Dicevano gli
antichi Romani che “Nomen Omen” (“Il nome è un presagio”) e mai come in questo
caso tale locuzione si attaglia al personaggio di cui oggi, in occasione di
questo nostro primo appuntamento, andremo a descrivere la prolifica nonché
ricca di soddisfazioni attività creativa: Bruno Bozzetto, padre nobile
dell’animazione italiana del secondo dopoguerra.
Nato a Milano nel
1938, frequenta il Liceo “C. Beccaria” ed è già sui banchi di scuola che inizia
a manifestare la propria vena creativa: coinvolge, infatti, alcuni compagni di
classe nella realizzazione dei suoi primi lavori cinematografici, cortometraggi
a passo ridotto; tuttavia, la scarsa collaborazione di quelli, spesso restii ad
assecondarlo, lo convince presto a cambiare genere d’attori, finendo con il
“disegnarseli lui stesso”, al fine di averli sempre disponibili (1).
Socio del Cine Club Milano, in questa veste
compie i suoi primi tentativi creativi, alternando cinema d’animazione (da ricordare
il suo primissimo lavoro, del 1953, un Donald
Duck disegnato su un semplicissimo quaderno a quadretti e quindi ripreso
con una cinepresa 8mm) e cinema dal vero.
Immagine tratta da “Tapum! La storia delle Armi” |
Ha solo vent’anni quando presenta al
Festival di Cannes il cortometraggio “Tapum!
La storia delle armi”.
Questa sua opera prima ottiene
immediatamente consensi di critica, (un corrispondente giungerà a dire “Bozzetto meglio di Sophia”), consensi che da Cannes si diffondono
anche nel nostro Paese, facendolo diventare immediatamente famoso.
Di questo suo primo lavoro di
un certo rilievo, va segnalato il fatto che vi appare già quella disincantata
ironia tipicamente bozzettiana che troveremo in buona sostanza lungo tutta la
sua carriera.
Conviene anche, a questo punto, fare già
una considerazione sulla visione che Bozzetto ha del mondo: sebbene molti
critici abbiano colto in “Tapum! La
storia delle armi”, come in quasi tutta la sua restante produzione, una
certa vena pessimistica, in realtà, stando a quanto dice lo stesso Bozzetto,
non c’è assolutamente pessimismo nelle sue opere; egli semplicemente si limita
a mostrare le cose come stanno, “… la vita è così. La pianta nasce e muore,
l’animale deve mangiare ed ammazza l’altro. Tutto questo fa parte della vita.
Forse quello che alla gente non piace e che gli dà fastidio del mio modo di
fare è che io metta l'uomo su un piano che non fa comodo, cioè non piace che io
veda l'uomo come un imbecille qualsiasi. Anzi […] dirò di più io penso che
l'uomo sia il cancro della terra. Se io mi allontano e vedo la terra scopro a
un certo punto che c'è un organismo piccolo, piccolissimo che all'inizio non
c'era o che era infinitesimale che incomincia a raddoppiare, poi non raddoppia
ma in maniera esponenziale diventa milioni poi miliardi lentamente inizia a
divorare la terra, la sta inquinando la sta sporcando, la sta disboscando; cosa
è questo se non il cancro se lo vediamo da lontano. Quindi la morte dell'uomo
come la morte delle cose fanno parte del ciclo naturale delle cose.” (2).
Tornando a “Tapum! La storia delle armi”, la sua trama, in sé e per sé, è di
una semplicità assoluta: narra la storia dell’umanità, sin dall’età della
pietra, inquadrandola come un incessante susseguirsi di scontri, guerre,
violenze, fino alla distruzione, dalla quale si riparte ricominciando
nuovamente tutto il medesimo ciclo.
Questo cortometraggio, girato
da Bozzetto in 16mm ed avvalendosi dell’asse da stiro della madre quale
“verticale”, nonché di una quantità industriale di carta gommata per sorreggere
la cinepresa, mette in luce anche l’altra grande peculiarità di questo autore:
il suo stile grafico personale, asciutto ma non arido, grazie al quale i suoi
disegni, stilizzati con grande maestria, risultano essere dotati di una
innegabile freschezza e leggerezza, che aiuta lo spettatore a non sentirsi
“soffocato” dalle immagini.
