di Elettra Carnelli
L’odore
dell’India
Mi piaceva camminare, solo, muto,
imparando a conoscere passo per passo quel nuovo mondo, così come avevo
conosciuto passo passo, camminando solo, la periferia romana: c’era qualcosa di
analogo: soltanto che ora tutto appariva dilatato e sfumato in un sfondo
incerto.[1]
Nel 1961 Pasolini intraprende un viaggio in
India in compagnia di Alberto Moravia e di Elsa
Morante; dopo aver constatato
l’inarrestabile avanzata della società dei consumi si reca in Oriente per
ritrovare quell’autenticità che tanto lo aveva colpito nella civiltà
pre-industrializzata. È con questo sguardo che Pasolini si rivolge all’India,
intesa come il luogo della scoperta del pre-moderno, del tempo mitico
precedente all’industrializzazione e al consumismo, che non hanno ancora
intaccato i valori millenari di una civiltà in prevalenza contadina.
Questa
esperienza colpirà profondamente lo scrittore, al punto da tradurre i suoi
appunti in un libro, L’odore dell’India.
Già dalle prime righe si delineano le intenzioni dell’autore: descrivere
soggettivamente e sensorialmente un paese imprevedibile, che in quel momento
storico si stava affacciando allo sviluppo.
Anche in questo nuovo contesto emerge
l’importanza del movimento e dell’attraversamento a piedi dei luoghi visitati:
Pasolini è ossessionato dal camminare, dal percorrere le città, i villaggi e i
paesaggi a piedi, incurante dei possibili pericoli, spinto dall’urgenza di
dover ‘sentire’ i luoghi per poterli comprendere appieno. Nelle sue lunghe
perlustrazioni incappa nella povertà, nella miseria, nella sporcizia, ma
soprattutto nell’umanità che popola questo mondo, vibrante ma pacifica, serena
nonostante le disumane condizioni di vita. L’approccio di Pasolini verso una
realtà altra, come quella indiana, è scevro da ogni pregiudizio o preconcetto;
nell’avvicinarsi ad essa ne riconosce la diversità: “sento la vita di un altro
continente come un’altra vita, senza relazioni con quella che io conosco, quasi
autonoma, con altre sue leggi, vergini.”[2]
Le descrizioni paesaggistiche sembrano
risentire dell’avvicinamento di Pasolini all’arte cinematografica: egli infatti
utilizza tecniche proprie del cinema per delineare efficaci istantanee di un
mondo-altro quale l’India, che, pur nella sua alterità, presenta degli elementi
in comune con il mondo delle borgate romane.
Ecco
come Pasolini descrive il suo arrivo a Bombay, partendo dalla topografia per
arrivare alla città e ai suoi più piccoli dettagli, come servendosi dello zoom
di un’immaginaria cinepresa:
Il
nostro arrivo su Bombay dall’alto: monticelli fangosi, rossastri, cadaverici,
tra piccole paludi, verdognole, e una frana infinita di catapecchie, depositi,
miserandi quartieri nuovi: parevano le viscere di un animale squartato, sparse
lungo il mare, e, su queste viscere, centinaia di migliaia di piccole pietre
preziose, verdi, gialline, bianche che brillavano teneramente; i primi facchini
accorsi sotto la pancia dell’aereo: neri come demoni coperti di una tunica
rossa; le prime facce indiane appena fuori dall’aeroporto, i tassisti, i
ragazzi loro aiutanti, vestiti come antichi greci; e la corsa, come una
fenditura attraverso la città.
Un’ora di macchina, lungo una periferia
sconfinata, fatta tutta di piccole baracche, mucchi di negozietti, ombre di banjan su casette indiane dagli angoli
smussati e tutte traforate come mobili vecchi, trapelanti di luce, bivi
accalcati di gente scalza, vestita come nella Bibbia, tram rossi e gialli a due
piani; palazzine moderne, subito invecchiate dall’umidità tropicale, tra
giardini fangosi e casamenti di legno, azzurrino, verdognolo, o semplicemente
corroso dall’umido e dal sole, con strati infiniti di folla, e un mare di luci
come se dappertutto in quella città di sei milioni di abitanti ci fosse festa;
e poi il centro, sinistro e nuovo, la Malabar Hill, con le sue palazzine
residenziali degne dei Parioli, tra vecchi bungalow, e il lunghissimo
lungomare, con una serie di globi di luce che s’infiltrava a perdita d’occhio
nell’acqua…[3]
Le
descrizioni dei luoghi prendono in prestito termini estremamente sensoriali,
sia che si tratti di città calate nella caotica miseria indiana, sia di quelle
oasi di pace e di astrazione che sono i templi,
come quelli di Kajurao:
I templi davanti a noi, coi loro due corpi
[…] nell’oro del sole, erano di una bellezza inesauribile. Non cose di pietra,
parevano: ma d’un materiale quasi commestibile, più che prezioso, aereo.
