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sabato 25 luglio 2015

Il lupo perso nei meandri della mente - 1


di Selene G. Rossi

Il licantropo nella storia

Figura mitologica che ha dato spunto a numerosi film horror, il licantropo ha attraversato fasi alterne sia dal punto di vista storico sia da quello letterario-cinematografico. Prima di analizzare il ruolo del lupo mannaro all’interno della cinematografia come rappresentazione del disagio sociale e mentale di una nazione, è utile ripercorrere brevemente le vicende di questa figura orrorifica.

Licaone punito da Giove in un'incisione
di Hendrik Goltzius (1589)
La figura del versipelle affonda le sue origini in tempi remoti; infatti, già Erodoto, Virgilio, Plinio il Vecchio, Ovidio e Petronio ne riportano le trasformazioni e i destini. Ricorda, infatti, Ovidio nelle Metamorfosi (Libro I, vv. 163-243) che Licàone era «un empio e un criminale. Racconta che, mentre Giove percorreva la terra per rendersi conto di persona delle turpitudini attribuite agli esseri umani, arrivò una sera in presenza di Licàone, “il tiranno d’Arcadia.” Il dio venne accolto dai dileggi di Licàone, che medita d’assassinarlo nel sonno: in questo modo si constaterà -dice Licàone - che il suo ospite è un comune mortale. Ma, prima di tutto, prepara per Giove un banchetto affatto particolare: uccide un ostaggio, ne fa cuocere una parte, ne fa arrostire un’altra e presenta il tutto a Giove. 


Pieno di orrore, il dio racconta: “Arsi col fuoco vendicatore quella casa e la rovescia sui Penati degni del loro padrone.” Atterrito, Licàone fugge; e comincia qui il racconto della sua trasformazione in lupo. […] La trasformazione definitiva di Licàone in lupo è percepita […] da Ovidio come il castigo d’un crimine abominevole e rivela in qualche modo la natura vera del “tiranno”» (1). 

Con la fine dell’epoca romana, in cui la trasformazione da uomo in lupo era ritenuta una punizione per aver commesso atti empi, la storia del lupo in Occidente si trovò ad affrontare periodi sempre più bui e cupi, caratterizzati da paura, ostilità e odio che sfociarono in vere e proprie persecuzioni nei secoli dominati dagli Inquisitori. 

In Giovanni (X-1), l’apostolo narra la parabola del Buon Pastore che, sacrificatosi per proteggere il proprio gregge, viene contrapposto al pastore mercenario che fugge, abbandonando l’armento, non appena vede il lupo. «Nel Medioevo, il sistema metaforico della lingua ecclesiastica traduce la parabola nel modo seguente: il pastore è il sacerdote, che custodisce il suo gregge di pecore (i cristiani, i fedeli di cui è responsabile), contro gli attacchi del lupo vorace (il Diavolo)» (2).

Il lupo, incarnazione della cupidigia, perseguitava i credenti perfino nell’aldilà, straziando le carni degli avari e, nelle rappresentazioni medievali, divenne una delle immagini legate a Satana. Ma, diversamente da ciò che accadrà durante i secoli cupi dell’Inquisizione, nella mitologia Normanna e Bretone la figura del lupo mannaro è dissociata da quella dell’uomo di cui rappresenta la trasformazione ferina. È questo il caso di Bisclavret, uno dei dodici Lai composti alla fine del XII secolo da Maria di Francia, in cui sono narrate le vicende del Barone Bisclavret che, intrappolato in forma lupigna dalla moglie fedifraga, recupera le fattezze umane solo dopo  un anno, grazie all’intervento fortuito del re. La leggenda narra che il nobiluomo scomparisse dalla sua magione tre giorni ogni settimana. Convinto dalla consorte a svelare il suo segreto, l’uomo le rivela la propria natura licantropica, per colpa della quale sente la pulsione a trasformarsi in lupo, non prima però di aver nascosto i vestiti in un luogo sicuro. La settimana successiva, la donna incarica un cavaliere da tempo innamorato di lei di trafugare i vestiti, costringendo pertanto il marito a restare per sempre in forma lupigna, e permettendo a lei di sposare il suo complice.

Trascorso un anno, il Re, durante una battuta di caccia, s’imbatte in Bisclavret in forma animale che, immediatamente, si rivolge a lui per porsi sotto la sua protezione. Meravigliandosi dell’animo nobile e della gentilezza della bestia, il monarca decide di portarlo a corte. Ma quando il cavaliere traditore si presenta al cospetto del Re, Bisclavret lo attacca, lasciando stupiti tutti i cortigiani abituati a essere in compagnia di un animale mansueto. Poco tempo dopo, trovandosi nei pressi della vecchia abitazione del Barone, il Re assiste a un episodio di inaudita violenza; infatti, trovandosi di fronte alla moglie fedifraga uscita per porgere i propri omaggi al sovrano,  Bisclavret sferra un attacco brutale al punto tale da staccarle il naso. Convinto del fatto che tale crudeltà debba dipendere da qualche avvenimento di cui il suo prediletto era stato vittima, il Re interroga la moglie che, alla fine, confessa la propria colpa.

Seguendo i consigli di un saggio uomo, il monarca consegna a Bisclavret i suoi abiti. Il mannaro si rifiuta, però, di mutar forma di fronte a tutti e, lasciato solo all’interno di una stanza, procede alla trasformazione. Al suo ritorno, il Re accoglie Bisclavret a braccia aperte e lo reintegra nella sua pozione baronale, restituendogli tutti i possedimenti che gli erano stati estorti con l’inganno. L’infedele moglie e il cavaliere, invece, sono esiliati, e la coppia è inoltre colpita da una punizione divina: la maggior parte delle figlie nate dal loro rapporto nascerà senza naso.

