Illustrazioni di Chiara Civati Milena Edizioni, 2016 |
(Recensione di Ilaria Biondi)
Le
origini della fiaba si perdono nelle nebbie sfocate di un tempo molto remoto,
agli albori della storia dell’uomo.
Le
fiabe in origine non erano concepite come una forma di letteratura per ragazzi:
erano raccontate dagli adulti ed erano destinate ai giovani e ai vecchi.
Narravano del destino dell’uomo, con le sue luci e ombre, con le sue paure e le
sue speranze, nei suoi rapporti con gli altri esseri umani e con la dimensione
misterica del soprannaturale. Una narrazione che, attraverso il piacere che
sapeva suscitare negli auditori, sollecitava a meditare su questioni cruciali e
trasmetteva insegnamenti fondanti.
Se
ci affidiamo alle parole di Bruno Bettelheim, stimato esperto di psicologia
infantile e fine studioso della fiaba tradizionale, è a tutt’oggi impossibile
determinare con esattezza il momento e il luogo in cui fu pensata, immaginata e
creata la prima storia che poi è andata sotto il nome di Cenerentola. È certo tuttavia che ne esista una versione cinese
risalente a più di mille anni fa, versione che, secondo le indicazioni del suo
narratore, certo Tuan Ch’eng-shih, risalirebbe a sua volta a una storia
antichissima, tramandata di generazione in generazione.[1]
Le
fiabe sono pertanto antiche.
Ma
esse sono al contempo moderne, e per un duplice motivo: si continua a crearne
di nuove e si continua a riattualizzare quelle tradizionali, ricreandole,
“traducendole” con originalità, conferendo loro una veste nuova, che pur s' innesta
su motivi e temi esistenti, a testimonianza della vitalità di questa forma
d’arte unica, di cui l’uomo non può fare a meno perché essa risponde a bisogni
inconsci universali (la necessità di proiettare le proprie angosce e la
promessa di una liberazione finale in termini positivi che apre la strada alla
speranza).
Parafrasando Italo
Calvino, potremmo dire che una fiaba è una storia “che non ha mai finito di dire quel che ha
da dire”. Da questo “gioco”, che presuppone una conoscenza approfondita e un
amore appassionato per questo genere letterario, oltre ad una capacità
d’invenzione raffinata, possono sgusciar fuori delle gemme preziose, che si offrono
in tutta la loro radiosa bellezza a chi voglia abbeverarsi alla loro fonte
magica.
Se volessimo utilizzare una terminologia attuale, debitrice in parte
del linguaggio televisivo e cinematografico, potremmo definire Il segreto
delle principesse di Emma Fenu un sequel o uno spin-off della fiaba di Cenerentola.
Personalmente però, a questa definizione così pragmatica ne prediligo
un’altra, che evoca quell’atmosfera da focolare che nel mio
immaginario è indissolubilmente legata all’universo della fiaba: la storia
raccontata da Emma Fenu rappresenta un ulteriore, preziosissimo anello, in
quella catena ininterrotta di racconto (prima orale, poi scritto) che unisce e
intreccia secoli e generazioni, e che costituisce un patrimonio culturale nel
quale affondano le nostre radici e la nostra identità.
Cenerentola, nelle sue versioni oggi più popolari,[2]
è una delle fiabe che più avvince i giovani lettori, condividendo questo
primato con Cappuccetto Rosso. Nella lettura di Bruno Bettelheim Cenerentola
affascinerebbe profondamente i bambini perché “parla delle angosce
della rivalità fraterna, di desideri che si avverano, di umili che
vengono esaltati, del vero valore che viene riconosciuto anche in una persona
vestita di stracci, di virtù ricompensata e di malvagità punita.”[3]
La scrittrice Emma Fenu entra
nelle pieghe della celebre fiaba e con sguardo acuto scova degli angoli bui,
degli anfratti deserti, dove la storia rimane silente, dove la parola si arresta, dove
il racconto non penetra. Ed è lì, proprio lì, che il
suo fiuto birichino va ad infilarsi, per raccontare una fiaba
diversa, una fiaba parallela. Un’altra delle fiabe possibili. La fiaba di
Genoveffa.
Una storia, quella de Il
segreto delle principesse, che sembra sulle prime parlare anch’essa di
rivalità fraterna, invidia e gelosia:
«In verità, neanche lei voleva essere se stessa, poiché invidiava la
sua famosa sorellastra: non sua sorella Anastasia, bruttina e spocchiosa quanto
lei, tuttavia convinta di essere bellissima e buona, ma la figlia del suo
patrigno.»