Nuvoloni e nuvolette cadute in quel gran prato verdino, condensate, coagulate,
diventate simili a grandi grappoli d’uva, col gambo ficcato a terra, gocciolanti,
e in grani fitti, quasi incastrati l’uno nell’altro: e poi un po’ alla volta,
un sole paziente pareva averli prosciugati, fino a renderli sughero, canna,
legno, tufo; ma lasciando ad ogni superficie quel groviglio di grani
incastrati, ricciuti.[4]
I paesaggi
descritti da Pasolini sono animati da un incessante brulichio, persone che
popolano questi luoghi con una vitalità pulsante seppur contenuta. Spesso le
descrizioni architettoniche di città o paesaggi traggono ispirazione proprio da
una persona, quasi che la sua stessa esistenza dipenda dal luogo in cui essa si
trova. Questo continuum unisce l’uomo
e il luogo in un binomio indissolubile di reciproca identificazione.
Pareva la faccia di San Sebastiano:
reclinata un po’ su una spalla, le labbra gonfie e quasi bianche, gli occhi
come spalmati di un pianto disseccato, e una palpebra tirata e rossa. […] intorno
a lui, lungo quel viale periferico (se periferia e centro hanno un senso per le
città indiane), la solita lugubre miseria, i soliti negozietti grandi poco più
che scatole, le solite casupole in disfacimento, i soliti magazzini marciti dal
soffio dei monsoni, il solito altissimo odore che mozza il fiato.[5]
L’umanità
indiana è accumunata da quella romana sottoproletaria dalla stessa fiduciosa
rassegnazione e serena vitalità, entrambi detentrici di un’autenticità che va
svanendo; Pasolini la riconosce nel borgataro romano così come nei ragazzi
indiani che incontra nel suo viaggio.
L’India descritta da Pasolini è un Paese che ha
conservato e codificato le sue tradizioni, nonostante il colonialismo e la
dominazione straniera, ma che, affacciandosi allo sviluppo, è ora minacciato
dal consumismo e dalla rivoluzione industriale. Quindi anche qui, come a Roma,
il mondo del sottoproletario autentico, carico di tradizione e senso, è
destinato a scomparire e Pasolini intende cogliere il momento del passaggio
dall’antica civiltà, contadina e religiosa, a quella moderna, industriale e
laica.
Nel 1969 Pasolini torna in India con l’intento
di raccogliere il materiale per un film; realizzerà così
Appunti per un film
sull’India, definito dall’autore stesso come un “film su un film
sull’India”. Utilizzando come pretesto la domanda se occorra occidentalizzarsi
per modernizzarsi Pasolini avvicina una moltitudine di persone diverse, da
normali passanti a politici, da intellettuali a ricchi possidenti, interrogati
sulle possibili conseguenze di quello che in seguito verrà definito da Pasolini
come sviluppo senza progresso.
Percorrendo villaggi quasi preistorici e periferie urbane che ricordano quelle
romane l’autore si trova di fronte al dramma di un Paese che si affaccia ad un
futuro dove tutto è ancora possibile, ma dove sembra non ci sia più posto per
il passato e le sue tradizioni.
La forma della città
Voglio difendere qualcosa che non è
sanzionato, che non è codificato, che nessuno difende, che è opera, diciamo
così, del popolo, di un’intera storia, dell’intera storia del popolo di una
città, di un’infinità di uomini senza nome […].[6]
A
partire dagli anni ’70 Pasolini inizia ad utilizzare il medium cinematografico
concentrandosi sull’architettura, e in particolare sul rapporto tra natura,
uomo e costruito. La questione del luogo diventa protagonista di una
riflessione che riguarda una società in trasformazione, sempre più improntata
al consumo e all’omologazione: come aveva potuto osservare a Roma prima e nel
Terzo Mondo in seguito le sottoculture, tra le quali quella sottoproletaria,
erano destinate ad essere annientate dall’appiattimento della civiltà dei
consumi. Insieme alle tradizioni e ai comportamenti, anche gli edifici e il
paesaggio, quali eloquenti manifestazioni di una cultura, erano minacciati
dall’incombente avanzata della modernità. Pasolini intuisce il pericolo di uno
sviluppo economico e sociale che non include la tutela del proprio passato ed è
anzi intenzionato a cancellarne le testimonianze, ritenute vecchie e
inservibili; per questa ragione si batterà in prima linea per valorizzare e
conservare non solo le testimonianze più eloquenti di una determinata cultura,
come ad esempio i monumenti, ma anche i più piccoli e solo in apparenza
insignificanti elementi che, colti nel loro insieme, costituiscono la città.
Così si esprime Pasolini stesso in merito a questo suo nuovo atteggiamento:
Quello che mi stava più a cuore, in questi
viaggi, era proprio il tipo di città, la configurazione urbanistica, le strade,
i cancelletti, i muriccioli, le piccole casette sorte a difesa dei campicelli
di viti, abitate normalmente dalla povera gente… ecco, questo mi interessava. E
tutto ciò in un disegno che va scomparendo dalla faccia della terra, che in
Italia è scomparso completamente eccettuato in certi paeselli sui picchi degli
Appennini o sui monti.[7]
Testimonianze
eloquenti di questo nuovo atteggiamento di Pasolini sono i documentari Le mura di
Sana’a e La forma della città, dove il regista conferisce all’architettura
un ruolo da protagonista: le città filmate infatti diventano casi esemplari
delle conseguenze dell’inesorabile avanzata della modernità, che insieme ai
costumi e al linguaggio riesce a compromettere anche il rapporto col passato.
Le questioni urbanistiche e architettoniche non rivestono pertanto un ruolo
marginale, ma assumono una valenza quasi paradigmatica nella polemica di
Pasolini contro il forsennato sviluppo di cui era testimone.
