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domenica 19 giugno 2016

"Un uomo più triste e più saggio": Samuel Taylor Coleridge

di Alessia Ghisi Migliari





Non fu mai indipendente – cercò di continuo un rifugio, un approdo, una rassicurazione.
E per gran parte della sua vita, i giorni furono segnati da un carattere indeciso e afflitto dall’abuso di oppio.

Il risultato fu una produzione letteraria minore di quel che il talento promettava – ma con un paio di perle che sono arrivate sino a noi, poetiche e visionarie come lui.
Samuel Taylor Coleridge, una mente filosofica ma dispersiva, era l’ultimo figlio di una numerosissima famiglia il cui padre, il pastore anglicano John, sarebbe poi morto presto.
Nato nel 1772 nel Devon, Samuel è l’ultimo di dieci fratelli, e fra le angherie dei maggiori e una public school di vittoriana intransigenza, il suo carattere si fa incerto, obbediente, così obbediente da vacillare in assenza di disciplina e strade certe e ben delineate. Ma il ragazzo ha un animo sensibile, poetico, adattissimo a quel romanticismo melanconico e sofferto che farà la sua gloria e quelle di molti suoi contemporanei dallo stesso temperamento. 

Centrale, proprio perché assente, la figura del genitore – idealizzato, reso leggenda ai suoi occhi di bambino metà orfano. La madre invece, malgrado l’abbondante prole, è una donna iperprotettiva, soprattutto verso di lui, il piccolino – sia per sfuggire a questo clima, sia per i debiti e anche per una delusione amorosa, lascia gli studi universitari (che riprenderà poi senza mai completarli) e si arruola per un breve periodo nei Dragoni Reali.
In lui si muove un amore per la filosofia che diviene motivo di entusiasmanti voli pindarici: medita di fondare una sorta si società in cui vige l’eguaglianza (antica e sempreverde utopia!) e che verrebbe battezzata Pantisocracy e nel frattempo si sposa. Il suo matrimonio è infelice e terminerà con un divorzio, anche se nel mentre Coleridge si innamora di una donna che invece non lo ricambia – fatto che nella sua mente è fonte di notevole sofferenza.
E’ nel 1795 che inizia ad assumere, come antidolorifico per i suoi numerosi problemi di salute e come fonte di oblio, l’oppio: era pratica piuttosto diffusa, ma che lo porterà a una dipendenza i cui effetti psicologici avranno vasta eco nei suoi scritti, forse persino in modo positivo. Nel frattempo è nata e cresciuta l’amicizia con un celebre “collega”: Wordsworth – i due si traferiscono momentaneamente in Germania, dove Coleridge si appassiona alla lingua e alla letteratura del luogo svelandosi un giorno anche un ottimo traduttore. Tornato in Inghilterra nel 1800, partito poi per vari viaggi in Italia e a Malta, le sue condizioni peggiorano di anno in anno. L’abuso di sostanze psicotrope, le sue frustrazioni come marito e come letterato, la sua costante dipendenza da chi gli sta attorno lo rendono difficile da trattare: nel 1817 si stabilisce accanto a un medico di fiducia, continua a scrivere, spesso in stato alterato e infine muore, nel 1834, a causa degli effetti indiretti derivanti dal lunghissimo abuso di oppio.

Era stato uno dei cosidetti “Poeti del lago” con il caro amico Wordsworth, aveva colmato migliaia di pagine con le sue parole, lasciando tre principali capolavori, che sono “La ballata del vecchio marinaio”, “Christabel” e “Kubla Khan”, molte poesie e il monumentale “Biographia literaria”, un’autobiografia fatta di dissertazioni filosifiche, argute osservazioni, teorie e critiche.
Ma a frenare l’artista c’era il Coleridge uomo.
Dispersivo, con progetti eccessivamente grandiosi per essere portati a termine, caotico nelle riflessioni, incapace – proprio a causa della sua dipendenza fisica e psicologica – di costanza nel perseguire progetti di qualunque genere. Si dimenticava delle conferenze di cui era protagonista, era capace di parlare per ore senza accorgersi di non avere più auditorio e i sintomi depressivi legati al percepirsi inadeguato e senza volizione non facevano che riflettersi in malo modo nelle sue righe spesso così visionarie.
Necessitava di continua supervisione, di gestione e organizzazione – Samuel come grandezza, sì, ma una grandezza disordinata.
Ma, in queste alterazioni percettive, in questa personalità così complessa eccentrica, si solleva infine, al di là delle manchevolezza, la forza indiscutibile della sua ballata – “La ballata del vecchio marinaio” (1798).
La storia: un anziano uomo di mare dall’occhio tormentato e irresistibile ferma per strada un giovane che sta andando a una festa di nozze – deve raccontargli, deve far sapere.
Lui una volta navigava e si era ritrovato incagliato verso il Polo Sud – poi ecco un magnifico e regale albatro, simbolo di fortuna, e grazie all’apparizione il vento arriva, la nave può ripartire. L’uccello viene nutrito, venerato, lo si chiama, si gioca con lui e d’un tratto, senza motivo, il marinaio lo uccide.E’ il male fine a se stesso, un sadismo quasi indifferente – la crudeltà della natura umana.
Per giustificare l’accaduto, si dice che forse l’animale portava nebbia, meglio così dunque. E invece ecco l’imbarcazione che di nuovo si arresta e loro lì, immobili, con acqua ovunque e nemmeno una goccia da bere.Muoiono uno dopo l’altro.Ma non lui – e attorno mostri, creature orrende, spaventose, che si muovono fra i flutti. E’ il terrore, la pena eppure, dopo un pò, il marinaio vede in quelle forme di vita una forma di miracolo (lui, così circondato dalla morte). E viene la redenzione.