Seppur associato a massacri e carneficine, appare chiaro come in questa composizione - e in altre come Biclarel (inizio del XIV secolo), Melion (1268 ca), Artù e Gorlagon (1400 ca) - l’uomo non debba essere punito per i crimini commessi mentre in forma animale ma debba anzi essere compatito in quanto vittima.

Parallelamente a questo ciclo normanno-bretone, gli ecclesiastici dell’epoca tendevano a dare una spiegazione diabolica a queste trasformazioni; basti ricordare che Guglielmo d’Alvernia (1180-1249), vescovo di Parigi a partire dal 1229, pur non discostandosi dalla tradizione agostiniana secondo la quale la licantropia può essere annoverata tra i fenomeni d’illusione diabolica - ovvero un inganno dei sensi inviato dal Diavolo -pone le basi per i processi medievali, anticipati ora dalla figura del sacerdote in vece di giudice, e dall’esorcismo in vece del rogo. In fin dei conti, anche il chierico Gervasio di Tilbury (1160-1234/1235) mantiene, di fronte al licantropo, un atteggiamento simile a quello postulato nella mitologia bretone e normanna: «(i) si tratta d’una vittima (in questo caso, della sventura e dell’influsso misterioso degli elementi naturali: la luna; (ii) si descrivono i suoi massacri, ma senza prendere in esame (anche solo per un istante) la possibilità di giudicarlo o perseguirlo; (iii) si compatiscono soprattutto le sue sofferenze e si è felici di saperlo infine liberato» (3).
Strega trasformata in lupo attacca dei viaggiatori.
Incisione su legno di Hans Weiditz - Die Eims del
Dr. Johann von Kaysersberg - stampato da
Johann Grüninger Strassburg (1517)

Tra il XVI e il XVII secolo, trascendendo la propria condizione di versipelle creato da un’illusione diabolica, il licantropo inizia a essere identificato con la mutazione diabolica di uno stregone e, in quanto tale, comincia a essere sottoposto al castigo attraverso il fuoco purificatore del rogo. Come ricorda Gaël Milin, «nella storia di questo nuovo modus considerandi nei riguardi delle streghe e dei licantropi, incontriamo un testo che segna una svolta decisiva: è la bolla del pontefice Innocenzo   VIII,  Summi   desiderantes   affectibus (9 dicembre 1484), vera e propria dichiarazione di guerra della Chiesa contro la stregoneria. Nella prima parte di questo documento, il papa dichiara d’aver appreso che in varie regioni della Germania si moltiplicano i fenomeni di stregoneria; nella seconda parte, ne enumera alcuni in particolare; nella terza, si rimette agli inquisitori per punire i colpevoli» (4). Due anni dopo fu pubblicato il Malleus Maleficarum, testo chiave per comprendere l’ossessione e il terrore che serpeggiavano in quei secoli. Vero e proprio ampliamento della bolla papale di Innocenzo VIII, il Martello delle Streghe fu redatto da Heinrich Institor (Krämer) e Jacob Sprenger, due inquisitori domenicani che avevano dedicato la propria esistenza a combattere Satana e i suoi adepti. Questo testo, diviso in tre parti -(i) spiegazione della natura della stregoneria e, soprattutto, dei motivi per cui le donne sono prede più facili per il demònio; (ii) approfondimento della prima parte e considerazioni sul modo in cui può essere effettuata la stregoneria e come questa possa essere debellata; (iii) istruzioni su come catturare, processare, imprigionare ed eliminare le streghe -diventa in breve tempo sia un trattato sessuofobo atto a promulgare l’eliminazione costante e indiscriminata delle donne, sia un manuale utile e riconoscere i “nemici” della Santa Chiesa: eretici, streghe e stregoni, accoliti di Satana e licantropi. Questi ultimi, non solo accusati di stregoneria ma anche di antropofagia - uno dei crimini di cui erano tacciati di compiacersi gli stregoni - e di assassinii, sono inoltre vittime di una “retrocessione sociale:” se, infatti, nel ciclo bretone-normanno il garou era descritto come membro dell’aristocrazia, nel corso dei secoli XVI e XVII il mannaro era spesso un contadino o un pastore, membro comunque delle classi sociali più basse.

Uno dei fattori che distingue maggiormente la mutata rappresentazione del licantropo è data dalle cause alla base della trasformazione; se, infatti, «i narratori medievali attribuivano la metamorfosi del protagonista in lupo a fattori diversi, ma non in rapporto con la stregoneria […], la trasformazione in lupo rientra ormai negli schemi della metamorfosi in strega (o stregone che sia)» (5).

Marcati dal Demonio, i mannari -come anche streghe e stregoni -portavano sul proprio corpo un segno atto a dimostrarne l’appartenenza a Satana. Questo marchio, noto come punctum diabolicum, aveva due caratteristiche principali: essere insensibile al dolore e non far fuoriuscire sangue. Proprio per determinare la natura diabolica degli accusati, gli Inquisitori chiedevano ai medici di cercare attentamente sul corpo dell’imputato tracce di questo punto; questi cerusici, muniti di aghi di diverse lunghezze, si dedicavano alla ricerca pungendo il sospettato in varie parti.