Le mura di Sana’a
Nel 1971, durante le riprese del Decameron in Yemen, Pasolini, incantato
dalla bellezza intatta della capitale Sana’a, filma una sorta di video-appello,
in cui il regista si rivolge direttamente all’Unesco affinché si impegni a
preservarne l’arcaica autenticità dall’avanzare della modernità. Il Paese si
trovava infatti in un momento storico cruciale: la rivoluzione del 1970 aveva
condotto alla nascita della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen, che
comportò l’apertura del neonato Paese alla contemporaneità dopo secoli di
isolamento. Il documentario di Pasolini si apre non a caso con le immagini
della costruzione della prima strada asfaltata dello Yemen, dono della
Repubblica Popolare Cinese; questa ben esemplifica l’affermarsi di uno sviluppo
imposto dall’esterno con la conseguente diffusione di un desiderio di modernità
fino a poco tempo prima estraneo al popolo yemenita. Tale desiderio è entrato
prepotentemente nel Paese, che inizia così ad aspirare a beni di consumo non
necessari e a vergognarsi del suo passato: la classe dirigente infatti disdegna
il nucleo storico di Sana’a, poiché povero e sporco, e ha deciso di
distruggerlo per far posto a nuove costruzioni e infrastrutture. La città
vecchia rappresenta il fulcro dell’accorato appello di Pasolini: i suoi
edifici, privi per secoli di qualsiasi contatto con influenze esterne, sono
frutto di un’espressione architettonica atemporale, estranea al mondo moderno.
Quest’architettura conferisce al nucleo storico di Sana’a una bellezza irreale,
pura, unica ricchezza di un Paese che deve difenderla in quanto simbolo di una
precisa cultura, la propria.
Sana’a, la vecchia città, dentro le mura di
cinta è ancora completamente intatta: è il luogo mitico dove la vita si è
svolta e si svolge sempre secondo le stesse usanze e facendo riferimento ad una
tradizione condivisa, ma ora minacciata dall’arrivo di un “indiscriminato
desiderio di modernità e di progresso.”[8]
Emerge il contrasto delineato da Pasolini tra la città interna, metafora fisica di una realtà intatta e autentica, e
quella esterna, minacciata dalla
modernità che distrugge le tracce del suo passato nel nome del progresso.
Lo
sguardo con cui Pasolini guarda lo Yemen non è più solo quello dello scrittore,
affascinato dall’ “idea – esaltante e statica – di un paese cristallizzato in
una situazione storica medievale”[9],
ma è anche e soprattutto quello del cineasta attento alle cose nella loro realtà
materica. È proprio grazie a questo sguardo lucido, quasi documentario, che
Pasolini rileva, dagli oggetti all’apparenza più insignificanti, l’avanzare
inesorabile della modernità in un Paese non ancora pronto ad assimilarla.
In quanto regista ho visto […] la presenza
‘espressiva’, orribile, della modernità: una lebbra di pali della luce piantati
caoticamente – casupole di cemento e bandone costruite senza senso là dove un
tempo c’erano le mura della città – edifici pubblici in uno stile Novecento arabo
spaventoso eccetera. E naturalmente i miei occhi hanno dovuto posarsi anche su altre cose, più piccole o addirittura
infime: oggetti di plastica, scatolame, scarpe e manufatti di cotone
miserabili, pere in scatola (provenienti dalla Cina), radioline.[10]
Il
fine del documentario è quello di rendere lo Yemen cosciente della sua
identità, in modo che apprenda a preservare e a proteggere il suo passato; per
il regista non vi erano più speranze per l’Italia, già deturpata dalla
speculazione edilizia, e cerca pertanto di salvare perlomeno i Paesi in via di
sviluppo. La neonata Repubblica dello Yemen diventa così una sorta di caso
paradigmatico per tutti quei Paesi del Terzo Mondo che, inermi e indifesi, si
affacciano alla modernità.
Ormai […] la distruzione del mondo antico,
ossia del mondo reale, è in atto dappertutto. L’irrealtà dilaga attraverso la
speculazione edilizia del neocapitalismo; al posto dell’Italia bella e umana,
anche se povera, c’è ormai qualcosa di indefinibile che chiamare brutto è poco.
[…]. Ci rivolgiamo all’Unesco, in nome della vera, seppur ancora inespressa,
volontà del popolo yemenita, in nome degli uomini semplici, che la povertà ha
mantenuto puri, in nome della grazia dei secoli oscuri, in nome della
scandalosa forza rivoluzionaria del passato.[11]
Orte e Sabaudia
Il tema della conservazione e della tutela è al
centro di un ulteriore documentario realizzato da Pasolini, intitolato La forma della città. Fu realizzato per
la rubrica RAI Io e…, trasmissione
che prevedeva uno schema fisso: intellettuali e uomini di cultura erano
chiamati a spiegare il loro interesse per una determinata opera d’arte o
monumento. Pasolini accetta l’invito a partecipare alla rubrica, nonostante la
sua reticenza verso un medium di massa come la televisione, ma ne sovverte lo
schema, motivando così la sua decisione: “non voglio fare un’esibizione, ma una
cosa utile.”[12]
Invece di un’opera d’arte Pasolini presenta in un breve documentario la città
di Orte, un piccolo comune nel Viterbese arroccato su un colle, dal profilo
intatto e dall’armonico rapporto col paesaggio circostante, e, con uno stacco
solo in apparenza inaspettato, Sabaudia, di fondazione fascista; entrambe le
città fungono da pretesto per parlare in difesa della conservazione della forma
della città. Pasolini esprime con semplicità e chiarezza “l’amore dell’utile e
dell’autentico”[13],
sinceramente afflitto per il futuro di paesaggi e città minacciati dal potere
omologante della civiltà dei consumi.