In occasione di quel
Festival, poi, Bozzetto entra in contatto con il disegnatore canadese Norman
McLaren, che ne coglie immediatamente le capacità e qualità artistiche, e con
il produttore inglese
John Halas.
Un giovanissimo Bruno Bozzetto in compagnia di Norman
McLaren, (Cannes – 1958)
|
Nel 1959, Bozzetto si trasferisce Oltremanica
per studiare animazione proprio presso quello stesso John Halas che aveva
conosciuto a Cannes giusto un anno prima e che, riconoscendone il valore, gli
produce “La storia delle invenzioni”
(1).
Anche in questa produzione ritroviamo
quella stessa ironia già espressa in “Tapum! La storia delle armi”: qui essa è
indirizzata verso il progresso scientifico/tecnologico dell’umanità, che viene
interpretato, secondo il pensiero bozzettiano, per lo più come figlio di
circostanze fortuite.
Dal punto di vista stilistico, non vi è
dubbio che questo cortometraggio sia una vera e propria evoluzione di “Tapum! La storia delle armi”: la sua
cifra grafica appare essere più matura, più “consapevole”.
Degno di nota il finale, in cui, circondato
dal caos cittadino ma irrimediabilmente solo, l’uomo sogna un luogo isolato in
cui trasferirsi, per fuggire dalle sue stesse invenzioni. Questo svela un’altra
caratteristica di Bozzetto, la sua capacità di portare allo scoperto le
contraddizioni dell’uomo moderno e della società che si è costruito ed in cui
vive.
Il rapporto con il produttore inglese
s’interrompe dopo pochissimo tempo, a causa di divergenti modi di intendere
l’animazione, che non riguardano tanto questioni squisitamente tecniche, bensì
quale dev’essere il fine ultimo del fare animazione e come raggiungerlo (2).
Si giunge così al 1960, anno di fondazione
della “Bozzetto Film”; questa casa di produzione, che non disdegna di occuparsi
anche di pubblicità, si trasforma immediatamente in una fucina di talenti
portando alla ribalta giovani disegnatori, animatori e sceneggiatori: Guido
Manuli, Giuseppe Laganà, Giovanni Mulazzani e Maurizio Nichetti, solo per fare
qualche nome.
E’ in quest’ambiente che vede la luce,
negli anni Sessanta, il Signor Rossi; questo personaggio nacque per caso,
stando allo stesso Bozzetto, quale “Caricatura di un signore che era allora il
direttore del Festival del Film Artistico di Bergamo, Egli rifiutò al Festival
un mio film mentre in Selezione avevo visto dei film ben peggiori del mio. E’
così che nacque «Un Oscar per il signor
Rossi», che è la storia di un uomo che, dopo aver visto il suo film
rifiutato ad un festival, taglia, graffia, scarabocchia la pellicola e il film
così ridotto vince l’Oscar” (1).
Il
personaggio del Signor Rossi, in questo film d’esordio, appare ancora in uno
stadio rudimentale, ben lungi dall’essere quel “Divo” del Cinema d’animazione
che sarà poi negli anni a venire. D’altro canto egli già contiene “in nuce”
tutte quelle caratteristiche, (basti un esempio: il suo essere “l’Italiano
comune” per eccellenza, a cominciare dal cognome) che lo faranno diventare
l’indiscusso “Personaggio Numero Uno” della galleria bozzettiana.
Alcune tipiche espressioni del "Signor Rossi" |
Egli poi assomma tutti i vizi, le virtù
dell’italiano medio, senza scadere né nel qualunquismo, né nel macchiettistico,
né nell’autocompiacimento; condivide, con l’italiano in carne ed ossa le
aspirazioni, le frustrazioni, anche le subalternità.