Dopo questi secoli bui caratterizzati da persecuzioni ai danni di innocenti, nel corso del XVII secolo s’inizia ad assistere a una mutazione della concezione stregonesca; soprattutto negli ambienti più illuminati, non è infrequente assistere a prese di posizione radicali da parte di teologi, medici, parlamentari che, osando esprimere dubbi sulle accuse di stregoneria, gettano le basi per una nuova ricezione del lupo mannaro. Tra i precursori di questo nuovo pensiero, vi è il medico renano Johannes Wier (1515-1588) «il quale spiega che molti casi di pretesa possessione diabolica sono da considerare invece come “convulsioni, contrazioni nervose, stati di melanconia, epilessia […]”» (6). Non da meno furono il filosofo Michel de Montaigne (1533-1592) e, in età più tarda, il filosofo e teologo Michel de Malebranche (1638-1715) il quale ne La Recherche de la Vérité (1674) «sviluppa una riflessione […] sui poteri dell’immaginazione, maestra d’errori e responsabile delle illusioni qualificate come stregonesche. La tesi di Malebranche è semplice ed espressa senza perifrasi: “Attribuisco,” egli scrive, “la maggior parte delle stregonerie alla forza dell’immaginazione […]. Si smetta di punire [gli stregoni] e li si tratti piuttosto come folli; si vedrà così che, col tempo, essi non saranno più stregoni”» (7).
Incisione xilografica raffigurante Cappuccetto Rosso
e il lupo disegnata da Gustave Doré e
incisa da Pannemaker (1880)

Non più pericoloso adepto di Satana ma “innocuo” malato di melanconia, vittima dei cicli lunari, il garou assume, nell’immaginario nazional-popolare, connotazioni  sempre  più lontane da quelle diaboliche affibbiategli dagli inquisitori e sempre meglio integrate all’interno di una visione pedagogica propria della tradizione cristiana classica, secondo la quale, per esempio, il licantropo può essere ucciso solo con pallettoni d’argento benedetti.

Protagonista delle favole di Jean de la Fontaine - Il lupo e l’agnello e Il lupo e la cicogna - e di Cappuccetto Rosso di Perrault e della versione rivisitata dei Fratelli Grimm, il lupo continua a essere metafora del pericolo in cui possono incorrere anime innocenti che, uscendo dal sentiero luminoso tracciato di fronte a loro dai propri padri, rischiano di essere trascinate in un pozzo nero di sofferenza e dolore.



Il licantropo nel cinema

La prima incursione cinematografica statunitense nel magico mondo della licantropia risale al 1913, anno in cui Carl Laemmle Sr, futuro fondatore del mitico Studio cinematografico Universal, aveva prodotto The Werewolf, corto di venti minuti circa diretto da Henry McRae. Per questo primo approccio, il mito del licantropo era analizzato «secondo la tradizione culturale e spirituale degli indiani d’America» (8). Per godere del primo lungometraggio dedicato a questa bestia feroce si dovette però attendere fino al 1935 anno in cui Carl Laemmle Jr - figlio di Laemmle Sr - fedele alla
Locandina originale
di Werewolf of London
tradizione teutonica, di cui si sentiva parte integrante, decise di sfruttare il successo riscosso nel lustro precedente da pellicole come Dracula (Tod Browning, 1931), Frankenstein (James Whale, 1932) e The Mummy (Karl Freund, 1932) e, nel 1935, effettuò la seconda incursione dello Studio nel mondo dei licantropi con Werewolf of London, pellicola diretta da Stuart Walker in cui sono descritte le disgrazie abbattutesi su Wilfred Glendon, botanico inglese che, durante un viaggio in Tibet alla ricerca del raro fiore della Mariphasa lumina lupina, è assalito da una strana creatura, metà uomo e metà animale. Tornato in Inghilterra dopo essere riuscito a ferire la bestia, Glendon scopre di essere stato contagiato proprio da un lupo mannaro. Dopo una serie di peripezie di routine in cui il licantropo si aggira per Londra e l’Inghilterra seminando il panico, il film si conclude con il ristabilimento dello status quo: la morte di Glendon e della bestia -in realtà, lo stesso Dottor Yogami che, nel corso dell’intera pellicola si era dimostrato interessato al fiore tibetano.




Locandina originale di The Wolf Man

Girato contemporaneamente a Bride of Frankenstein (James Whale, 1935) per tentare di risollevare le sorti sempre più precarie dello Studio, seppur dedicato alla licantropia questa pellicola ricorda più la versione della MGM di Dr Jekyll and Mr Hyde (Rouben Mamoulian, 1932) che le storie del folklore. Stroncato dalla critica, Werewolf of London sarà ricordato per sempre come il film che contribuì a non creare un nuovo sottogenere horror. La Universal dovette aspettare il 1941 perché i licantropi entrassero a far parte della coscienza collettiva del pubblico con The Wolf Man (George Waggner). Interpretata da Lon Chaney Jr, questa pellicola non solo ritrae in modo drammatico la scissione della personalità che affligge ogni individuo, ma è anche la rappresentazione di un’affermazione del lato più oscuro e ferino dell’animo umano rispetto a un lato moralmente superiore, una sorta di ritorno collettivo alla parte bestiale dell’uomo. Come ricorda infatti David J. Skal in The Monster Show. Storia e cultura dell’horror, «L’uomo lupo […] era l’ulteriore incubo hollywoodiano di un’”Europa” geograficamente indeterminata che adombrava angosciosamente elementi di America, Inghilterra e del continente, proprio come aveva fatto alla lettera la Grande Guerra, mentre il nuovo conflitto stava per far ricominciare tutto daccapo. L’Europa dei film horror americani era un pastiche quasi surreale di accenti, architettura e costumi, l’impressione caotica di un soldato/turista in una vorticosa escursione programmata» (9).

Da allora, in molti hanno cercato di raggiungere i picchi creativi di questo film, ma ben pochi ne sono stati in grado (10). O almeno, questo è quello che credevo fino a un anno fa.