La questione della forma della città si delinea
dall’osservazione del profilo di Orte: il nucleo urbano appare perfetto,
assoluto, patrimonio della poesia architettonica anonima, non codificata, e per
questo ancora più difficile da difendere. Questa bellezza è turbata da qualcosa
di estraneo, di moderno: delle case popolari, dall’aspetto mediocre, totalmente
estranee al contesto, turbano quest’immagine di perfezione in quanto sovvertono
il rapporto tra il paesaggio circostante e il profilo della città di Orte.
Queste nuove costruzioni scatenano l’indignazione di Pasolini: lo scrittore non
si limita a giudicarle solo dal punto di vista estetico, in quanto dall’
“aspetto… estremamente mediocre, povero, senza fantasia, senza invenzione”[14],
ma anche dal punto di vista politico: queste nuove palazzine infatti
appartengono ad un altro mondo, dimentico del passato e della tradizione, e
pertanto prive di contatto con la realtà. Esse rappresentano la traduzione in
termini fisici e architettonici di una profonda crisi di senso, che dilaga
attraverso la speculazione edilizia del neocapitalismo. Questioni urbanistiche
e architettoniche, che a prima vista riguardano solo un ambito prettamente
estetico, sottendono in realtà un piano
più essenziale che comprende il profondo rapporto col passato della città e
della comunità che vi abita. Le palazzine che minacciano Orte non ne turbano
solo la forma pura, perfetta, ma anche l’armonico rapporto con la natura che
circonda la città; tale abbruttimento ha colpito, in maniera anche più grave e
massiccia, altre zone d’Italia, in quanto l’interesse a tutelare si è sempre
concentrato sulla preservazione del singolo monumento e non di tutto
quell’insieme di elementi, architettonici e non, magari più laconici, ma portatori
della ricca cultura materiale di un popolo.
Nella
seconda parte del documentario Pasolini presenta inaspettatamente Sabaudia,
quasi in posizione antitetica rispetto al precedente esempio di Orte: città in
un certo senso recente, priva di quella stratificazione culturale dettata da
secoli di storia, fondata in epoca fascista, Sabaudia presenta un’architettura
di carattere littorio. Ma sorprendentemente questa città non sembra irreale,
ridicola, brutale, così come ci si aspetterebbe, ma col passare degli anni essa
ha assunto
un carattere, diciamo così, tra metafisico
e realistico. Metafisico in un senso veramente europeo della parola, cioè
ricorda mettiamo la pittura metafisica di De Chirico, e realistico perché,
anche vista da lontano, si sente che le città sono fatte, come si dice un po’
retoricamente, a misura d’uomo. Si sente che dentro ci sono delle famiglie
costituite in modo regolare, delle persone umane, degli esseri viventi
completi, interi, pieni, nella loro umiltà.[15]
Com’è
possibile quindi che una città di fondazione fascista sia così incantevole?
Sabaudia è stata sì creata dal regime, ed esteriormente ne presenta i
caratteri; ma il fascismo non è stato in grado di intaccare la realtà
dell’Italia con la sua storia millenaria:
Sicché Sabaudia, benché ordinata dal
regime secondo certi criteri di carattere razionalistico, estetizzante,
accademico, non trova le sue radici in quella realtà che il fascismo ha
dominato tirannicamente ma che non è riuscito a scalfire. Dunque è la realtà
dell’Italia provinciale, rustica, paleo-industriale ecc. ecc., che ha prodotto
Sabaudia, e non il fascismo.[16]
Pertanto
Sabaudia è bella non solo da un punto di vista strettamente estetico: il suo
essere incantevole trae infatti origine dalla realtà dell’Italia provinciale,
legata ad un lungo processo storico che ha prodotto un patrimonio che non è
stato per nulla intaccato dal fascismo. Paradossalmente ora accade il
contrario: nonostante il regime contemporaneo a Pasolini sia democratico, esso
sta conseguendo quell’omologazione che il fascismo non riuscì a realizzare.
È
interessante notare come in questa fase l’indagine di Pasolini si collochi su
un piano più prettamente estetico: mentre in precedenza, come evidenziato nei
primi paragrafi, predomina un’analisi di carattere antropologico, focalizzata
sui rapporti tra individuo e luogo, nei documentari presentati in questo
capitolo emerge l’importanza della bellezza quale criterio di indagine sulla
città e sul paesaggio. Questa posizione estetizzante non si esaurisce nella
constatazione dell’abbandono del bello e dell’armonico quale fini ultimi delle
manifestazioni della modernità: tale approccio vuole infatti sottolineare le
catastrofiche conseguenze di un mondo votato solo allo sviluppo, concretizzato
in un’architettura banale e mediocre, dai caratteri stilistici completamente
estranei a quelli delle città e dei luoghi nei quali si innesta
prepotentemente. In questo senso Orte e Sabaudia si ergono a casi emblematici
di una profonda crisi che si accinge a colpire il volto delle città stesse, minato
nella sua armonia e nella sua bellezza dal “puro orrore edilizio”, frutto della
speculazione e del disinteresse verso il passato e i luoghi.