Ad ogni modo, al di là del caso specifico,
come nasce, in generale, un personaggio bozzettiano? Lasciamo parlare
direttamente l’autore: “Devo vedere innanzi tutto in che contesto lo metto. Il
personaggio non è mai staccato da nulla cioè io devo pensare che storia devo
raccontare, a chi mi rivolgo e cosa voglio dimostrare. […] Poi devo
incominciare a pensare che tipo di storia, è umoristica, è drammatica, è di
commedia, è una cosa corta, è una cosa lunga. […] io per esempio parto sempre
dal naso, e quindi devo vedere se il naso lo faccio rotondo alla Signor Rossi,
o se lo faccio realistico, o se lo faccio all'insù, insomma ci sono tanti modi.
Poi da lì si parte col resto, ma tutto questo è condizionato da tutto quello
che ho seminato prima.
Poi, se voglio far ridere il personaggio
deve essere buffo, gobbo, particolare, se mi rivolgo ai bambini il personaggio
sarà facilmente un animale. Se è un film di serie deve essere un personaggio
facile da essere ripetuto con dei cliché. […] Ma il personaggio più bello in
assoluto è quello che uno fa per un cortometraggio dove è libero, lavora solo
con sé stesso, ma anche qui c'è il contesto nel quale deve essere inserito che
conta moltissimo. Però devo dire che in questo caso con il personaggio posso
lasciarmi andare. In generale se ne disegnano cinquanta e se ne buttano via
quarantanove, uno un po' più bello lo si tiene e lo si modifica. Diciamo che
quando uno fa un personaggio libero è un po' come quando si fanno degli
schiribizzi e a un certo punto ci si accorge di avere creato qualcosa e poi da
quel qualcosa si tira fuori il personaggio.” (2)
Nel 1961 Bozzetto produce “Alpha Omega”, il cui protagonista, Alfa
appunto, è un omino dal corpo squadrato e dalla testa connotata da tratti
estremamente stilizzati. Alcuni critici vedono in questo modo di rappresentarlo
un omaggio al disegnatore giapponese Yoji Kuri.
Alpha raffigura l’Uomo in quanto tale, che
consuma la propria esistenza (la rappresentazione della vita dall’inizio alla
fine è il soggetto del film) in modo tanto superficiale e frenetico quanto
statico, cioè, alla fine, improduttivo.
Degna di nota, in questo come in molti
altri lavori, la scelta di utilizzare cartelli multilingue per illustrare le
varie sezioni in cui esso si divide, nel tentativo di rendere universalmente
comprensibile il proprio messaggio. (1)
Due anni dopo è la volta de “I due castelli”; così come in “Alpha Omega” il protagonista è
raffigurato in un’unica inquadratura, anche qui i due castelli del titolo, e le
montagne su cui sorgono, sono racchiusi in un’unica inquadratura. In questo
corto molto significativo, troviamo un altro stilema tanto caro a Bozzetto: i
personaggi sono disegnati piccolissimi, e chi guarda ha la netta sensazione d’essere come uno
scienziato che osserva al microscopio il verificarsi di un fenomeno biologico,
in tempo reale; ciò crea senza dubbio un’alchimia in grado di tenere lo
spettatore inchiodato alla poltrona (1). Inoltre, il senso di questo
cortometraggio, racchiuso tutto nello spiazzante finale, è quello che prima di
agire avventatamente bisognerebbe sempre chiedersi cosa realmente ci circonda …
I Due Castelli (Finale) |
Dopo due nuovi cortometraggi dedicati al
Signor Rossi (“Il signor Rossi va a
sciare” e “Il signor Rossi al mare”, rispettivamente del 1963 e del 1964),
nei quali il nostro protagonista appare certamente meno inibito rispetto
all’esordio, ma ancora in qualche misura un poco “rigido”, nel 1965 vede la
luce “West and Soda”.
Questo è il primo lungometraggio di
animazione che si riesca a produrre nel nostro paese dai tempi de “La Rosa di Baghdad” e “I Fratelli Dinamite”, vale a dire dopo
qualcosa come più di quindici anni di silenzio.