The Wolfman
(2010)

Lawrence Talbot, tra i villain più umani degli anni Quaranta, il più dissociato mentalmente e il più consapevole della propria condizione di Mostro, è da poco stato riportato sul grande schermo da Benicio Del Toro. Certo, nel corso dei decenni altri licantropi hanno invaso le sale cinematografiche, ma mai nessun altro è stato in grado di rendere un’interpretazione così fedele all’originale, così colma di pathos senza però cadere all’interno della trappola dello stereotipo e senza cambiare eccessivamente l’identità filmica della pellicola del 1941. Blockbuster annunciato, neo-vincitore dell’Oscar per il Miglior Trucco, la cui produzione e distribuzione erano state previste per il novembre 2008, The Wolfman è stato vittima di numerosi slittamenti e momenti travagliati, a partire dalla scelta del regista. Mark Romanek, già dietro la macchina da presa di One Our Photo (2002) e di numerosi video musicali (tra i quali, per esempio, Can’t Stop dei Red Hot Chili Peppers, Hella Good dei No Doubt, e Bedtime Story di Madonna), ha abbandonato la produzione subito dopo l’inizio delle riprese adducendo come scusa incompatibilità creative insorte con la produzione. Dopo una lunga ricerca -tra i nomi proposti per riportare sul grande schermo l’uomo lupo era stato fatto anche quello di John Landis, già regista di Un lupo mannaro americano a Londra (1981) e del videoclip di Michael Jackson Thriller (1983)  - la scelta è ricaduta su Joe Johnston, già regista di Jumanji (2005), Jurassik Park III (2001) e Hidalgo (2004).

L’amore di Benicio Del Toro per questo film, da lui fortemente voluto, può essere ricondotto proprio all’infanzia dell’attore portoricano; come, infatti, ha ricordato nelle numerose interviste precedenti  il  lancio  della  pellicola:  «Da  bambino,  ero  sempre  l’Uomo Lupo.  Mio fratello era sempre Frankenstein. Io ero l’Uomo Lupo e un nostro cugino era Dracula. Tutto è cominciato così. […] Sono appassionato di tutti quei vecchi film horror, […] in particolare di quelli prodotti negli anni ’30 dalla Universal, dunque ecco come è cominciato tutto, in un certo senso. Quando ero piccolo, quei film erano trasmessi in TV e i miei cugini li adoravano, così sono cresciuto guardandoli anch’io. […] Mi piacciono tutti quegli horror. […] Hanno sempre in comune il fatto di essere completamente incompresi, tutti quei mostri» (11).



Locandina originale di "The Wolfman"


Dopo un’inquadratura a volo d’uccello su un uomo che, immerso nell’oscurità di una foresta tetra, è in cerca di un essere malvagio non meglio definito ma solo percepito, la macchina da presa si concentra sul sangue che sprizza dalla gola del malcapitato ferito da un mostro disumano dalle fattezze di lupo. Se per ora abbiamo visto solo un rapido primo piano del muso del Mostro, la macchina da presa si concentra ora sul dettaglio di una zampa antropoide, prima di mostrarci il titolo del film che, inciso su una lastra di pietra viene inondato da un flusso di sangue, come già era accaduto con il britannico Horror of Dracula (Terence Fisher, 1958), mentre un funesto ululato trafigge l’aria.  Non privo di una certa ricercatezza visiva, il film si apre con un’inquadratura atta a concedere allo spettatore la possibilità di immergersi all’interno di una realtà avulsa da quella cui è abituato. In modo abbastanza fedele rispetto all’originale del 1941, la pellicola mostra un’incisione su pietra -laddove nel film con Lon Chaney Jr era invece il volume di un’enciclopedia -accompagnata da una voce off di donna che declama: «Perfino un uomo puro di cuore e che a sera reciti le sue preghiere, in lupo si può trasformare quando il labello è in fiore e la luna d’autunno è piena» (12).










                                                                  

Facile a dirsi chi abbia copiato chi!

L’attenzione dell’obiettivo si sposta poi su una carrozza in corsa, riportando così alla mente due capolavori orrorifici della mitologia cinematografica teutonica e americana: Nosferatu (F.W. Murnau) del 1919 e Dracula del 1931. Rifacendosi ora sia alla tradizione cinematografica -con chiare allusioni a Horror of Dracula e a Bram Stoker’s Dracula (Francis Ford Coppola, 1992) -sia a quella letteraria del romanzo epistolare in voga nel XVIII secolo –, la voce off di Gwen Conliffe, getta le basi per comprendere le cause scatenanti il ritorno di Lawrence Talbot, introducendo visivamente i due protagonisti della pellicola, permettendoci inoltre di apprendere qualche particolare - anche visivo - su Lawrence: «Caro Signor Talbot, immagino che Vostro fratello Ben Vi abbia parlato di me nella sua corrispondenza. Sono Gwen Conliffe, la sua fidanzata. Vi scrivo per informarvi della scomparsa di Vostro fratello. È sparito  ormai  da settimane e  noi  temiamo  il  peggio. Di recente, ho appreso che Vi trovate in Inghilterra con la Vostra compagnia teatrale, ma che tornerete in America presto. Capisco che non avete più rapporti con la vostra famiglia da anni, ma Vi imploro di aiutarci a ritrovare Ben. Vi prego, tornate a Talbot Home.»


Essere o non essere? Questo è il problema!
Alternate alle immagini di Gwen, si sovrappongono quelle di Lawrence intento a calcare le scene nei panni di Amleto e, successivamente, il primo piano di un titolo di giornale -questo escamotage utilizzato anche, per esempio, in Dracula di Browning o in The Mummy (Karl Freund, 1932), ricopre la funzione di ellissi narrativa, allo scopo di condensare un’azione che, altrimenti, inciderebbe sull’economia della pellicola.