La
società dei consumi: un genocidio culturale
Se uno osserva bene la realtà,
e soprattutto se uno sa leggere intorno negli oggetti, nel paesaggio,
nell’urbanistica e, soprattutto, negli uomini, vede che i risultati di questa
spensierata società dei consumi sono i risultati di una dittatura, di un vero e
proprio fascismo.[17]
Per comprendere appieno la portata di quella
profonda crisi che, a partire dalla fine degli Anni ’60, stava colpendo
l’Italia, le sue città e le sue culture occorre calare il pensiero di Pasolini
all’interno del contesto dello sviluppo neocapitalista e del crescente
benessere economico che stava interessando il Paese in quegli anni. Il boom
economico in Italia infatti fu caratterizzato dal rapido passaggio da una
società prevalentemente agraria a una industriale, passaggio avvenuto nell’arco
di soli vent’anni. Uno sviluppo analogo aveva richiesto un processo secolare in
Paesi come Francia o Inghilterra, dove tali cambiamenti sopraggiunsero con
alcuni compensi, attraverso un graduale disciplinamento che aveva coinvolto una
lenta maturazione delle coscienze. In Italia invece l’abbandono di una società
preindustriale avvenne, nel corso di due decenni, attraverso processi repentini
e drammatici, come nel caso delle migrazioni forzate dal Veneto o dal Meridione
al Polesine. L'industrializzazione pertanto si è manifestata come una violenta
irruzione, che ha sradicato culture, tradizioni, comportamenti umani sedimentatisi
in centinai di anni.
Pasolini assiste come coscienza critica a tali
cambiamenti, assumendo il ruolo di intellettuale-mediatore che tenta di
interpretare la realtà in cui è immerso a partire dalla sua esperienza
personale. Ancora prima dei suoi contemporanei, Pasolini individua la nascita
di un nuovo modello umano, ispirato a quello borghese: affermatosi
parallelamente al consumismo, esso oppone alle eterogeneità preesistenti
un’omogeneità disumanizzante, dai ristretti gradi di libertà individuale. In
questo senso la borghesia non risulta essere semplicemente una classe sociale,
quanto piuttosto una Weltanschauung, una “condizione antropologica diffusa
presso tutti gli strati sociali, una condizione che si basa sulla distruzione
dell’originario patrimonio della millenaria civiltà contadina e popolare, a
vantaggio della nuova civiltà di massa.”[18]
Tale
processo di borghesizzazione è una diretta conseguenza del nuovo modo di
produzione, che non genera solo beni superflui ma anche una nuova umanità,
dedita al consumo e al piacere del possesso. Questa nuova classe dominante
riesce a sopraffare le culture particolaristiche e popolari, imponendo un
modello di vita consumistico che distrugge le caratteristiche proprie delle
classi subalterne. È in questo senso che Pasolini usa l’espressione genocidio culturale: la borghesia
neocapitalista riesce a imporre i suoi valori e i suoi modelli, estendendoli
alle altre classi sociali e, di fatto, cancellando le culture particolari.
Questo fenomeno è già avvenuto, in maniera analoga, in altri Paesi, dove però
esso si sovrappose ad altri processi sociali e culturali, succedutisi e
adattatisi più gradualmente. In Italia la borghesizzazione si manifesta in un
lasso di tempo estremamente rapido, durante il quale i valori del Paese vengono
unificati e omologati con una velocità e un’efficacia inedite. Il risultato di
tale rivoluzione, col diffondersi del benessere economico, sarà l’appiattimento
e l’omogeneizzazione neocapitalista, in cui non ci sarà spazio per forme di
cultura non previste dal nuovo sviluppo consumista. In questo contesto tutto
ciò che si allontana dall’universo borghese verrà omologato o cancellato; ogni
rapporto col passato, anche nelle sue manifestazioni architettoniche, verrà
soppresso, in nome dello sviluppo. Lo stesso mondo sottoproletario,
impermeabile per decenni ai cambiamenti, è fagocitato dalla forza accentratrice
neocapitalista, che impone, parallelamente allo sviluppo economico, nuovi
modelli comportamentali derivati dai miti borghesi.
Le
denunce di Pasolini contro questa modernizzazione accelerata, conseguenza e
condizione del neocapitalismo, causa di miseria spirituale e di distruzione
antropologica, vengono esplicitate nella
serie di articoli pubblicati dal 1973
al 1975, raccolti successivamente nei
volumi Scritti corsari e Lettere luterane. Il Pasolini che ne
emerge, polemista, letterato e allo stesso tempo sociologo sul campo si cimenta
nella verifica del profondo mutamento creatosi improvvisamente nella realtà
italiana, partendo dall’analisi di elementi particolari, in apparenza innocui;
così le periferie, le mode o gli slogan pubblicitari diventano gli indizi
attraverso i quali Pasolini rintraccia quei processi di omologazione e di assimilazione propri dei modi di vita
borghesi . Da tali elementi, solo in apparenza marginali, l’autore traccia una
visione d’insieme dedotta dalla propria esperienza personale: la prepotente
avanzata dello sviluppo neocapitalista viene svelata dietro ai più svariati
mutamenti nei costumi e ai più disparati fatti di cronaca.