E che invece parla di una fanciulla che si “trasforma”, acquisisce
sicurezza e prende coscienza delle proprie qualità, imparando a non specchiarsi
nelle altrui virtù ma a conoscere e coltivare le proprie.
Una storia che decide di percorrere una strada laterale, marginale, non
battuta, per lasciare spazio e parola a chi, nella fiaba tradizionale, gioca un
ruolo secondario e per giunta scomodo, quello della cattiva.
Emma Fenu strizza con fare complice l’occhio al lettore (giovane, ma anche
adulto!) e, pur ricalcando (almeno in apparenza) lo schema classico della fiaba
di principesse, lo conduce in un mondo capovolto rispetto alla fiaba canonica, dove
la contrapposizione recisa tra gli estremi opposti si stempera fortemente, dove
le differenze sembrano annullarsi, dove i parametri e i valori di riferimento
sono altri.
Decadono (finalmente, mi sento di dire!) «i binomi “Bella/Buona” e
“Brutta/Cattiva” che non lasciano spazio alla coesistenza e alla dicotomia
“Buono/Cattivo”, fondamentale per l’adeguato sviluppo psichico del bambino»,
come sottolinea nella sua piacevolissima e acuta Prefazione ai genitori
che apre il volume la psicologa Tatiana Pagano.
L’autrice Emma Fenu
sollecita il lettore a riflettere, a diffidare delle apparenze, a guardare
oltre la superficie, che spesso si rivela un fallace e facile inganno. La
scrittrice, con benevola e generosa ironia, scavalca con abile guizzo la
proverbiale bruttezza di Genoveffa, se la lascia scivolare dagli occhi e inventa
per lei una fragilità, una ritrosia, una insicurezza, una infelicità tutte
umane che la riabilitano dal ruolo di malvagia che la tradizione le ha
incollato addosso come una seconda pelle e che ci ha trasmesso e imposto con
forza. È come se, mi si passi il termine, con moto di umana compassione,
l’autrice scavasse nel cuore e nell’anima del personaggio da sempre bistrattato
e si chiedesse il perché della sua ruvida cattiveria.
Scoprendo, dietro «il naso a patata, grosso e pieno di punti neri; i
dentoni sporgenti; i capelli crespi e spettinati; il sederone cicciotto e i
piedi… i piedi enormi», una bellezza sconosciuta. Imprevista.
Insospettabile. Una bellezza del cuore e della mente. Una bellezza fin qui
ignorata e taciuta, perché nascosta dietro un’apparenza che
i comuni canoni designerebbero come “non gradevole”.
Con moto non dissimile da quello del Poeta, anche Emma Fenu possiede uno sguardo stupito, che nell’ordine ovvio e
quotidiano della cose sa vedere la bellezza lucente che si nasconde, si esilia
e si sottrae.
Ne cattura il vero, eppur semplice, mistero:
«Ecco, dunque, il segreto delle principesse: la vera bellezza sta
nel cuore e nel cervello e si manifesta nell’Amore.»
La “nuova” principessa di Emma Fenu ci invita pertanto, piccoli e
grandi, a diffidare dei facili e banali stereotipi che incatenano il pensiero e
rendono gracile il nostro sentire. Perché “non è tutto oro quello che riluce”:
«A dire il vero, Cenerentola neppure era mai stata perfetta: le si
formavano sempre le bozze sui piedini ed era alta quanto Pollicino, ma era
tanto buona, talentuosa e piena d’amore, come lo era diventata Genoveffa.»
Una fiaba gustosa, allegra e divertente, grazie anche alle
illustrazioni morbide e avvolgenti di Chiara
Civati. Una fiaba saggia che, in linea con la tradizione, rappresenta una
forma di consolazione e di riscatto per il lettore (non credo di essere l’unica
a essermi
identificata con la goffa Genoveffa e di avere gioito, con lo scorrere delle
pagine, delle imperfezioni della luminosa, dolce, buona e incantevole
Cenerentola!) e gli offre al contempo spunti per riflettere, per crescere, per
imparare.
Lo dimostrano, a chiare lettere, i commenti a caldo, registrati a fine
volume, dei bambini di una terza classe elementare ai quali è stata letta la
fiaba. Commenti che dimostrano quanto questi giovani lettori abbiano accolto la
morale della fiaba, con disarmante e sincera profondità, facendola propria.