Questo film è considerato a ragion veduta
come “il primo classico dell’età moderna” nel suo genere e può essere inserito,
senza esagerare, nel gruppo dei migliori “spaghetti-western”,
assieme alla trilogia di Sergio Leone, sua coeva peraltro, tanto per fare
giusto un nome.
Da qualunque punto di vista si analizzi
quest’opera, la sua qualità è elevata, ad iniziare dalla sceneggiatura, redatta
da A. Giovannini, noto teorico nonché sceneggiatore de “I Fratelli Dinamite”.
Siamo indubbiamente di fronte ad un capolavoro,
che unisce nelle giuste proporzioni ironia, suspense, approfondita descrizione
psicologica dei personaggi, tecnica d’animazione, trovate al limite del non-sense.
Ermanno Comuzio, ne parlò come de “la
disintossicazione dei luoghi comuni” uno “schema obbligato, quindi, che
Bozzetto non si limita a prendere per il bavero nei suoi aspetti più scoperti,
come succede nelle tante parodie con attori in carne e ossa, ma che rovescia
completamente nella beffa feroce e nel ricorso all’assurdo: più che ai western
da ridere, interpretati da attori comici, “West
and Soda” fa pensare a quelli del cinema comico americano del periodo muto,
che si reggevano com’è noto non tanto sugli attori quanto sulle situazioni”
(1).
Clementina, eroina di “West and Soda”
Effettivamente, non vi è nessuna
differenza, nel dipanarsi della storia come nell’evoluzione “emotiva” dei
personaggi, tra questo lungometraggio ed i migliori western interpretati dai
maggiori divi di Hollywood; anche i tratti grafici che caratterizzano ciascun personaggio,
che siano i buoni come Johnny o Clementina o i cattivi come Cattivissimo o
Esmeralda, vanno ben oltre lo stereotipo, ma servono invece a mettere in luce
la forza o le debolezze dei personaggi stessi.
Ognuno di essi, ancora una volta, serve poi
a Bozzetto quale “pretesto” per parlare della vita reale, sia essa immersa
nell’attualità, oppure sia stata parte di un non lontano nostro passato: il
discorso con cui Cattivissimo, dall’alto dello sperone di roccia, si rivolge ai
suoi sgherri, Ursus e Smilzo, richiama inevitabilmente alla memoria altri, ben
più tragici discorsi, pronunciati affacciandosi da un balcone romano …
A loro volta, le trovate ironiche,
sapientemente instillate lungo tutto il film, che siano nelle immagini della
sigla di apertura, o nelle battute dei personaggi, non sono delle semplici o
banali gag umoristiche fini a sé stesse, ma servono a “sincopare” il ritmo del
racconto spostandone l’accento quel tanto che basta a spiazzare lo spettatore e
ad assicurarsi che questi resti inchiodato alla poltrona: in altre parole, sono
un’assicurazione contro la noia e la prevedibilità che in questo genere sono
sempre dietro l’angolo.
Sulla stessa lunghezza d’onda viaggiano
anche alcuni particolari più tipicamente stranianti: il latte già imbottigliato
e custodito, come in frigorifero, nel fianco della mucca alla fattoria di
Clementina; il cavallo di Johnny dotato di contachilometri; il maniscalco che
si prende cura del cavallo con la stessa gestualità utilizzata da un meccanico
alle prese con un’automobile; lo stormo d’avvoltoi che transita in formazione,
stile “frecce tricolori”, alle spalle di Cattivissimo (con tanto di rumore di
motori a reazione) per finire con la carrozza di quest’ultimo, munita di un
clacson a fuoriserie americana.
Allo stesso modo, un ruolo da assoluti
protagonisti è assegnato agli animali presenti nel lungometraggio, siano essi
parlanti oppure no: dalle mucche (Dolly in
primis) della fattoria di Clementina, che ricoprono un ruolo dal sapore di
“coro greco”, al cane Socrate, perennemente attaccato alla bottiglia ma non per
questo privo di sensibilità ed umanità, che trasmette attraverso la mimica
corporea e facciale, degna del miglior B. Keaton, per finire ai cavalli,
dispensatori di inconfutabili perle di saggezza.