Dopo un primo piano del volto tormentato di Lawrence, che regge tra le mani un bastone con l’impugnatura d’argento a forma di lupo - replica perfetta di quello sfoggiato da Lon Chaney Jr nell’originale -, e un’inquadratura dell’imponente magione gotica dei Talbot - ovvero Chatsworth House, mirabilmente trasformata grazie a un sapiente uso di effetti CGI -, la scena cambia, permettendoci di assistere al ritorno del giovane nella casa paterna.
Fedelissima riproduzione dell'impugnatura
del bastone di Lawrence Talbot
Diversamente dall’archetipo filmico, in cui Larry era accolto quasi con gioia in una casa che, nel corso della pellicola, sarebbe giunta a ricoprire la funzione di rifugio sicuro dalla follia del mondo esterno, il protagonista si trova qui a essere fagocitato all’interno di una casa antropofaga, sprofondata nelle tonalità più cupe del grigio, e in un’atmosfera carica di caos e decadenza, in grado di riportare alla mente dello spettatore più attento la casa diroccata del Conte Dracula di Tod Browning e l’ingresso di Renfield in questa magione. Appare ora evidente come Johnston, rimanendo fedele alla tradizione gotica della Universal, si avvalga di atmosfere uggiose e fosche per descrivere visivamente sia il mondo tetro e chiuso dell’aristocrazia inglese della fine del XIX secolo, sia quello delirante e folle in cui si trova immerso, malgrado tutto, Lawrence Talbot. Trasposizione aggiornata del classico del 1941 con Lon Chaney Jr, The Wolfman è fortemente legato all’originale, seppur apportando alcune modifiche sostanziali. Laddove la pellicola del ‘41 era un «incubo hollywoodiano di un’Europa geograficamente indeterminata» (13), anticipazione del concetto di suggestione sfocata che prese piede negli anni Quaranta con i film di Val Lewton, questo remake situa l’azione nell’Inghilterra vittoriana del 1890. Come ha infatti dichiarato Del Toro in un’intervista pubblicata su Fangoria, « L’originale era ambientato in un periodo misterioso. Non si capisce mai del tutto se si tratti davvero dell’Inghilterra Vittoriana, o degli anni a cavallo del secolo, o se degli anni ’30, perché all’inizio si vede un’automobile, e poi non la si vede più. Pensavo che sarebbe stato complicato parlare di un lupo mannaro circondato da macchine, o telefoni. È stato fatto con Wolf [Mike Nichols, 1994], che è grandioso nel suo genere. Ma quel che volevamo era restare fedeli al mondo dell’immaginazione, a quelle sensazioni suscitate dagli horror del passato, [che erano ambientati] prima dell’era delle macchine. Sarebbe stato più semplice renderlo credibile in qualche modo. Ma è stato Walker  [sceneggiatore della pellicola] a decidere di farlo svolgere nell’Inghilterra Vittoriana» (14).

Due teste di leone impagliate a guardia dell’ingresso accolgono Lawrence che, intimorito, accenna qualche passo prima di essere bloccato da un cane ringhiante ed essere costretto a ritirarsi verso la scalinata -simile per fattura a quella del Dracula del 1931 - assumendo una forma quasi fetale. La voce autoritaria del padre, inquadrato di spalle mentre imbraccia un fucile, placa l’animale, mentre Lawrence, non ancora ripresosi dallo spavento, s’inerpica a fatica lungo gli scalini, come se sentisse sulle spalle il peso di un’eredità aristocratica troppo dura e pesante da sopportare. Il volto di Talbot Sr emerge dal buio, mostrando i tratti duri e nobili di Sir Anthony Hopkins. Stupito per il ritorno del figlio, l’anziano uomo esplicita il tema che nell’originale era rimasto sotteso per tutta la pellicola: «Ecco, mirate,il ritorno del figliol
Casa dolce casa...
prodigo. Spero che non ti aspetti il vitello grasso.» Soddisfatto per aver mosso questo primo rimprovero al figlio, l’aristocratico lo mette al corrente della morte di Ben, ritrovato cadavere la mattina precedente e, dopo averlo abbandonato alle “cure” del fedele domestico Singh, lo lascia da solo a elaborare il suo lutto, preferendogli invece il pianoforte. Affascinato all’idea di interpretare Talbot Sr fin dalla prima lettura della sceneggiatura, Hopkins delinea i motivi per cui ha tratteggiato il personaggio così sopra le righe, in modo abbastanza diverso dall’originale, facendolo risultare «abbastanza simile a un personaggio di Jack London. Inoltre doveva essere un combattente. Un avventuriero. Un collezionista. Un uomo che aveva viaggiato tutta la vita. La sceneggiatura era stata scritta in modo tale che Sir John Talbot fosse una persona rigida, e io volevo far sì che, quest’aristocratico eccentrico che si era lasciato andare, apparisse stravagant,. Per il suo personaggio mi sono basato su una foto di Samuel Becket, e sembrava che Joe [Johnston] fosse d’accordo. Ho detto, ‘Voglio apparire come un uomo la cui vita sia completamente isolata in questo posto chiamato Blackmoor, e tutto inizia ad andare in pezzi. Non vedo mio figlio da quando era bambino, e poi succedono delle cose davvero strane.’ Non che sia un pazzo, è solo un uomo che si è allontanato da chiunque, e ha un modo malvagio, provocatorio di rapportarsi con le persone, riuscendo a far perdere loro la ragione con un sorriso;» e mostrando le sue dita armate con artigli acuminati, prosegue: «Volevo che quest’uomo fosse particolare. Ipnotico ma anche rivoltante. Di notte suona il piano al buio, così ho iniziato a suonare il piano» (15).

Palesando fin da ora il suo lato più empatico, Lawrence corre al villaggio per porgere le condoglianze a Gwen, fermandosi prima nella camera mortuaria, ovvero il macello, dove l’attenzione è richiamata, seppur in modo indiretto, su decine di carcasse suine appese al soffitto. Contravvenendo al consiglio del macellaio, il giovane scopre il cadavere del fratello dando una sferzata di adrenalina allo spettatore che, sconvolto, si trova faccia a faccia con un volto terribilmente scarnificato.

