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martedì 20 gennaio 2015

The Gravel breaker - Il desiderio di Jebel

di Giovanna Rotondo Stuart

Sud Sudan - Foto da "Il Post"
Jebel era accovacciata ai bordi di un  mucchio di pietre, una parte di queste era di  piccole dimensioni, le altre piuttosto grandi. Aveva un martello tondo in mano, un martello con l’impugnatura di legno e la testa metallica. La mano sinistra teneva ferma la pietra mentre la destra la colpiva. 
Era una gravel breaker: una spacca pietre. 


Dietro di lei si vedevano  cumuli di pietre già pronte  o da frantumare ed altri gravel breakers, per lo più donne con i loro bambini, che spaccavano pietre anche loro.  Sul fondo una serie di capannoni grigi. 

Jebel avrebbe ricevuto alcuni dollari di paga per la quantità di lavoro eseguito. Era un lavoro duro e spesso doveva interromperlo perché le faceva male il braccio e le venivano le vesciche alle mani.  Stava imparando ad usare il martello anche con la sinistra, all’inizio aveva fatto molta fatica, ma migliorava. 
Era qui dall’alba, fra poco avrebbe fatto molto caldo e lei aveva la bimba con sé e doveva allattarla. Il mucchietto di stracci che la conteneva era accanto a lei, coperta da un telo per ripararla dal sole. 
Jebel abitava vicino al fiume,  alla periferia della città di Juba. Ci voleva più di un’ora dalla montagna del Kujur, dove si trovava,  per giungere alla sua capanna,  e una buona mezz’ora per andare al fiume a prendere l’acqua. 
Si alzò e prese la bimba per allattarla, si sarebbe messa in cammino subito dopo aver ricevuto la paga per il suo lavoro. Era molto magra, quasi emaciata, come  la maggior parte della popolazione del Sud Sudan. Sembrava anche  molto giovane, doveva avere meno di vent’anni.  
Suo marito, l’uomo a cui era stata ceduta adolescente, era rimasto ucciso in uno dei tanti raid tribali per il controllo della terra, del petrolio o dell’acqua.  
Lei e la bimba si erano rifugiate, con altri profughi, in un campo di assistenza internazionale. Sua figlia aveva circa un mese, durante la fuga non si trovava cibo e lei non aveva mangiato per giorni.  
La vita al campo era stata un incubo, iniziava la stagione delle piogge e tutto era bagnato, sempre, ma si erano presi cura di loro. Jebel aveva voluto per la bimba lo stesso nome della dottoressa che le aveva curate. Quando erano al campo non si stancava mai di osservarla mentre lavorava.  Non  sapeva che le donne potessero essere così belle e importanti!
E aveva scoperto la radio. All’inizio non capiva bene il linguaggio e di che cosa parlassero, ma pian piano aveva imparato a comprendere i discorsi e a distinguerli. Era tutto nuovo per lei.
Ascoltava le notizie sul Sud Sudan. La gente aveva votato un referendum,  per l’indipendenza dal Sudan, poco più di un anno prima, nel luglio del 2011, dopo decenni di devastazioni, guerre e guerriglie. Juba era diventata la capitale del Sud Sudan, il nuovo Stato a maggioranza cristiana. 
Porto fluviale sul Nilo Bianco, affluente del Nilo, Juba  contava al momento più di un milione di abitanti. Nel 2005 ne vivevano meno di  duecentomila. Le organizzazioni umanitarie lanciavano continui allarmi: Juba rischiava la catastrofe umanitaria!  
Una volta al mese Jebel tornava al campo per la visita a Maja e visitavano anche lei. Tutt’e due erano state inserite in un programma alimentare per un anno. Dovevano prendere degli integratori ogni giorno, quando li finivano era tempo di tornare  per il controllo e per il rifornimento. 
Un piccolo mucchietto di proteine che le manteneva in vita. Quel giorno, o all’indomani, doveva recarsi al centro. A volte ci andava prima dello scadere della visita, si sedeva in un angolo e ascoltava la radio. 
Si avviò verso i capannoni e, dopo una breve sosta, s’inoltrò lungo il sentiero che la portava in direzione della sua capanna. Si vedevano poveri rifugi disseminati ovunque, più che altro erano canne piantate nel terreno  tenute insieme da legacci di ogni tipo, con sopra, per tetto, qualsiasi cosa e un pezzo di stoffa,  quando esisteva, al posto della porta. 
La capanna di Jebel aveva  una stuoia all’entrata  e una per terra che fungeva da giaciglio. Sul pavimento di terra rossa, appoggiata alle canne, si trovava una brocca per l’acqua, un paio di utensili per il fuoco e un cesto. 
Nel cesto si vedevano delle stoffe dai colori vivaci, un paio grandi per lei, alcune piccole per Maja e pochi altri indumenti.  
Jebel aveva mangiato una ciambella di cereali all’alba, nient’altro. Sarebbe passata al mercato, per comprare qualcosa, prima di scendere al fiume. Lavò Maja, con i residui dell’acqua che c’era nella brocca, e la cambiò. Al fiume  si sarebbero lavate meglio. 
La dottoressa le aveva raccomandato di lavarsi le mani ogni volta che poteva! Si sdraiò sulla stuoia con la bimba accanto a sé e la guardò con tenerezza. 