Inutile ripetere che anche in questo lavoro
Bozzetto, pur adattandosi alle convenzioni del genere western, non rinuncia nel
modo più assoluto alla propria cifra stilistica, a cominciare dalla sua
passione, già ricordata, per il raffigurare i personaggi in modo microscopico,
inserendoli per di più in un panorama che si estende a perdita d’occhio. Altri
suoi marchi di fabbrica sono la parodia dell’inseguimento, “momento”
cinematografico che Bozzetto confesserà di non amare (2), e, nel duello finale,
il parallelo tra le dita di Smilzo e quelle di Johnny che si avvicinano al
calcio della Colt.
E’ ovvio che tutto ciò è stato possibile
non solo grazie alla maestria di Bozzetto, ma anche al fatto che egli si è
potuto avvalere della collaborazione di un gruppo di veri fuoriclasse: detto di
Giovannini, bisogna assolutamente ricordarsi di G. Mulazzani, alla Direzione
artistica ed alle scenografie, assieme a G. Cereda e L. Gozzini; di G. Manuli,
Direttore delle animazioni e dei Lay-out, in questo coadiuvato da un esordiente
G. Laganà; di F. Martelli e L. Marzetti alle riprese.
Dopo “West
and Soda” Bozzetto realizza un nuovo cortometraggio dedicato al Sig. Rossi
(“Il sig. Rossi si compra l’automobile”)
in cui questo personaggio assume definitivamente la caratura di vero protagonista.
Come negli altri due precedenti, anche qui Bozzetto mette impietosamente e
lucidamente a nudo i limiti ed i difetti della moderna società dei consumi, con
i suoi comportamenti massificati e nevrotici.
Sulla stessa lunghezza d’onda si situa il
corto successivo, “Una vita in scatola”,
che illustra, dalla nascita alla morte il conflitto fra il desiderio di vivere
nel pieno della natura incontaminata e la realtà di consumare il proprio tempo
in maniera ripetitiva all’interno, appunto, di una scatola (casa, scuola,
automobile, ufficio, ecc.).
A tre anni di
distanza da “West and Soda” esce il
secondo lungometraggio di Bozzetto: “Vip
- Mio fratello superuomo”. Qui si narrano le vicende degli ultimi due
epigoni della stirpe dei Vip, super eroi che, sin dalla preistoria, si sono
sempre battuti affinché il bene (o presunto tale …) trionfasse sul male. Però,
se uno dei due fratelli, Super Vip, incarna alla perfezione la tradizione di
famiglia, l’altro, Mini Vip, è invece una specie di “pecora nera”. Non è praticamente
dotato di super poteri ed inoltre soffre di un marcato senso d’inferiorità
verso il fratello Super Vip; ciononostante sarà proprio lui, Mini Vip, il
protagonista assoluto della vicenda.
Anche in “Vip - Mio fratello superuomo”, il tratto grafico, sebbene
profondamente diverso rispetto a quello usato in “West and Soda”, assolve il ruolo fondamentale di definizione delle
caratteristiche psicologiche, ancor prima che fisiche, dei personaggi: le
stesse linee rotonde ed aggraziate che caratterizzano Super Vip, e che servono
a sottolinearne la perfezione ed anche la facilità con cui risolve le
situazioni, in un personaggio come Happy Betty, l’antagonista, funzionano da
moltiplicatore della sua perfidia e malvagità.
Lo stesso uso del colore, più acceso ed in
alcuni tratti anche più aggressivo in “Vip
- Mio fratello superuomo” rispetto a “West
and Soda” non è senza ragione, essendo funzionale al ritmo più da
“thriller” di questo secondo lungometraggio.