L’azione si sposta ora all’interno della taverna del villaggio dove Lawrence, medium grazie al quale il pubblico è trasportato nel pieno dell’azione, giocherella con una medaglia appartenuta al fratello su cui appare l’effige di San Colombano circondato da tre lupi, origliando una conversazione tra alcuni avventori che, inconsapevoli della presenza di Talbot, formulano alcune teorie sulla scomparsa di Ben. Queste ipotesi si dividono in quattro categorie:

1. Quella di un cliente secondo il quale: «E se non fosse affatto una bestia? Un astuto assassino? Una persona che porta rancore a degli uomini e per mettere fuori strada le autorità ne uccide altri e poi ne dilania i corpi per far sembrare che una bestia feroce ne sia responsabile?» Ma questa ipotesi, secondo un poliziotto è poco plausibile;

2. quella formulata dal taverniere, e sostenuta da buona parte degli astanti, secondo il quale:
«Non potrebbe essere l’orso ballerino degli zingari?» Seppur deriso dagli avventori, secondo i quali il plantigrado non sarebbe stato di uccidere tre uomini, l’uomo continua a illustrare la sua teoria: «Maledetti zingari! Girano portandosi dietro sventure e diavolerie. Arrivano e dopo due settimane ecco che ci capita. Io penso che Ben Talbot sia andato al loro campo per farsela con una puttana zingara, l’orso lo ha sbranato e loro hanno gettato ciò che restava di lui nel fosso…»;

3. quella del prete che sostiene: «Ho visto quei corpi con i miei propri occhi. Ferite innaturali, più che innaturali. Inferte da una creatura dannata;»

4. e, infine quella di Kirk, che ricorda i fatti avvenuti cinque lustri prima: «Gli zingari non c’entrano proprio niente. Venticinque anni orsono… mio padre lo scoprì. Quinn, insieme al suo gregge, budella e cervello, e Dio sa che altro, tutti sparsi per la brughiera per un quarto di miglio. E Quinn, la sua espressione, era come se fosse stato mangiato vivo. Chiunque fosse stato, era grosso, con gli artigli e non veniva nemmeno scalfito dai pallettoni. Fu così che mio padre tornò a casa, fuse i cucchiaini della dote d’argento di mia madre e forgiò delle pallottole d’argento. Non uscì più di casa…, con la luna piena, dopo di allora.»

Di ritorno alla casa paterna, sempre immersa in un’atmosfera gotica e illuminata unicamente dalla luce di candele, Lawrence chiede di essere ricevuto da Gwen. In questa sua seconda apparizione, ne vediamo il riflesso stagliarsi all’interno di uno specchio, tema visivo che ricorrerà per tutta la pellicola. Dopo essersi presentato e averle consegnato gli averi di Ben, Lawrence le promette che farà del suo meglio per scoprire i responsabili dell’accaduto.

Dopo essersi concentrata su un imponente ritratto a olio di Lady Talbot, la macchina da presa sposta la sua attenzione su Lawrence che, sdraiato su un’ottomana come fosse un paziente di uno studio psichiatrico, rivela al padre di aver visto il corpo del fratello, chiedendosi altresì quale animale possa averlo straziato in quel modo. Messo al corrente dal figlio del fatto che nel villaggio si mormora che il colpevole potrebbe essere stato un uomo, l’anziano uomo, con la voce percorsa da un fremito di nervosismo, ne ammette la possibilità: «Intendi un pazzo furioso libero per la brughiera? Sì, è possibile, ma credo che l’avrei raggiunto con i miei cani. D’altro canto… le ferite sono così impressionanti che solo un uomo sarebbe capace di simile violenza.»

San Colombano, proteggici tu...
Dopo aver scoperto che il medaglione appartenuto a Ben raffigura San Colombano, santo di origine zingara venuto dall’Est, veniamo messi a conoscenza del fatto che il primogenito di casa Talbot era un “mediatore” degli aristocratici della zona che, pagando una somma ai gitani, ne contenevano le attività criminose, convincedoli a spostarsi in un’altra zona dopo aver venduto ai giovani del luogo vino e bellezze.

Allontanatosi da Lawrence, Talbot Sr si accinge a scrutare il cielo con il suo telescopio e, mentre osserva il cielo stella, inizia a declamare La Nuvola, poesia composta da Percy Bisshe Shelley nel 1820. Ben presto, alla voce del padre si sostituisce quella del figlio, stabilendo un patto di supporto reciproco:

Talbot Sr: Quella vergine chiusa entro una sfera di bianca fiamma
                  Che chiaman Luna gli uomini, splendendo liscia mi tocca
Lawrence: Come lana leggera stesa da soffi di brezza
                  Di notte piena.

Sottile riferimento a Mary Shelley, creatrice di Frankenstein e moglie Percy Bisshe Shelley, questa citazione colta serve per introdurre un altro tema sotteso a tutta la pellicola, ovvero la potenza e l’influenza esercitata dalla luna sugli uomini. Afflitto per gli eventi abbattutisi sulla sua famiglia, Lawrence si avvicina al padre confessandogli il suo desiderio di poter tornare indietro. Ma questi, meno propenso al sentimentalismi, gli consiglia di non guardarsi mai alle spalle, perché «il passato è una desolazione di orrori.»

Aggirandosi lungo i corridoi della magione, Lawrence s’imbatte nella camera che, durante l’infanzia, condivideva con il fratello. All’improvviso, mentre un bisbiglìo lo riporta ai tempi felici dell’innocente fanciullezza, il primo flashback ufficiale della pellicola mostra Lawrence, Ben e Lady Talbot giocare
Giro, giro tondo...
spensierati nell’immenso parco della tenuta. Da cupi e bui, i colori diventano saturi e brillanti per tornare alla tonalità lugubre caratteristica del film, come a voler indicare il passaggio dall’età della spensieratezza a quella della consapevolezza legata al fatto che il destino si fa beffe di chiunque e che il dolore non ha riguardo per nessuno.

