitti e mosca).
Nel non sgomentarsi (più di tanto) sul proprio
futuro e nel cercare di rasserenare i compagni di reparto, il suo organismo
aveva reagito progressivamente meglio, cosicché venti giorni (di insonnia) dopo
aveva potuto lasciare la struttura, rimpianta da chi restava.
La sua storia riassume bene il fatto che,
migliorando se stessi, si può migliorare l’ambiente. Come scriveva Giordano
Bruni “Il linguaggio della cura dell’altro è frutto della presenza del divino
nel nostro profondo”.
Ci si può arrivare da più vie, nel caso di Cinzia
da una ferrata in alta montagna, dato che aveva partorito a 24 anni un giorno
dopo la morte del marito ed assistito per lunghi anni la madre malata. E non
solo.
In quanto alle
patologie, esse sarebbero proporzionali all’intensità della reazione
repressa a un problema o a un dolore (e lo testimonio dopo un incidente vascolare da parto, due
cancri al seno, una leaky gut syndrome ed altre intemperanze del sistema
autoimmune). La pressione psicologica può essere depotenziata con un intervento
sui corpi
sottili.
Infatti nel MetT è
predisposta una sorta di valvola di sicurezza - il cuore alto - per scaricare l’eventuale eccesso di
calore emotivo: se una caldaia o una pentola a pressione non avessero un
dispositivo di scarico esploderebbero. Noi, che non siamo stufe o pignatte, ci
ammaliamo, a meno di non cooperare col sopracitato cuore alto, che è un po’ il
nostro ‘grillo parlante’.
Come si riesce ad utilizzarlo? Focalizzando
l’intenzione sul miglioramento interiore. Strada che inizia col non recare
danno a terzi (‘come i robot di Asimov!’ aveva esclamato uno che doveva apprezzare più la fantascienza dell’etica. Ho un
uditorio alquanto trasversale) e, nel caso il danno sia già stato arrecato o
subìto, nel curarlo con l’attitudine al perdono. E scrivo attitudine perché,
malgrado l’impegno, non sempre ci si riesce.
SOLUZIONI NELL'AMORE
Quando la
materia è stanca, la si può sostenere anche adottando
propositi apparentemente poco chiari: ‘Se fino ad ora sono stato male per stare
bene (spiritualmente), ora scelgo di stare bene per stare bene’. Sembra uno
scioglilingua alla ‘sopra la panca la capra campa’, ma è alquanto realistico: chi è disposto a imparare dalle proprie cicatrici, dopo può
vivere nello spirito di guarigione. Non è più il tempo di stare male per
stare bene.
Le nostre ‘terre interiori’
non sono lande spaesanti ed insidiose. Non siamo un uovo da spiaccicare. Tutto
si risolve nell’essere soggetti d’amore.
(leggete anche il blog di Giovanna Ungaro di Montejaisi: amicomett.wordpress.com)
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