Vi sono peraltro notevoli punti di contatto
tra le due produzioni: Cattivissimo era dotato di una carrozza dal clacson
“fuoriserie”? Ebbene, Happy Betty si muove per mezzo di un trono cingolato, che
è davvero un tutt’uno con lei. In “West
and Soda” comparivano due sgherri a fianco dell’antagonista? Anche qui il
malvagio di turno è assecondato da due aiutanti (Colonnello e Schultz).
Anche in questa realizzazione, che vuole
essere una parodia non solo del genere fumettistico dei “Super Eroi” ma anche
di quello dei film d’azione alla “Agente 007”, Bozzetto non si tira indietro
dal segnalare il vero nodo della società contemporanea: la trasformazione di
ogni individuo in un puro e semplice “consumatore” acritico, comandato a
distanza, ed il cui unico scopo nella vita è comprare per consumare e consumare
per comprare, in un eterno ciclo senza fine; oltre a ciò, di “Vip - Mio fratello superuomo” andrebbe
sottolineata, al di là di quelle che erano le intenzioni dell’autore, anche la
lungimiranza nel prevedere alcune situazioni che ora, a più di 40 anni dalla
sua realizzazione, sono assolutamente attuali (a cominciare, ad esempio, dalle
condizioni di lavoro nella fabbrica di Happy Betty).
Fra i vari cortometraggi realizzati
successivamente a “Vip - Mio fratello
superuomo”, vorrei richiamare l’attenzione su due di loro in particolare.
Il primo è “Ego” del 1969, in cui il nucleo centrale del racconto, inserito
tra due parti più tipicamente bozzettiane, è sorprendente nel suo dirompente
espressionismo, reso efficacemente dal tratto grafico e dall’uso magistrale dei
colori, ed in cui non manca la commistione fra animazione disegnata ed immagini
dal vero, che in questo corto sono sovrapposte le une alle altre come in un
collage. Tutto ciò non fa che esasperare la sensazione di essere di fronte ad una
patologia del subconscio, alla quale non è forse estraneo un certo modo di
vivere, fatto di gesti e comportamenti ripetitivi ed alienanti.
Il secondo è “Sottaceti”, composto di una rapida successione di brevissimi
episodi, alcuni disegnati, altri “dal vero”, altri ancora, a loro volta,
contemporaneamente sia disegnati sa dal vero (vedasi gli sketches “La
pubblicità” o “Conclusioni”).
Anche questo corto tiene fede alla
filosofia di fondo di Bozzetto, presentando una sequenza di situazioni tipiche
della società moderna, di cui mette impietosamente a nudo le contraddizioni e
le nevrosi.
Dopo altri
cortometraggi, in alcuni dei quali protagonista è nuovamente il Sig. Rossi, è
quindi la volta del “lungo” più rinomato di Bozzetto, quello che più si è
legato nell’immaginario collettivo alla sua persona: “Allegro non troppo”. Quest’opera gli è valsa anche la nomina ad
“Anti-Disney”, benché egli abbia sempre rifiutato tale etichetta, arrivando a
definirsi come “un misto di Disney e McLaren, e questi sono due personaggi
assolutamente antitetici”. (1).
Vale la pena soffermarsi ad analizzare
questo lungometraggio, che di sicuro tra i tre fin qui descritti, è il più
originale, sotto molti punti di vista: è fuor di dubbio che esso tragga una
qualche ispirazione dal Disneyano “Fantasia” del 1940, ma in realtà sono molto
di più, e più profonde, le cose che distinguono i due lavori da quelle che li
rendono somiglianti. “Allegro non troppo” è ben altro e ben oltre il suo modello
ispiratore. In esso la commistione tra animazione e riprese dal vero, tanto per
fare un esempio, è più articolata e complessa, giacché in “Allegro non troppo” svolge una funzione di tipo espressivo e non
solo estetico. E’ quindi fondamentale il ruolo svolto dal disegnatore (mirabile
l’interpretazione di Maurizio Nichetti, che lo interpreta) “vittima” del
direttore d’orchestra, che si muove con mimica e gestualità da vero cartone
animato, fungendo da cerniera tra i due mondi. Tra parentesi, Nichetti in questa
produzione, oltre che come attore, lavora anche come aiuto regista.
