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giovedì 16 aprile 2015

Intervista a Sergio Gilles Lacavalla

A cura di Selene G. Rossi


Era da un po’ di tempo che leggevo, annoiata, saggi di vario genere senza trovare alcunché in grado di soddisfare la mia sete di conoscenza. Ma, ecco il miracolo. Verso la fine di settembre mi è capitato di sfogliare Rockriminal e, incuriosita, non ho potuto fare a meno di dedicare ogni istante del mio tempo libero alla lettura di questo libro al di sopra delle righe ove musica e cinema, le mie due grandi passioni, si fondono magicamente trasformando ciò che potrebbe, all’apparenza, essere solo un viaggio nella storia del rock, in un’immersione totale all’interno del mondo horrorifico di questo genere, in cui niente è come appare in realtà. 
Ma, prima di parlare di Rockriminal, un viaggio nei meandri più oscuri dell’animo del rock e dei rocker compiuto da Sergio Gilles Lacavalla, ho chiesto a quest’eclettico autore di raccontarci qualcosa su di sé perché, si sa, la rete è una benedizione ma, a volte, è fallace. Ed ecco fatto. Interlocutore gentile e raffinato, Sergio ha accolto la mia richiesta.




Sergio Gilles Lacavalla in uno scatto di Kiran Six


Qualcosa su di me, ho sempre un po' di difficoltà a definirmi, a dire cose su di me, forse perché c'è sempre molto di me in quel che scrivo (un esempio è l'ultimo capitolo di Rockriminal, la "postfazione" intitolata "les enfants du rock", decisamente autobiografica), e allora lascio parlare la mia scrittura. Comunque, diciamo che racconto delle storie, tutto qui, una specie di cantastorie in noir moderno: le racconto attraverso la letteratura, il teatro (come drammaturgo, regista e attore), il giornalismo e il video. Tutto però è partito dal rock: da lì nasce la mia scrittura. Dalla musica e dal corpo. Cerco di dare fisicità e movimento alle mie parole perché la mia prima formazione è quella delle arti marziali e delle discipline da combattimento, che mi hanno  sempre  accompagnato  in  tutto  il  mio  percorso intellettuale  fino  a  oggi. 

Sergio Gilles Lacavalla in uno scatto di Davide Manca

I samurai, e lo scrittore Yukio Mishima con loro, parlavano di unione tra spada e penna: diciamo che anch'io la penso così. Tra i miei drammi mi piace ricordare "Arso dal sole del dovere - il corpo da macello e la macchina sportiva di Pier Paolo Pasolini", sulla morte dello scrittore e regista, "Sunday Morning";  un bellissimo spettacolo di danza di e con la danzatrice e coreografa Silvia Ceccangeli, di cui ho scritto i testi e realizzato la video arte; e l'ultimo dramma di apocalyptic murder dance "De Par Le Roi Du Ciel †JH-M† Jeanne d'Arc, la violence et la passion", con le coreografie della protagonista Mia Molinari e le musiche della band di nihilist suicide pop Spiritual Front, di cui sono drammaturgo, regista teatrale e video e interprete e che avrà anche la versione Concert Reading con l’attrice Elisabetta Fadini. Come giornalista ho scritto per un mare di giornali occupandomi di cultura, musica rock, cinema, teatro, danza e crimini. Come sceneggiatore ha collaborato al film “Under the Sky” del filosofo e regista Michele Salimbeni (lui è stato assistente del regista cinematografico polacco Andrzej Zulawski e sceneggiatore de “I Magi Randagi” di Sergio Citti). Le mie collaborazioni giornalistiche preferite in questo periodo sono quelle con Ritual e Notte Criminale. Alterno - o meglio, affianco - alla mia attività di scrittore quella di insegnante di arti marziali e discipline da combattimento. Attualmente, oltre a portare in giro con reading in concerto "Rockriminal. Murder Ballads. Storie di rock balordo e maledetto", sto scrivendo le drammaturgie di “Cinque drammi butoh + 2” sulle morti di Yukio Mishima, Jean Genet, Rainer Werner Fassbinder e Derek Jarman + Egon Schiele e Albert Camus, che si affiancano al dramma già citato su Pasolini. 