Da questa scena aulica, l’obiettivo si concentra ancora su Lawrence -sempre in ombra, con il viso illuminato a metà, come a volerci suggerire la dualità della sua personalità. E ancora, a distanza di pochi attimi, assistiamo a un secondo flashback, più onirico del primo, in cui Lawrence ripensa a una notte di molti anni prima quando, svegliato da Ben, abbandona il confortevole  tepore  del  letto per dirigersi verso la fonte del rumore che ha svegliato il fratello. Contrapposta al flashback precedente, questa scena girata nei colori scuri della notte, mostra il cammino di Lawrence che, avventuratosi fuori dalla casa, attraversa il giardino scortato da inquietanti gargoile intagliati nei cespugli. Seguendo alcune gocce di sangue che, come le briciole di Pollicino, segnano la strada da percorrere, Lawrence e il suo Doppelgänger vedono il padre tenere tra le braccia la madre che, ormai priva di vita e con la gola squarciata, regge un rasoio aperto nella mano esangue. Sconvolto da questo dejà vu, Talbot Jr chiude la porta della stanza, abbandonando queste tristi immagini. Seppur distante dal suggerimento sessuale sfocato con cui Siodmak, sceneggiatore di The Wolf Man del 1941, tratteggiava l’attrazione fisica nella pellicola originale, quest’approccio così tetro riesce a ritrarre a tutto tondo alcuni degli aspetti più profondi del mito licantropico, ovvero il sesso visto come animalità incontrollabile e il desiderio come sete di sangue involontaria insita nell’essere umano.

Il giorno successivo, dopo il corteo funebre in memoria del fratello, Lawrence raggiunge Gwen, appollaiata su una roccia nei pressi della cascata dove i due fratelli si rifugiavano da piccoli per sfuggire al padre. Apprendiamo ora un’importante caratteristica di Talbot Sr, ovvero quella che secondo Gwen, è «l’abilità di tenere gli altri a distanza.» La giovane, spinta comunque da buone intenzioni, quasi difende l’uomo, asserendo che, secondo Ben, il vecchio si comportava in quel modo perché lei gli ricordava la moglie defunta. Proprio come Lawrence che, sottomesso dal carattere forte e dominante del padre, fornisce qualche indizio sul suo passato: «Per questo mi ha chiuso in un manicomio per un anno intero e poi mi ha spedito da una mia zia in America.»

Nonostante la gentile offerta di prolungare ancora una notte la sua permanenza nella magione dei Talbot, Gwen parte per Londra. Prima di accomiatarsi, chiede a Lawrence quando tornerà a Londra; questi risponde che prima dovrà far luce su quanto accaduto al fratello.

Ormai è tardi...
Diversamente dal suo predecessore, il Talbot Sr di questa produzione  non  è  uno  scettico,  e  invita
anzi il figlio a rimandare le sue ricerche al giorno dopo perché «è luna piena stanotte, e preferirei che restassi in casa nell’eventualità che la tua teoria del pazzo furioso fosse corretta. Non vorrei perdere anche te.»




Maleva e Larry
Grazie al ricorso a un’accelerazione di immagini, lo spettatore è ora trasportato nel cuore della notte, mentre Lawrence, dopo una lunga cavalcata, giunge al campo dei nomadi; qui uno zingaro, parlando nella sua lingua, lo mette in guardia, consigliandogli di restare al campo e di non attraversare il bosco. Lì per scoprire chi abbia venduto il ciondolo di San Colombano al fratello, Lawrence incontra Maleva; accusata del fatto che tre omicidi siano stati commessi dopo l’arrivo della carovana, l’anziana donna risponde che «non esistono coincidenze, soltanto il fato. Ma gioca una mano coperta.»

L’attenzione si concentra ora sulla massa di cittadini infuriati diretti al campo per giustiziare l’orso. Dopo aver lanciato un fischio d’avvertimento, una sentinella gitana, lo stesso Johnston, non ha il tempo di accorgersi di quello che sta accadendo alle sue spalle ché, con brutale e repentina ferocia, gli viene mozzata la testa. La follia xenofoba sta per raggiungere il suo climax ma l’intervento di un gendarme, secondo il quale l’orso è inoffensivo, riesce a placare gli animi. All’improvviso un’ombra si staglia sui carri e l’orso, terrorizzato, si erge sulle zampe posteriori. Un urlo distoglie l’attenzione dal plantigrado, facendola convergere invece su un uomo cui sono state staccati brandelli di schiena. L’atmosfera si fa carica di tragedia, trasudando orrore e follia. La carneficina, scatenata dal lupo, si dilata, coinvolgendo gli stessi uomini che, in preda al panico, sembrano non rendersi conto di uccidere i propri simili. L’unico a mantenere la calma pare essere Lawrence che, armatosi di fucile per fermare l’essere che ha scatenato il panico, riesce addirittura a evitare che il licantropo -attraverso i cui occhi vediamo in soggettiva la preparazione di un attacco -divori una madre in cerca della figlia. Deciso a vendicare il fratello e a porre termine al regno di terrore scatenato dal versipelle, Talbot Jr segue la bestia che, abbandonato il campo, ha seguito il proprio istinto predatorio per mettersi sulle tracce di un bambino in fuga. Giunto nei pressi di un gruppo di dolmen che si stagliano verso la luna, Lawrence chiama il ragazzo per proteggerlo, ma la fitta nebbia impedisce il ricongiungimento dei due, non impedendo però al lupo mannaro di lanciarsi all’attacco. Morsicato al collo, l’aristocratico è salvato dagli zingari che, armati di fucile, riescono a mettere in fuga il garou. Portato da Maleva per essere curato, Lawrence viene fatto distendere su un pagliericcio in condizioni al limite della sopravvivenza. Rispondendo a una giovane che la implora di non curarlo perché «una volta che si è stati morsi dalla bestia non c’è rimedio,» l’anziana guaritrice manifesta chiaramente la propria identità di credente affermando che se non dovesse aiutarlo commetterebbe peccato. Maleva ricopre ora un’altra importante funzione, ovvero far emergere ancora un topos dei film dedicati ai licantropi, comparso per la prima volta in House of Frankenstein (Erle C. Kenton, 1944), prima joining venture dei mostri Universal: «A volte, il volere del fato è crudele. Potrà essere liberato solo da qualcuno che lo ama.»