Questi due modi d’utilizzo dell’immagine,
diventano reciprocamente indispensabili per lo sviluppo dell’intero racconto e
la commistione tra i due generi è tale per cui ai personaggi umani vengono
imposte situazioni da cartone animato (il direttore d’orchestra che si schianta
sul pavimento lasciando il segno della propria sagoma) mentre quelli animati
vivono situazioni “umane” (come nel finale, in cui si ha un ribaltamento di
prospettiva tra “mondo reale” e “disegnato”).
Come in Fantasia, anche qui il motore di
tutta la storia è la musica classica, con brani selezionati accuratamente, non
solo per la loro riconoscibilità, ma soprattutto per le possibilità espressive
che concedono al disegnatore.
C’è solo l’imbarazzo della scelta: il
“Valse Triste” di Sibelius, ad esempio, magistralmente reinterpretato
attraverso gli occhi di un gatto che ricorda con struggente nostalgia un tempo
felice passato ed ormai irripetibile oltreché irraggiungibile; in
quest’episodio, assolutamente sublime è l’idea di far rivivere nelle pupille
del gatto stesso le immagini “dal vero”, che quasi immediatamente si dissolvono
nel nulla, di momenti di vita vissuta all’interno di quella che una volta era
casa sua ed ora non è altro che un rudere da abbattere. Non di meno, alla fine,
pure il gatto si dissolve come i suoi ricordi, spiazzando innegabilmente lo
spettatore, nel quale questa soluzione lascia la sensazione di essersi trovato
immerso in un sogno.
Altro esempio è il brano vivaldiano,
trasformato in pretesto sonoro per mostrare come la pace bucolica possa
trasformarsi in un incubo per colpa dell’uomo, essendo quest’ultimo
naturalmente incline a combinare disastri, anche se, a volte, in modo
inconsapevole. Il finale di quest’episodio appartiene di diritto al filone
ironico bozzettiano: anche se apparentemente soccombente, l’ape saprà prendersi
un’inappellabile rivincita sul disturbatore. Questo racchiude in sé un concetto
molto caro a Bozzetto e da quest’autore ricordato in ogni occasione: l’umanità,
intesa come genere, non ha nessun particolare diritto né gode d’alcun
privilegio nei confronti della natura, la quale, seguendo il proprio corso e le
proprie leggi, gli infligge le inevitabili conseguenze del suo agire, proprio
come fa l’ape alla fine dell’episodio.
Possiamo proseguire citando il “Bolero” di
Ravel, il cui andamento sinuoso ed ipnotico (nel suo instancabile ripetersi)
diventa lo spunto per una rivisitazione dell’evoluzione della vita. Qui, dopo
un “incipit” dal deciso sapore kubrickiano, tutto ha inizio all’interno di una
bottiglia: una massa liquida inizia a muoversi, fuoriesce dal contenitore e,
assunta una forma ameboide, inizia ad esplorare il terreno circostante.
Quest’inarrestabile moto si accompagna alla
comparsa, per partenogenesi, di creature sempre più complesse che, attraverso
terra, aria ed acqua, colonizzano l’intero pianeta. Tra queste fa la sua
comparsa anche un essere bipede che si fa immediatamente notare per la sua
spiccata aggressività e perfida intelligenza.
Si potrebbe continuare: dalla “Danza slava
N. 7” di Dvořak, in cui, ancora una volta, vengono implacabilmente messi alla
berlina i modelli comportamentali dell’uomo, salvo poi giungere ad una sorta di
riscatto finale, a “L’Uccello di Fuoco” di Stravinskij, rivisitazione della
creazione e del peccato originale.