Ma passiamo ora all’intervista. Innanzitutto, quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a scrivere un libro come questo? 


Il crimine, le colpe, la decadenza morale dell’uomo, la distruzione e la morte, sono da sempre il centro della mia espressione come scrittore. Credo che solo attraverso la descrizione del male si possa comprendere la realtà più intima dell’individuo: il male di cui si è colpevoli o vittime; il male che è in noi e attorno a noi. Ho scritto dell’argomento in tanti articoli come in drammi teatrali e, ogni volta, il rock ne era protagonista oppure ne rappresentava la colonna sonora. Un libro che unisse rock e crimine, alla fine, era quasi inevitabile. Comunque l’idea me l’ha data, ormai sei anni fa – perché il libro ha richiesto oltre cinque anni di lavoro – un editore che leggeva spesso le mie cose: «Sei quello che ne sa di più» mi disse. E così, ecco Rockriminal. Un libro che, come gran parte delle cose che scrivo, ha come motivazione anche quella di rappresentare certe storie su di un palco, quindi la messa in scena tra il reading e il concerto rock con musicisti come Simona Ferrucci delle Winter Severity Index, i fratelli Ian e Sten Puri di Ivashkevich, Arpad Vincenti, Alessandro Marinelli del Muro Del Canto, Chris Wah di Calm'n'Chaos e Giorgio Maria Condemi degli Spiritual Front (band questa cui ho aperto un live ancora prima che uscisse il libro, così come ho fatto per i Nokeys di recente con il volume in libreria), Macelleria Mobile di Mezzanotte: gente che ammiro e con cui condivido la visione del rock e delle storie. Rockriminal ora deve moltissimo a loro: le mie pagine diventano la loro musica.

Locandina di "This must be the place"
Cosa ne pensi di This Must Be the Place e di Cheyenne, il personaggio interpretato da Sean Penn? E cosa pensi delle accuse d’istigazione a delinquere e d’induzione al suicidio lanciate verso la musica rock e metal? Ritieni ci sia un fondamento o che sia solo una mossa dei puritani per screditare il genere?

This Must Be the Place penso che racconti abbastanza    bene,    attraverso    il   personaggio   di Cheyenne, il viaggio – in quei bellissimi panorami tra Hopper e il Wenders americano, o anche il Lynch realista – verso la crescita di una rockstar fermata in una prolungata adolescenza proprio dalla sua condizione. Una crescita quando non si è più così giovani per crescere, quando si è ormai fuori dalle scene, quando di queste Cheyenne conserva il trucco ma non più la voglia, sostituita da una vita tranquilla e da reduce che si trascina, lentamente e col carrello, nel senso di colpa e nella mancanza – di un padre che non è, di un figlio che non ha più suo padre, di una rockstar che ha perso tragicamente un fan. Un viaggio per trovare un posto – magari ideale e che riconcili con se stessi. In fondo è la situazione che vivono molte ex rockstar. Cheyenne è una di queste, una specie di Ozzy Osbourne pettinato come Robert Smith; a tratti potrebbe sembrare una caricatura, ma in fondo anche Ozzy Osbourne e Robert Smith spesso lo sembrano. Forse più fortunato di Ozzy: Cheyenne rimpiange di non aver avuto figli, ma se guardasse a quelli di Ozzy Osbourne, probabilmente tirerebbe un sospiro di sollievo. L’accusa d’istigazione a delinquere e induzione al suicidio di certo rock, cui il film si riferisce col rimorso del protagonista per la morte di un ragazzo “indotta” dalla tetra depressione delle sue canzoni, non penso sia un’accusa giusta: chi si uccide, o uccide, ha un malessere in sé che viene da motivi più profondi che investono tutto il suo essere, nessuna canzone rock può armarti o fatti mettere una corda al collo. Può essere la colonna sonora di certe azioni, come Wagner lo fu per il nazismo: ma affermare che il nazismo sia conseguenza della musica di Richard Wagner, mi sembra un po’ azzardato. Troppo comodo dare la colpa della strage di Columbine a Marilyn Manson e ai Rammstein o del suicidio di tre giovani dopo aver ascoltato Suicide Solution a Ozzy Osbourne (il riferimento nel film a quest’ultimo episodio mi pare abbastanza chiaro). Più difficile è prendersela con l’industria delle armi, degli “psychoanalisti” e degli psicofarmaci e con le istituzioni, dalla famiglia alla scuola. Più difficile capire il male che è nella nostra natura. Meglio un cantante rock tossico, no? Stupide accuse lanciate da gente fanatica, bigotta, ignorante e spaventata di confrontarsi con le proprie colpe. 


