(di Bortolo Uberti)
"Angelus" di Jean- François Millet
Un po’ tutti, in particolare gli
anziani, hanno in mente “Angelus” di Jean-François
Millet: ne hanno certamente visto una riproduzione nelle case dei nonni, magari
appesa sopra il letto; l’hanno notata in qualche chiesa di campagna o in
qualche edicola votiva lungo i sentieri di montagna. Quest’opera, dipinta
attorno al 1858, raffigura in primo piano due contadini che, al tramonto del
sole, si raccolgono in preghiera prima di tornare a casa. Il cappello in mano,
lui; le mani giunte lei; entrambi con il capo chino in segno di raccoglimento;
ai piedi il cesto di patate e, alle spalle, la carriola con il raccolto della
giornata. Le luci e i colori sono quelli dell’imbrunire e, all’orizzonte, si
intuisce il profilo del villaggio dal quale si alza il campanile con i
rintocchi che chiamano alla preghiera, quella dell’Angelus, appunto.
Attorno i
campi si distendono a perdita d’occhio con i segni dell’aratura e quelli del
fieno a mucchi. Quella terra è il luogo del lavoro, è lo spazio della giornata
e la preghiera è parte di tutto questo.
Millet racconta: "L'Angelus è un
quadro che ho dipinto ricordando i tempi in cui lavoravamo nei campi e mia
nonna, ogni volta che sentiva il rintocco della campana, ci faceva smettere per
recitare l'angelus in memoria dei poveri defunti". Si racconta anche che
l’artista, al termine della sua opera, chiese al critico Sensier: “Riesci a
sentire le campane?”. Sensier rispose dicendo: “È l’Angelus”.
Angelus è il nome di una preghiera ma è anche quello attribuito ai rintocchi
del campanile che scandivano la giornata e, all’alba, a mezzogiorno e al
tramonto, chiamavano tutti ad una sosta di silenzio e di invocazione a Maria,
contemplando il mistero dell’incarnazione.
Quest’opera, non solo ha riempito
l’immaginario popolare, ma ha anche affascinato grandi artisti come Van Gogh e
Dalì. Proprio il pittore surrealista spagnolo affermava che “L’Angelus di Millet
diventa d'improvviso per me l'opera pittorica più inquietante, più enigmatica,
più densa, più ricca di pensieri inconsci che sia mai esistita”. E più volte, nel suo
stile, reinterpretò questo soggetto.
Oggi questo soggetto è lontano anni
luce dalla nostra sensibilità e dai nostri vissuti. È qualcosa che sa d’antico
e stanno scomparendo anche le nonne che invitano i nipoti a pregare. Eppure,
“allora”, la giornata e il lavoro erano scanditi dal ritmo della preghiera e la
preghiera riempiva di parole e di senso la vita: quella degli affetti e degli
impegni, quella delle parole e dei silenzi, delle fatiche e delle gioie, delle
attese e delle radici. Oggi non è più così per molti, per la maggioranza. Le
campane non suonano più l’Angelus e anche quando lo suonano noi non
comprendiamo il loro messaggio; oggi la pausa al lavoro è alla macchinetta del
caffè non nel silenzio dell’invocazione. Abbiamo perso la preghiera non per
pigrizia o per distrazione ma perché abbiamo perso Dio.
L' arcivescovo di Milano, mons. Mario
Delpini, osa proporre alla diocesi un anno in cui riflettere, confrontarsi,
esercitarsi nell’arte della preghiera. La sua proposta pastorale (dal titolo “Kyrie
Alleluia Amen”) intende “incoraggiare a verificare il modo di pregare
delle nostre comunità” perché, dice l’arcivescovo: “Ho l’impressione che
sia una pratica troppo trascurata da molti, vissuta talora come inerzia e
adempimento, più che come la necessità della vita cristiana. Cioè della vita
vissuta in comunione con Gesù, irrinunciabile come l’aria per i polmoni”.
Io credo che per ritrovare le parole
di una preghiera incarnata nel vissuto, e capace di trasformare la vita, sia
necessario ritrovare quel Dio che abbiamo perso; quel Dio di cui pensiamo di
non aver bisogno o di poterne fare a meno. Credo sia necessario ritrovare la
nostalgia di lui e quell’appetito che ci spinge a sederci alla sua tavola.
Sarebbe bello, è il mio auspico, che
quest’anno le parole del poeta Rainer Maria Rilke diventassero le nostre
parole: “Spegnimi gli occhi e io Ti vedo ancora, rendimi sordo e odo la Tua
voce, mozzami i piedi e corro la tua strada; senza parole, a Te sciolgo preghiere!”.
(pubblicato con l'autorizzazione dell'autore e di "Intrecci")
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