L’uomo aveva ammazzato una creatura innocente e foriera di gioia – l’aveva fatto senza motivo se non la propria feroce inclinazione. E poi, nel dolore, nell’espiazione di ciò che orribile gli accadeva attorno, fa pace con Dio, comprende il reato, l’atrocità della sua assurda condotta. E ama, ama quel che è vivente, comunque, anche se spiacevole e temuto allo sguardo.
Tornato a terra, la sua condanna è quella di narrare, narrare la sua stoltezza (e dell’umanità) per renderci consapevoli della nostra imperfezione, ma anche della grandezza con cui sappiamo purificarci. E il ragazzo che stava andando a divertirsi, ecco che adesso sa – e mentre va verso il canto gioioso degli sposi, è un uomo (anche lui) “più saggio e più triste”.
C’è, nelle atmosfere gotiche di questi versi, tutta la visione intransigente e naturalistica dei romantici, la loro sensibilità, il loro rifiuto di una modernità fatta di macchine e ritmi inumani.
Ma c’è anche molto di più – c’è Coleridge stesso.
La sua delusione di fronte all’impossibilità di creare un mondo perfetto senza l’ingiustizia, senza gli impeti interni che ci portano a sbagliare, a ferire, a causare la morte spirituale e fisica.
L’inizio della ballata è all’insegna di ciò che è crudele (senza spiegazioni). Prosegue con immagini agghiaccianti (frutto non solo della fantasia, ma anche dell’oppio), con un senso di morte, la rabbia di Dio e degli elementi. Eppure è proprio attraverso l’incubo che si comprende, con la sofferenza, che si può essere limpidi, anche se non liberi. E nella sete, nella disperazione, il marinaio torna ad amare Dio, e l’albatro che ha colpito con la faretra non è solo un delitto, ma anche la salvezza.
Una salvezza relativa, che si scontra con la necessità, uan volta tornato a riva, di fermare gli uomini stolti perché ignari, e raccontare.
Raccontare di come si è malvagi ed empi, di come si può condannarsi all’inferno, eppure anche di come si può risorgere, ammettendo, attraverso la narrazione.
Vi è qui tutta la forma mentis di Coleridge, la sfiducia verso i propri simili (particolarmente frustrante per lui, che ha quasi sfiorato un disturbo dipendente di personalità) e la depressione che usualmente colpisce chi abusa di oppio. Samuel è un uomo deluso di se stesso e di chi gli sta attorno, sprofondato in un’alternanza di realtà e immaginifico, mai uscito da quella infanzia imperfetta e senza un padre.
E proprio nella ballata compare un verso in cui molti han trovato un richiamo alla sua biografia: si accenna in un certo punto, alla “maledizione di un orfano”, un orfano che resta ambiguo e significativo nella vicenda. Il profondo legame padre-figlio, spezzato così presto, resta in Samuel ferita sempre aperta, e la colpevolezza dell’umanità tutta, a priori, di fronte all’omicidio di una creatura, è specchio di un senso di colpa ancestrale e irrazionale, che colpisce spesso i bambini quando un genitore viene a mancare (come se ci fosse una responsabilità silenziosa e nascosta).
E la sopravvivenza del vecchio marinaio, così salvifica, sì, ma anche spietata (la Morte e la Vita-nella-Morte si son giocate a dadi l’equipaggio, con la stessa insensibile indifferenza dell’uccisione dell’albatro) pare l’allegoria dell’esisteza di Coleridge – travagliata, ardua e spesso sconvolta.
Ma con un messaggio, da portare: quello di un uomo che, divenuto conscio di se stesso, è dunque “più saggio e più triste”.


(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore e di Psicolab.net)

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