Credi che il rock, o meglio l’heavy metal, abbia realmente influenzato le scelte di Richard Ramirez, serial killer statunitense che tra il 1984 e il 1985 uccise tredici persone dichiarando, come riportato nel tuo libro: ‹‹Sì, ascoltavo Night Prowler, e le cose avvenivano come da sole. Capite, quella canzone mi rendeva tutto più facile. La sentivo nelle orecchie ed ero io il padrone della vita e della morte di chi andavo a trovare. Bon Scott che la cantava: Vostro Onore, ma l’avete mai sentito il cantante degli AC/DC? Era la voce dell’inferno. Dove io volevo portare i miei gentili ospiti.››?

Richard Ramirez a sinistra e gli AC/DC a destra

Come dicevo, la musica può servire solo da colonna sonora. Ramirez era uno squilibrato a cui piacevano gli AC/DC: in Night Prowler trovava solo ciò che già aveva in sé, soltanto ciò che aveva già trovato. Così come, tornando all’esempio di prima, Hitler che edificava il suo Reich sulla musica di Wagner. 


Un incantevole primo piano di Sharon Tate
una delle vittime della Family di Charles Manson



Il 9 agosto 1969, con i brutali omicidi di Sharon Tate e di alcuni suoi amici, perpetrati da alcuni membri della Family di Charles Manson, termina la Age of Aquarius iniziata da poco. Tu affermi che Charles Manson era ‹‹il figlio deforme della controcultura dei Sixties, un Cristo al contrario coi suoi allucinati seguaci che predica il neo-nazismo […], il fanatismo ecologista e il satanismo, e che rivela adesso in tutto il suo clamore come il delitto sa l’unica forma d’espressione a lui concessa. Eccola la sua strada per la gloria. Voleva diventare famoso come John Lennon, come i Beach Boys, ma nel frattempo vuole cancellare dalla terra i divi del momento […]. Oltre a ciò, Manson progettava di innescare una guerra razzista, facendo passare le stragi per azioni delle Pantere Nere e spingere così i bianchi a opporsi all’avanzata di una razza che stava per imporre il proprio dominio in una guerra che avrebbe messo a ferro e fuco le città, quartieri alti contro i ghetti: l’helter    skelter.    […]    Per    poi    profetizzare   un imminente futuro in cui la guerra tra le due razze si sarebbe trasformata in conflitto tra bianchi collaborazionisti dei neri e bianchi puri, che si sarebbero annientati lasciando il potere alle Black Panthers. Queste, alla fine, incapaci di governare, avrebbero lasciato campo libero a loro della Family, gli unici in grado di tenere il comando dal regno nel deserto della Valle della Morte.›› Cosa credi abbia più peso nell’evoluzione di un individuo, fattori innati o culturali?  O meglio, credi che se Manson fosse cresciuto in un altro ambiente e sottoposto a input differenti da quelli di cui fu “vittima” avrebbe potuto essere diverso o ritieni invece che sarebbe diventato comunque ciò che divenne?
Charles Manson
 