Ne valga uno per tutti:
«Dice che Cenerentola è bella, ma anche lei ha qualche difetto. Ma
non importa quello che è fuori, ma dentro.»
Un esperimento alquanto significativo, che meriterebbe di essere
ripetuto e ampliato. Personalmente vedo infatti in questo testo, che coniuga
sapientemente tradizione e innovazione[4],
rispetto dei canoni classici della fiaba e capacità di essere originale, piacere
del narrare e intento educativo, un ottimo candidato per chi pratichi la lettura
ad alta voce con i bambini, in contesti diversi ma ugualmente importanti: in
biblioteca, in libreria, in ospedale e, naturalmente, nell’intimo tepore della
propria casa. Si riannoda, in questo modo, con semplicità, emozione e
naturalezza, quel cordone ombelicale mai spezzato con la tradizione orale, con
il racconto attorno al focolare che rappresenta la prima, vera culla della
fiaba.
Un altro aspetto essenziale de Il
segreto delle principesse, che ulteriormente inserisce questa storia
nella scia della fiaba tradizionale, è il desiderio di infrangere quella
scomoda e artificiosa barriera che relega le fiabe nel ghetto di una
letteratura “minoritaria”, destinata solo ad un pubblico specifico di
destinatari, nel suo tentativo di parlare anche agli adulti su una questione
cruciale per noi tutti:
«La fiaba è finita, il punto finale è un tatuaggio sul cuore. E
Genoveffa mi manca già: le ho dato voce per sfatare l’atavico mito “kalòs kai
agathòs”, ossia bello e buono, nell’accezione di virtuoso, che, soprattutto
per le donne, ha portato, nel passare dei secoli, a un ideale sessista che
identifica nell’aspetto fisico ed esteriore la dote femminile primaria,
mettendo in secondo piano ciò che davvero ci rende unici, speciali e amabili,
ossia l’intelligenza, il coraggio, la gentilezza, l’altruismo, la capacità di
accettazione del diverso.
La magia della fiaba si è compiuta e ancora si compirà. Il lieto fine
di questa storia è solo il preludio di un’altra storia che ancora deve essere
narrata e presto, forse, lo sarà. E noi la attendiamo con cuore e orecchi
impazienti…
«Il mio non è un tentativo di accusa alla fiaba tradizionale,
espressione d' identità e cultura popolare, che
affonda le radici nell’albero vetusto e sempreverde del Mito, ma un omaggio a
essa, cercando di dare voce a chi, per secoli, ha avuto troppe poche battute
nel copione finale. La fiaba, in realtà, non è mai finita: non siamo mai sazi di
storie, e una in più genera la voglia di un’altra ancora, in un racconto
infinito.»
Dopo Vite di Madri e le Dee del Miele, Emma Fenu ci fa
dono di un pezzo di scrittura diverso. Una fiaba. Ma identico è il sentire.
Autentico. Appassionato. Impegnato. Teso a cogliere la necessaria verità e
bellezza. La bellezza della verità. La verità della bellezza.
Qualunque sia il genere con il quale si cimenti, la penna di Emma Fenu
è sempre convincente, ammaliante, aggraziata. Con tocco di piuma, che qui si
vena di un bonario sorriso, solletica il pensiero. Coccola il cuore. Abbraccia
l’anima.
Una fiaba, per sognare.
Una fiaba, per sperare.
Una fiaba, per capire.
Una fiaba, per imparare a cambiare.
Piccoli e grandi.
Sottraendosi alla tipizzazione caratteristica della fiaba, che affida
ai personaggi l’incarnazione di valori e qualità, o viceversa di difetti e aspetti
negativi, Emma Fenu, da raffinata esploratrice e conoscitrice dell’universo
femminile qual è, crea con Genoveffa un ritratto di donna di grande interesse,
viva e vera. Una figura che, con la sua ombra e luce, riflette una complessità
e contradditorietà molto umana e, soprattutto, molto femminile.
[1] B. Bettelheim, Introduzione in C. Perrault, I
racconti di Mamma Oca, MI, Feltrinelli, 1993, cit. pag. 8.
[2] Le due versioni più note sono quella di Perrault
e quella dei fratelli Grimm, che presentano importanti differenze, pur essendo
entrambe imperniate sul tema della rivalità fraterna.
[3] B. Bettelheim, Il mondo incantato, MI, Feltrinelli, 1976, cit. pag. 230.
[4] Originalissima, ad esempio, la scelta di affidare la voce
narrante a un animale (il cavallo del “principe”).
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