Il genocidio culturale: città, periferia,
campagna
Lo
sviluppo economico neocapitalista non si diffuse uniformemente in Italia, e di
conseguenza il benessere derivante dall’industrializzazione e dalle nuove
infrastrutture rimarrà condizione privilegiata solo di alcune aree del Paese.
Tale squilibrio comporterà profondi cambiamenti, di cui risentiranno le città e
in particolar modo le periferie: infatti i processi migratori dalla campagna e
dal Sud d’Italia, intensificandosi, andranno a modificare in maniera permanente
l’assetto urbanistico e la forma dei centri abitati. Pasolini nota tali
trasformazioni in primo luogo a Roma, e in particolare osservando le frange più
periferiche della Capitale: è proprio dove ambientò i suoi primi romanzi che
Pasolini constata, non senza sorpresa, l’estraneità del benessere. Così si
esprime Pasolini:
Io, coi miei occhi, verifico
ogni giorno che Tiburtino, il Quarticciolo, Primavalle, Pietralata e mille
altri quartieri sono gli stessi di dieci anni fa, la gente vive allo stesso
modo di dieci anni fa. Anzi, se il mio diritto di cittadino che protesta
include anche la suscettibilità estetica, tutto è peggio che dieci anni fa,
perché almeno, dieci anni fa, intorno alle borgate e ai villaggi di tuguri
c’erano i prati: oggi c’è qualcosa di indicibile, il puro orrore edilizio,
qualcosa che condanna chi vi abita alla contemplazione dell’inferno.[19]
Il mondo di Accattone, i suoi personaggi, le sue
catapecchie, le strade, i baretti, quella città che fa da teatro alle sue
picaresche avventure, non esistono già più: è bastato un decennio per
distruggere la sua architettura e sostituirla con l’alvear simil-sovietico dei
quartieri dormitorio dove nessuno conosce più nessuno. Sembra progresso,
l’avvento del benessere, e invece è un genocidio.[20]
Anche in questa fase della produzione
pasoliniana i luoghi diventano il correlativo oggettivo di una società in
trasformazione: nella descrizione di una Roma che “sta diventando una città
orribile”, dove “sulle vecchie borgate sopravvissute come un’indelebile città
di sogno, arcaica, nella città, sorgono nuovi strati periferici, ancora più
orrendi”[21],
la questione estetica rappresenta il pretesto per affrontare il più complesso
problema di un benessere economico dagli effetti epidermici, in grado di
cambiare la mentalità degli individui senza migliorarne le condizioni di vita.
È in questo senso che Pasolini definisce lo sviluppo neocapitalista come uno sviluppo senza progresso, ovvero
limitato solo all’ambito concreto e pragmatico proprio della produzione
industriale, privo di quella nozione ideale di miglioramento sociale e politico
insita nel concetto di progresso.
Città,
periferia e campagna assumono connotati sempre meno diversificati,
sovrapponendosi e fondendosi l’una con l’altra; del fronte della città descritto da Pasolini nelle Vie nuove non vi è rimasto
più nulla. La portata di una trasformazione così radicale appare ancora più
evidente dal confronto col passato, quando potere e sviluppo non furono in
grado di intaccare la forma della città e il rapporto col paesaggio.
Le città finivano con grandi
viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai ‘cari terribili
colori’ nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus
incominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei
sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano
ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle
antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.[22]
È significativo in questo senso l’articolo Come è mutato il linguaggio delle cose, contenuto
nelle Lettere luterane. Pasolini si
rivolge ad un interlocutore immaginario, un giovane della nuova generazione
dello sviluppo senza progresso. L’autore,
per sottolineare l’insormontabile scarto di senso e di esperienze che lo separa
dalla modernità, presenta un confronto serrato della realtà fisica della città
e della campagna prima e dopo l’avvento dello sviluppo capitalistico. Sebbene
in passato la vita nelle periferie fosse povera ma semplice, serena nella sua
ciclica fissità, e i suoi abitanti vivessero in condizioni precarie, dopo quasi
vent’anni quegli stessi luoghi sono irriconoscibili, soffocati dalla
strabordante edilizia sociale e lo spirito popolare originario è andato
perduto. Analogamente anche la campagna mostra i segni di tali sconvolgimenti:
mentre in passato essa rappresentava “la continuità con le origini del mondo
umano”[23],
all’inizio degli Anni ’70 quel che resta di essa è una sopravvivenza, in parte
tecnicizzata e industrializzata, in parte preservata come luogo ricreativo e di
evasione. Pasolini cita anche il caso dei centri storici, tema a lui
estremamente caro: se in precedenza i nuclei antichi incarnavano l’inalterabile
valore della tradizione umanistica, oggi questo stesso valore, insieme ai
centri delle città, è in crisi, come testimonia il pericolo che riguarda la
loro materiale sopravvivenza. Difatti la struttura dei centri storici mal si
adegua alle necessità di una massa consumistica, e di conseguenza la loro
stessa conservazione è messa in discussione di fronte all’avanzata del moderno
sviluppo.