Sono sempre più convinto che il male sia in noi. Molto più presente di quanto pensiamo. Di certo più del bene – guardiamoci intorno e guardiamo alla storia dell’umanità – ogni guerra, ogni dittatura sono state possibili solo grazie all’adesione e all’appoggio della maggioranza delle persone e l’omicidio è una costante. Nel conflitto tra Dio e il Diavolo – li uso come immagini simboliche – deve aver vinto il Diavolo. O meglio, forse è ciò che chiamiamo Dio il Diavolo, il male. Chissà. In alcuni esseri umani questo male è più sviluppato. Fa parte della propria indole. C’è il male e c’è il bene. È un fatto di scelte. La scelta poi può portare al crimine, a conseguenze mostruose, ai delitti più aberranti, quando dettata da certe situazioni culturali e sociali: la cultura e l’ambiente che fanno esplodere il male che già è innato. In pratica, se Charles Manson fosse cresciuto in un altro ambiente e sottoposto a input differenti, se avesse avuto una vita agiata e tranquilla, se fosse diventato la rockstar che voleva diventare, probabilmente non sarebbe stato a capo della Family e della strage del 10050 di Cielo Drive. Ma sarebbe stato ugualmente un uomo malvagio, senza quelle conseguenze, ma ugualmente malvagio con azioni malvagie, presumibilmente non da codice penale – ma non è detto, magari avrebbe fatto fuori Paul McCartney per motivi di diritti d’autore – comunque ugualmente malvagie. La cultura e l’ambiente determinano i fatti ma non la malvagità che c’è dietro di essi. E spesso non c’è neanche bisogno di nessuna particolare cultura e di nessun particolare ambiente per generare azioni malvagie: il male per il male.
Alcuni membri del J27: a partire da destra, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison
Sempre nel 1969, il 3 luglio, come a marcare l’inizio del declino del Flower Power, viene rinvenuto il cadavere di Brian Jones, fondatore dei Rolling Stones. E ancora: un anno dopo, il 18 settembre e il 4 ottobre, muoiono, rispettivamente, Jimi  Hendrix  e  Janis  Joplin.  A  chiudere il cerchio, il 3 luglio 1971 tocca a Jim Morrison.  Del J27, gruppo i cui sfortunati “membri” sono – con una J nel nome o nel cognome – morti a 27 anni, fanno però parte anche altri musicisti come il bluesman Robert Johnson, deceduto nel 1938 probabilmente a causa di un avvelenamento,  e  di  cui si dice avesse stretto un patto con il diavolo. O, ancora, Jesse Belvin morto nel 1960 in seguito a un incidente d’auto alquanto sospetto. O, infine, come Richard James Edward, chitarrista dei Manic Street Preachers, forse morto, ma di sicuro scomparso, nel 1995. Quanto questi decessi, soprattutto i quattro dei rocker degli anni ’60, sono accomunati dal caso e quanto invece pensi possano essere legati da una trama più oscura?

Il caso determina le nostre vite: l’unica cosa precisa nelle nostre vite è il caso. Le cose in fondo accadono per caso o non accadono. L’età e la J sono coincidenze. Penso sia però un’ipotesi abbastanza realistica che alcuni di loro, proprio quelli che hai notato tu, morti tra il 1969 e il 1971, Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, siano stati vittime di trame occulte della complicità tra politica, polizia e servizi segreti: perché no? Consideriamo il clima di quegli anni, la CIA, l’FBI di John Edgar Hoover, il Vietnam e le rockstar ribelli a questo sistema. Eliminarle poteva essere un buon modo per liberarsi di personalità dissidenti le cui opinioni, o semplicemente il modo di essere e vivere, potevano influenzare molti giovani – come poi realmente è stato. 


Così come gli anni ’70 si erano aperti con queste morti “illustri”, il decennio successivo si aprì con un lutto che colpì l’intera  industria musicale, gettando anche alcune ombre su CIA ed FBI. Nel tuo libro, infatti, accenni al fatto che la morte di John Lennon sia circondata da un mistero legato al motivo per cui ‹‹i colpi sparati abbiano colpito Lennon sul lato sinistro mentre Chapman [l’assassino] era a destra.››  Qual  è, secondo te, il vero motivo che spinse il killer a uccidere Lennon? E, soprattutto, quanto ritieni sia fondata la teoria della cospirazione secondo la quale il cantautore fu ucciso sì per mano di Chapman ma per conto di CIA e FBI?