Maja era una bimba buona, sorrideva e cominciava a emettere piccoli suoni. Aveva poco più di sei mesi. Lei si sentiva bene. Non si era mai sentita così felice! Il solo fatto di poter andare al campo per il controllo della bimba, una volta al mese, la faceva stare tranquilla. 
Quando arrivava, le lasciavano ascoltare la trasmissione che a  lei piaceva: “La voce della Donna” di Radio Sudan,  condotta da un’associazione umanitaria. Il programma era rivolto alle donne,  ai problemi che ogni giorno dovevano  affrontare e alle gravi discriminazioni sociali a cui erano sottoposte. Le intervistavano e le aiutavano a raccontare la loro storia. Più dell’80% delle donne del Sud Sudan non  sapeva né leggere, né scrivere. 
Lei non aveva mai sentito queste cose prima, ma le conosceva per averle  subite e vissute. 
Oggi si rendeva conto del cambiamento e non voleva  altri padroni. Stava bene con la sua bimba e voleva stare con lei.
A Juba mancava tutto, c’era tutto da fare, da edificare. Avevano bisogno di molta ghiaia per le strade e per le costruzioni. E lei poteva guadagnare qualche soldo spaccando pietre. Era giovane, avrebbe lavorato ancora tanti anni. Doveva solo stare attenta a non farsi male…   
Si addormentarono per qualche tempo. Prima di uscire, Jebel si cambiò e si avvolse in un telo di stoffa colorata, era longilinea con lineamenti decisi ma belli, i capelli crespi, corti. 
Mise Maja nella sacca sulle spalle, la brocca per l’acqua sulla testa  e uscì. Si sarebbe fermata al mercato che si trovava in una spianata lungo la strada. 
Il Sud Sudan era una grande terra rossa arsa dal sole, dove vivevano migliaia di persone che andavano in tutte le direzioni. C’erano poche strade e pochi sensi di marcia. Inoltre, dall’indipendenza del paese, tutto costava almeno il doppio. 
Nei pressi del mercato c’era molta polvere, quando passava una macchina o una mototaxì, sollevava  terra in grande quantità. Il panorama era, se possibile, ancor più desolante. 
Qualche capannone qua e là, gente seduta per terra che vendeva povere cose, banchetti colorati con merce di tutti i tipi ai lati della strada, bambini che giocavano in mezzo alle immondizie bruciate. Un odore acre, impastato di polvere e fumo, rendeva l’aria irrespirabile. 
Jebel si guardò intorno in cerca di qualcosa da mangiare per cena e per l’indomani. Le strade del mercato erano piene di cumuli di rifiuti e miasmi di ogni genere, diede un’occhiata per vedere se in mezzo ci fosse finito del cibo ancora usabile, ma non trovò niente. Comprò la solita schiacciata di cereali e qualche dattero. Domani avrebbe cercato delle foglie commestibili lungo il cammino.  
Imboccò un sentiero laterale, meno trafficato e polveroso e si diresse verso un’ansa del fiume, dove la gente del luogo si recava a prendere  l’acqua. Lungo il sentiero il panorama era sempre lo stesso, qualche spiazzo con povere capanne tra gli alberi, qualcuno che lavorava un pezzo di terra o accudiva qualche animale. 
Al fiume s’incontrò con altre donne, gli uomini ci venivano di rado. Si vedevano soprattutto donne e bambini! Era un momento sereno. Le donne parlavano e i bimbi giocavano. Alcune di loro erano poco più che bambine e avevano già un figlio o due. 
Jebel si mise a chiacchierare intanto che si lavava e lavava il suo telo e quello di Maja. Maja era felice di stare seduta in mezzo ad altri piccoli  e sorrideva. Dopo aver giocato con lei qualche momento, Jebel la prese in braccio, la strinse a sé e la baciò, la mise nella fascia sulle spalle, si rimise la brocca in testa e intraprese la strada del ritorno.  
Cambiò ancora direzione. Il percorso era più lungo ma le piaceva camminare di là. Lo faceva quasi tutti i giorni. A metà strada si fermò davanti a una costruzione piuttosto brutta, lunga e bassa, era una delle poche case in giro! 
A Jebel piaceva stare là a guardare la casa. Ogni volta che passava si fermava fuori dalla recinzione e guardava a lungo, sorridendo, i bambini e le bambine che giocavano nel cortile. 
Indossavano indumenti simili a un divisa: camicia color panna e gonna o pantaloni blu.  Spesso parlava con loro e  con gli adulti che vedeva. Le avevano detto che era una scuola. Un luogo dove s’imparava a leggere e scrivere. Non c’erano molte scuole nel Sud Sudan. E neanche molti insegnanti. 
La dottoressa, al campo, le diceva sempre che doveva imparare a leggere, che doveva andare a scuola e mandare Maja a scuola. 
Oggi voleva parlare con qualcuno, avrebbe aspettato di vedere uno dei grandi. Ma non venne nessuno e Jebel, alla fine, se ne andò. Mancava circa un’ora al tramonto, il tempo giusto per arrivare alla sua capanna, prima che diventasse buio. 
Sarebbe ritornata domani o un altro giorno. Lei aveva un desiderio grande: voleva chiedere che cosa doveva fare per imparare a leggere e mandare Maja a scuola.


Sud Sudan - foto da "Il Post"

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