Il genocidio culturale: i giovani
La
radicale trasformazione architettonica e paesistica va di pari passo con una
profonda trasformazione sociale, che viene percepita da Pasolini come un
generale mutamento nella mentalità e nel comportamento; egli avverte tali
cambiamenti in prima istanza nei giovani sottoproletari romani, che trova
profondamente mutati rispetto a vent’anni prima. Pasolini infatti constata il
progressivo disciplinamento culturale che viene imposto sui comportamenti e
sullo stile di vita di questi giovani, il cui modello di riferimento non è più
interno alla propria classe sociale, ma è tratto dalla mentalità dominante
borghese. I giovani inurbati sono ora invidiati dal sottoproletariato romano,
afflitto da un complesso di inferiorità sconosciuto ai ragazzi di vita delle
prime opere pasoliniane, che guardavano anzi con benevola indifferenza le
classi sociali più elevate.
Metà e più dei giovani che
vivono nelle borgate romane, o insomma dentro il mondo sottoproletario e
proletario romano, sono, dal punto di vista della fedina penale, onesti. Sono
anche bravi ragazzi. Ma non sono più simpatici. Sono tristi, nevrotici,
incerti, pieni di un’ansia piccolo-borghese; si vergognano di essere operai;
cercano di imitare i ‘figli di papà’, i ‘farlocchi’. Sì, oggi assistiamo alla
rivincita e al trionfo dei ‘figli di papà’. Sono essi che oggi realizzano il
modello-guida.[24]
I ragazzi di vita hanno smarrito quella cultura
che, estranea allo sviluppo per secoli, era stata in grado di elaborare valori
e modelli di comportamento assoluti, che si consolidavano con le generazioni e
in cui i figli ‘ricreavano’ i padri. La distruzione fisica del mondo
sottoproletario e della sua cultura ha portato all’annientamento di un’intera
fascia della popolazione: il modello di vita borghese, consumistico, è riuscito
a imporsi come riferimento culturale e sociale dominante. Se culturalmente le
classi subalterne non esistono quasi più, la loro povertà tuttavia permane,
essendo il benessere un fenomeno ristretto e superficiale, basato
sull’espansione di consumo di beni privati. La povertà persistente, mascherata
da un illusorio miglioramento del tenore di vita, non permette ai giovani
sottoproletari e proletari di fare proprio il modello culturale borghese, se
non mimeticamente.
Pasolini
evidenzia come la discrepanza tra cultura e condizione economica crei una
pericolosa dissociazione: sospesi tra la perdita di vecchi valori e la mancanza
di nuovi, i giovani sono privati di qualsiasi riferimento col passato e col
presente. Ciò consente loro di privilegiare, come unico atto esistenziale
possibile, la soddisfazione delle proprie esigenze edonistiche e consumistiche.
Il nuovo potere neocapitalista con la sua implicita ideologia edonista ha
elaborato, tramite lo sviluppo, una forma di progresso e di tolleranza
apparenti; tale potere è stato in grado di distruggere ogni cultura
alternativa, in nome di una nuova, basata sul consumo e su valori e modelli
propri, delineati a partire da quelli del mondo borghese. I giovani borghesi si
trovano pertanto in una condizione privilegiata nel realizzare questo nuovo
modello, e si pongono come esempio per coloro che, appartenendo ad una classe
sociale economicamente più debole, vengono ridotti a imitatori. L’infelicità e
l’aggressività che Pasolini riscontra nei giovani, a prescindere dalla classe
sociale di appartenenza, sono causate proprio da questo scompenso, dovuto alla
mutazione delle norme sociali e delle obbligazioni morali. Il giudizio di
Pasolini per questi giovani irretiti dall’ideologia edonistica consumista è
tutt’altro che pietoso: “La privazione dei valori vi ha gettato in un vuoto che
vi ha fatto perdere l’orientamento e vi ha umanamente degradati.”[25]
Tale spinta all’omologazione, culturale e comportamentale, avviene in
concomitanza e in conseguenza dell’affermarsi della società dei consumi,
definita da Pasolini a partire dal cambiamento che riscontra nella coscienza e
nella mentalità dei soggetti: l’individuo non si presenta più per quello che è,
ma per metamorfosi dell’esistente, per livellamento. La rivoluzione
antropologica conseguente sancisce un interclassismo nel quale predomina la
dittatura del consumo, di morale edonistica, vero elemento in grado di
unificare gli italiani e di generare, in futuro, precisi cambiamenti politici.
Le osservazioni dei comportamenti e dei corpi
sono per Pasolini il punto di partenza per una ricognizione delle modalità con
cui il nuovo potere andava imponendosi. Non solo gli atteggiamenti più violenti
o smarriti, ma anche le nuove mode, dalle acconciature all’abbigliamento, sono
prove eloquenti di un’omologazione necessaria affinché i corpi possano essere
manipolati dal potere consumistico. Questa nuova forza, dalle forme di
controllo ambigue e quasi subliminali, si è instaurata così nei corpi dal
canale privilegiato offerto dalla moda, dalla televisione e da una sessualità
solo in apparenza più tollerante. A livello sociale, il passaggio dell’Italia
da una fase paleo-industriale a una neocapitalistica è sancito dalla
trasformazione del popolo, idealizzato dal giovane Pasolini dei primi romanzi,
in una massa portatrice di valori uniformi e standardizzati.