Si è discusso a lungo sul fatto che
“Allegro non troppo” sia da considerarsi come la risposta italiana al disneyano
“Fantasia”; come già detto, sono forse di più gli elementi che li dividono di
quelli che li uniscono, e quindi sarebbe più giusto chiedersi se il lavoro
bozzettiano non sia in realtà ben altro e ben oltre il suo pur illustre
predecessore.
Di sicuro è sin qui l’opera più matura di
Bozzetto, in cui egli sa coniugare magistralmente invenzione grafica,
riflessione morale ed elaborazione di teorie filosofiche, tutte unite nel sacro
vincolo dell'ironia.
“Allegro
non troppo”
è l’opera che consacra definitivamente il genio creativo di Bozzetto, anche se,
ad onor del vero, questa produzione è valorizzata ed apprezzata prima oltreoceano
che non qui in Italia (ma si sa, ”Nemo propheta in patria” …).
Facendo seguito al proprio convincimento
che l’animazione non debba svolgere solo una funzione d’intrattenimento ma
possa, anzi debba servire a veicolare e diffondere la conoscenza, Bozzetto,
lungo tutti gli anni ’80, produce, in collaborazione con Piero Angela, per il
programma di divulgazione scientifica “Quark”, circa cento cortometraggi, il
cui scopo è quello di illustrare, facilitandone la comprensione, concetti
scientifici e tecnologici non sempre alla portata del pubblico televisivo.
Nello stesso periodo prosegue la produzione
di cortometraggi, tra i quali vale la pena ricordare “Moa Moa”, nel quale il Bozzetto filosofo apparentemente si concede una vacanza,
lasciando che a prevalere questa volta sia la pura e semplice “gag” visiva,
utilizzando a tal fine colori vivaci, un tratto accattivante ed ambientando
l’azione in uno scenario che immediatamente cattura l’attenzione.
Al decennio successivo appartengono due
cortometraggi che lo hanno portato, rispettivamente, a vincere l’Orso d’oro a
Berlino (1990) ed a ricevere la Nomination per l’Oscar (1991).
Il primo, “Mister Tao”, è un sublime omaggio alla
filosofia Zen, a cui Bozzetto ci rivela di essersi avvicinato (2).
La continua ascesa, in totale serenità e
senza alcuna fatica, del protagonista è metafora di dove può giungere chi
agisce nel rispetto degli altri e della natura circostante, senza rinunciare ad
avere un atteggiamento creativo.
Sempre degli anni novanta è “Drop” in cui è affrontato l’argomento
della conservazione dell’ambiente e, più in generale, della lotta al degrado
delle nostre esistenze, anche sotto il profilo culturale.
L’attività
bozzettiana, dal punto di vista tecnologico, si è sempre mantenuta al passo con
i tempi e quindi ecco iniziare, a cavallo della fine del secolo scorso, la
produzione di cortometraggi mediante la “computer graphic animation”, sia in
2D, sia in 3D. Tra questi ultimi, una citazione la merita senz’altro il primo
della serie, “LOOO”, realizzato
strizzando l’occhio alla Pixar (si veda nel finale il movimento della lampada
da tavolo) e prendendo benevolmente in giro la tematica dei super-eroi o
sedicenti tali.
Bozzetto e l’animazione 3D: Looo
Per concludere, possiamo affermare che
Bozzetto, in tutta la sua opera, rivolta trasversalmente ad un pubblico di
adulti e di ragazzi, abbia sempre cercato di puntare la propria attenzione sul
contenuto del messaggio, sull’idea che stava dietro al disegno, alla scena,
all’intera animazione, invece che all’estetica fine a sé stessa del tratto
grafico, sempre piegato alle esigenze comunicative e fatto diventare quindi
strumento e veicolo di comunicazione piuttosto che elemento di pura e semplice
soddisfazione del senso della vista.
REFERENZE
(1) M. Verger: Il mondo di Bruno Bozzetto.
www.rapportoconfidenziale.org
(2) A.V. Boscarino: Itervista a Bruno
Bozzetto. www.parol.it
|
Avete parlato di un grande MAESTRO dell'animazione. Complimenti
RispondiEliminaLorenzo