Portato a casa, Lawrence è accudito da Gwen, tornata a Blackmoor dopo aver appreso la notizia dell’aggressione. La luna è ancora alta, e Lawrence, in preda al delirio, vede un bambino emaciato - simile per aspetto a Gollum de Il Signore degli anelli (Peter Jackson, 2001) - arrampicarsi ai piedi del letto; a quest’immagine inquietante segue quella terrorizzante di un gigantesco lupo mannaro. Il giorno dopo, al suo risveglio, Lawrence è accudito da Gwen che, preoccupata per le sue condizioni, manda a chiamare il Dottor Lloyd. Dopo essersi informato su quanto è stato detto dagli zingari, ovvero che si è scatenato il diavolo, il medico si dice stupefatto dalla velocità di guarigione del paziente. Infatti, fino a una settimana prima avrebbe sostenuto che Lawrence avrebbe perso il braccio, mentre ora sembra essere guarito da solo. Aggiunto solo in un secondo tempo, il bambino-licantropo creato da Neill Gorton, non è molto amato da Rick Baker - maestro assoluto nel suo campo, già creatore del make up, tra gli altri, di Un lupo mannaro americano a Londra  e Thriller, e degno erede di Jack Pierce, Make Up Artist che, tra gli anni Trenta e Quaranta, contribuì a creare le più terrifiche icone horror della Universal; infatti, il Baker sottolinea che, «concettualmete, ritengo sia un vero errore, e questo è il motivo per cui non l’ho fatto. Non so cosa sia. Neill lo ha creato, oltre a qualche altra roba del tipo sangue-e-budella. Volevano aggiungere del gore, e al momento del reshooting, ci era rimasto poco tempo per fare quello che volevano, così Neill è diventato uno dei nostri» (16).
Mi è sembrato di vedere Gollum...
Prima che Gwen si congedi, Talbot Sr la ringrazia per essere tornata per accudire Lawrence e, non molto implicitamente, accusa il figlio di non aver rispettato le volontà paterne. La giovane cerca di difendere Larry, affermando che il suo comportamento è stato determinato dal desiderio di scoprire la verità su quanto accaduto a Ben.

Quella notte, solo nella sua stanza, Lawrence osserva la ferita allo specchio, per poi raggiungere Singh intento a caricare il fucile. Scopriamo ora che l’uomo è un sikh e, in quanto tale, crede che un sikh sia «un soldato di Dio. Deve sempre armarsi contro il male.» Tra i due s’instaura poi un dialogo illuminante per comprendere l’atmosfera di dolore che aleggia sulla casa:

Lawrence: Credi nelle maledizioni?

Singh: Questa casa ha avuto la sua parte di dolori. Vostra madre, vostro fratello… Sì, credo nelle maledizioni.

Lawrence: Come hai sopportato di restare tutti questi anni? Non eri obbligato.

(Lawrence apre una scatoletta in cui sono riposti alcuni pallettoni d’argento)

Lawrence: Argento. Non sapevo che dessi la caccia ai mostri.

Singh: A volte, i mostri danno la caccia a noi.

L'ispettore Abberline
Il giorno dopo, direttamente da Scotland Yard, l’Ispettore Francis Abberline, giunge al villaggio per indagare sui misteriosi eventi che hanno portato anche al ferimento di Lawrence. L’Ispettore, dopo essersi proclamato ammiratore del giovane Talbot, gli chiede di poter convocare un esperto che ne valuti le ferite, perché «è sorprendente quanto la scienza ci possa aiutare, oggigiorno.» Abberline ricopre una duplice funzione; innanzitutto ci permette di situare in modo chiaro la disposizione temporale in qui si svolgono i fatti (poco più avanti nel film, veniamo messi al corrente del fatto che Abberline seguì  il  caso  di  Jack  lo  Squartatore  un  paio  d’anni  prima,  reiterando  il fatto che la pellicola è ambientata nel 1890). In secondo luogo approfondisce il tema della follia, fino ad ora solo accennato. Questo si palesa chiaramente attraverso le sue parole: «Eh, è un bel mistero, dato che  non sono  rimasti  grandi  predatori  in Inghilterra capaci di infliggere tali… orribili ferite.
La ferocia dell’attacco suggerirebbe l’azione di un animale. O di un folle, magari. Qualcuno con un passato di disturbi mentali che abbia trascorso del tempo in manicomio e che possa aver subito… delle ferite per mano delle proprie vittime.»

Lawrence cerca di difendersi dalle accuse, rilanciando a sua volta e sostenendo di essere anch’egli al corrente della carriera di Abberline, coinvolto, in modo fallimentare, nel caso di Jack lo Squartatore. Punto sul vivo, l’Ispettore rinforza l’idea di malattia mentale come caratteristica saliente di Lawrence: «Non sono vostro nemico, signor Talbot. Ma vi abbiamo visto come Amleto, Macbeth, Riccardo III, tutti con la stessa faccia. Ora, un uomo prudente si chiederebbe chi altri potrebbe vivere in una testa come la vostra.» Prima di accomiatarsi, Abberline comunica a Lawrence che invierà i suoi specialisti affinché si accertino dei suoi movimenti durante le notti degli omicidi.
(...segue il 29.07.2017)


2 commenti:

  1. Quando ho visto che il tuo scritto sarebbe proseguito il 29 luglio ho aspettato a postare un commento. Adesso posso proprio dire che non solo è scritto molto bene ma è anche molto interessante. Complimenti
    Francesco

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    1. Grazie Francesco. Mi fa davvero piacere leggere le tue parole e sapere che tu l'abbia trovato interessante!
      Selene

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