Le conseguenze di una simile rivoluzione
antropologica si materializzano con tinte immaginose e
metaforiche in un
passaggio di Petrolio, romanzo
postumo di Pasolini, che, come dichiarò l’autore, rappresenta “una specie di
‘summa’ di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie.”[26]
Nella parte centrale dello scritto Pasolini delinea una sorta di resoconto
psicogeografico della città di Roma, in cui l’autore affronta in chiave
letteraria il tema della mutazione antropologica e delle sue conseguenze.[27]
In questo passo Carlo, il protagonista del romanzo, viene improvvisamente colto
da una Visione: si trova a seguire, con una sorta di lunga carrellata
all’indietro, i movimenti di una coppia di giovani della nuova generazione, il
Merda e la sua fidanzata Cinzia, lungo la via di Torpignattara, a partire dall’incrocio
con la via Casilina. Questi due ragazzi, nella descrizione di Pasolini,
appaiono come sfigurati dall’omologazione, che li ha disciplinati nel corpo e
nella mente; il loro aspetto è pertanto ripugnante e il loro atteggiamento
innaturale.
La
passeggiata della coppia procede come una sorta di discesa infernale: ad ogni
incrocio corrisponde un Girone o una Bolgia, che equivale a un modello di vita
imposto dal nuovo potere, cui giovani e non si adeguano rapidamente, dimentichi
di culture, valori e stili di vita estranei all’ethos borghese dell’omologazione culturale.
Nella
Scena della Visione […] i personaggi, anziani e giovani […] stanno a
testimoniare l’assenza di un Modello, e quindi il disorientamento e la
malattia. Passi per i vecchi e per gli anziani: essi l’hanno perduto, ma,
almeno, l’hanno avuto. Molti di loro, poi, non si sono nemmeno accorti di
averlo perduto. Ma i giovani soffrono atrocemente questa assenza: essi non
sanno a chi assomigliare, cioè, appunto, che Modello realizzare. Ne hanno degli
altri, come abbiamo visto, nei precedenti Gironi e come vedremo nei Gironi che
seguono: ma questo Modello, che è quello della certezza nei valori eterni
dell’esistenza, cioè nella salute, non c’è.[28]
I temi
toccati negli Scritti corsari e nelle Lettere
luterane assumono in questo romanzo i toni di una trasfigurazione
allegorica potente e indigeribile, in cui mutazione antropologica e
omologazione culturale assumono connotati concreti. La scelta di descrivere il
genocidio culturale in termini così immaginifici non è solo da ricercare nelle
modalità espressive proprie di un letterato come Pasolini: spostando la
denuncia in uno spazio allegorico, sotto forma di una disperata discesa agli
inferi, l’autore vuole fornire gli
strumenti per distinguere i volti del nuovo potere, per poter così essere in
grado di riconoscerli e di opporvi il proprio rifiuto.
[1] P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Guanda, Parma, 1990, pagg. 24-25, in G.
Biondillo, op. cit., pag. 65.
[2] P.P. Pasolini, L’odore dell’India, Ugo Guanda Editore, Parma 2002, pag. 12.
[3] Ibidem, pag. 13.
[4] Ibidem, pag. 40-41.
[5] Ibidem, pag. 59.
[6] F. Francione (a cura di), Pasolini sconosciuto, editore
Falsopiano, 2008. pagg. 167-168.
[7] P.P. Pasolini, Conferenza stampa della lega Italo-Araba, trascrizione da nastro
magnetico ora in “I premi di Pier Paolo Pasolini”, Ed. Fondo Pier Paolo
Pasolini, 1988, in G. Biondillo, op. cit., pag.88
[8] Le
mura di Sana'a (documentario in forma d'appello all'UNESCO), P.P. Pasolini,
Yemen, 1971.
[10] Ibidem.
[12] A. Zanoli, Introduzione a Pasolini e la forma della città, in F. Francione (a
cura di), op. cit., pag. 158.
[13] La
forma della città, P.P. Pasolini, Italia, 1974.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] P.P. Pasolini, Scritti corsari, op. cit., pag. 233.
[18] R. Carnero, op. cit.,
pag. 90.
[19] P.P. Pasolini, Voto Pci per contribuire a salvare il futuro, intervista rilasciata a P. Spriano, in
“l’Unità”, 20 aprile 1963, in M. Cerami, M. Sesti (a cura di), La voce di Pasolini: i testi,
Feltrinelli Real Cinema, Milano 2006, pag. 39.
[20] M.T. Giordana, Conoscere Pasolini, in F.
Francione (a cura di), op.cit., pag. 201.
[21] P.P. Pasolini, “Cambiare il cinema”, in
Il sogno del centauro, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999, pag. 1442, in G.
Sapelli, Modernizzazione senza sviluppo:
il capitalismo secondo Pasolini, a cura di V. Ronchi, Bruno Mondadori
Editori, Milano 2015, pag.30.
[23] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 59.
[24] P.P. Pasolini, “Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio”, Lettere luterane, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori,
Milano 1999, pag. 678, in G. Sapelli, op. cit., pag. 5.
[25] P.P. Pasolini, Lettere luterane, op. cit., pag. 111.
[26] P.P. Pasolini, Petrolio, edizioni Einaudi, 1992, pag. 569.
[27] Cfr. P.P. Pasolini, Petrolio, op. cit., da pag. 320 a pag.
385.
[28] Ibidem,
pag. 340.
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