Chapman era ossessionato da Lennon al punto di ucciderlo. Certo. Ma il problema è capire perché e da dove veniva questa ossessione. Forse è stata indotta? Probabile, non dimentichiamoci del vecchio programma MK- Ultra, un’attività per il controllo della mente avviata dal direttore dei Servizi Segreti Allen Dulles nel 1953 che, anche se ufficialmente resa illegale nel 1977, sicuramente aveva lasciato suoi residui nel momento in cui i repubblicani si apprestavano a candidare Ronald Reagan alla Casa Bianca. John Lennon, col Rapporto Hoover prima e con altri fascicoli della CIA e dell’FBI sotto i repubblicani poi, era considerato una personalità antiamericana che tornava con un nuovo disco a dire la sua. Di certo non a favore del Governatore della California. Qualcuno può averlo aiutato a portare a termine la “missione”.
John Lennon insieme a Chapman
il giorno della sua tragica morte


Rimanendo in tema “morti oscure” e basandoci sulle strane e bizzarre coincidenze che circolano intorno alla morte di Jim Morrison – come, per esempio, il fatto che il suo cadavere sia stato visto solo da due persone (la moglie Pamela e il Dottor Max Vassille) – ritieni sia davvero probabile che il cantante-poeta potrebbe aver deciso di mollare tutto e andare a vivere in qualche Paese africano? O sei più propenso a dare credito alle voci, emerse di recente, secondo le quali il Re lucertola non sarebbe morto nell’hotel in cui risiedeva ma sarebbe invece stato trovato in fin di vita nel locale parigino Rock & Roll Circus e solo in seguito trasportato nella camera dell’albergo in cui risedeva per coprire il fatto che proprio lui, detrattore dell’eroina, fosse invece morto per overdose?

No, nessun paese africano. Mi piacerebbe pensare a un anziano signore in sovrappeso che se la sta spassando in qualche angolo sperduto e paradisiaco del mondo tra cocktail e giovani donne esotiche, ridendo alle nostre spalle. Ma, purtroppo, penso sia proprio morto. L’ipotesi che sia deceduto per overdose d’eroina al Rock & Roll Circus è una delle più probabili e credibili. 

A pagina 186, parlando di una delle innumerevoli esibizioni al limite del goliardico e dell’allucinato, affermi che Jim Morrison ‹‹si sentiva un tragico clown nel circo del rock’n’roll››. Esiste oggi, secondo te, qualcuno in grado di assurgere a icona lisergica del rock come lo è stato il Re Lucertola? 
No, oggi non c’è nessuna icona lisergica del rock come Jim Morrison. Anzi, non c’è proprio più nessuna icona.

Jim Morrison in una delle celebri foto scattate da Joel Brodsky

Per concludere, quali tra tutti i casi da te trattati è quello che ti ha colpito maggiormente?

Sono molti, in realtà: gli omicidi del black metal come le faide del gangsta rap o la triste e omicida storia punk di Sid e Nancy, ma forse la strage di Cielo Drive è quella che più mi ha colpito, per la sua ferocia e per tutti i significati umani e sociali a essa legati.


(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore)

9 commenti:

  1. Hai colpito ancora nel segno con questa interessante intervista.
    Alessandro

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    1. Grazie Alessandro, il vero plauso va a Sergio per il suo libro eccezionale!

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  2. Ho letto il libro. Veramente interessante. Spero che questa intervista lo faccia conoscere ancor di più. Bravi all' intervistatrice e a Sergio Gilles Lacavalla!
    Fred

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    1. Grazie Fred, me lo auguro anch'io, soprattutto perché è raro trovare un autore del calibro di Sergio!

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  3. Semplicemente FAVOLOSO!!! Juanito

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    1. Grazie mille Manuela e, soprattutto, grazie a Sergio!
      Selene

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  4. Sono rimasta a bocca aperta nel leggere la tua intervista a un autore bravissimo.
    Manuela

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