lunedì 28 gennaio 2019

OGGI PARLIAMO DI… GUIDO MANULI


di Boris Bertolini 



Si potrà discutere all’infinito del perché il nostro paese finisca il più delle volte a dover occupare posizioni di rincalzo nelle varie classifiche, ma di certo non perché sia, in generale, a corto di talenti.
Uno di questi è sicuramente l’autore di cui ci occupiamo in questo numero.
Sto parlando di Guido Manuli (Cervia, 1931), disegnatore, animatore, ma anche sceneggiatore e regista di lungo corso.


Guido Manuli


Dopo essersi trasferito a Milano, ove inizia a lavorare come illustratore, nel 1960 incontra Bruno Bozzetto, con il quale forma un sodalizio destinato a produrre molti capolavori, siano essi cortometraggi o lungometraggi.
Passiamo brevemente in rassegna alcuni di questi titoli: I Due Castelli, di cui è, insieme a Bozzetto, soggettista e autore delle animazioni; West and Soda e Vip – Mio fratello Superuomo, in cui ricopre il ruolo di Direttore dell’animazione e dei disegni; Allegro non troppo di cui è co-sceneggiatore; nonché tre lavori dedicati al Sig. Rossi .
Contemporaneamente a queste importanti esperienze professionali, Manuli si dedica alla creazione di spot pubblicitari e personaggi che appaiono all’interno di sigle televisive.
Suo, per esempio, è Johnny Bassotto, cane detective, che compare nella sigla del programma Uno dei tre, anteprima del programma RAI abbinato alla Lotteria Italia Chi? (1977), così come tanti altri, realizzati sempre all’interno della Bozzetto Film.


Johnny il Bassotto

Arriviamo ora al 1982, anno in cui Manuli, per così dire, decide di fare il grande balzo, mettendosi in proprio.
Nei primissimi anni di questa sua nuova fase professionale, continua a produrre sigle televisive e spot pubblicitari per le emittenti italiane pubbliche e private.
Oltre a queste realizzazioni, crea anche una serie di cortometraggi dei quali cura script, animazione e regia.
Uno è Incubus (1985), che narra di un pacioso quanto anonimo signore - il classico impiegato di mezza età, per intenderci - che, sin dal suo ritorno a casa, in una giornata qualsiasi, è testimone di episodi pazzeschi e incredibili, che gli si materializzano di fronte mano a mano che sale con l’ascensore verso casa.
Una volta a letto, si trova poi immerso in una serie infinita e concatenata di incubi, di volta in volta sempre più spaventosi, fino al suo risveglio definitivo, il mattino successivo, e al suo ritorno in strada per andare al lavoro.
Qui, di nuovo, vive una situazione allucinante che lo porta a dubitare di essere effettivamente sveglio: strade deserte, edifici vuoti, nessun segno di vita.
A questo punto il colpo di scena: in realtà tutti si sono nascosti dietro un enorme grattacielo, come a voler fare un gigantesco scherzo al povero malcapitato.


Il protagonista di Incubus

Si riconoscono in questo lavoro alcune delle peculiarità che hanno caratterizzato la produzione di Bozzetto, con cui Manuli ha da poco smesso di collaborare: il tratto grafico, che già anticipa il grottesco della storia, il piacere di esplorare il lato paradossale, ma non per questo meno angosciante, della vicenda (due esempi sono la ragazzina in stato interessante che accusa il protagonista di averla ridotta in quella condizione, o, come già detto, il finale), il ritmo della narrazione.
Un altro cortometraggio di questo periodo è Più uno meno uno (1987), il cui motto è “La vita è un film – Senza ciascuno di noi è un altro film” (che sembra rifarsi a “La vita è un sogno” di Calderón de la Barca).
Esso mostra come può cambiare l’esistenza di svariati individui a seconda che ciascuno di noi sia al mondo oppure no (appunto, il più uno o meno uno).
Questo cartone animato è suddiviso in due sezioni: nella prima abbiamo diversi momenti della vita di un individuo, dal suo concepimento fino alla sua dipartita, e il modo in cui egli interagisce con altri individui in molteplici circostanze; nella seconda queste stesse situazioni, e gli stessi individui, ci vengono presentati in assenza del nostro protagonista, in un gioco del tipo “vediamo come sarebbe andata a finire se non fosse intervenuto”.


Il momento chiave di Più uno e meno uno

Anche qui l’autore ama giocare con il paradosso e con un pizzico di ironia, ancorché amara: lo stesso protagonista non ne è esente in quanto, infatti, passa da un lavoro precario e improbabile a un altro.
In ogni modo, per ognuno dei personaggi è in serbo una sorte non brillante nella seconda metà del cartone (la versione “meno uno”), anche se, a dire il vero, per alcuni pure l’incontro con il protagonista non è foriero di positività.
In soccorso a questa visione delle cose giungono anche lo stesso tratto grafico, scarno, per certi versi “puntuto”, ma elegante, e l’uso del colore, che alterna magistralmente toni tenui a “macchie” più vivide.
Dopo qualche anno, nel 1991, vede la luce Volere Volare, lungometraggio a tecnica mista (animazione + live action) realizzato a quattro mani con Maurizio Nichetti.
I due, che avevano già avuto modo di collaborare durante la genesi di Allegro non troppo (ricordate Nichetti nei panni del disegnatore?), terzo lungometraggio di Bruno Bozzetto, firmano congiuntamente regia e sceneggiatura.
In Volere Volare si narra la trasformazione del protagonista, Maurizio, interpretato da Nichetti, da individuo in carne e ossa a cartone animato egli stesso.
Costui è un timido ometto, che di lavoro fa il doppiatore di cartoni animati ed è sempre in caccia di rumori dal vero da utilizzare come effetti sonori.
Un giorno incontra Martina, impersonata da Angela Finocchiaro, un curioso personaggio che cattura il cuore del nostro, innescando il processo di metamorfosi.


Un momento della metamorfosi di Maurizio

Con il progredire della loro storia, Maurizio si trasforma sempre di più, fino a diventare in tutto e per tutto un cartoon, cosa che peraltro non gli preclude la possibilità di portare a buon fine la propria storia con Martina.
Questa pellicola, dalla trama semplice ma funzionante, ha dalla sua la carica di simpatia conferitagli sicuramente dalla sceneggiatura e dalla regia del duo Manuli-Nichetti.
A questo si deve senz’altro aggiungere la qualità della recitazione dell’intero cast, di cui fanno parte anche Patrizio Roversi e Mariella Valentini negli altri ruoli principali, nonché la mimica di Maurizio Nichetti, in una delle sue più riuscite interpretazioni.
Altro punto di forza sta nella fresca simpatia delle gag ideate e realizzate dagli autori, una su tutte la scena in cui Maurizio si prepara la cena, utilizzando attrezzatura cinematografica a mo’ di utensili da cucina.
Naturalmente non di secondaria importanza è la presenza della parte di animazione, che, tanto per fare un esempio, rispetto a Chi ha incastrato Roger Rabbit?, uscito tre anni prima, qui compie un ulteriore salto di qualità: non solo si ha l’interazione tra cartone e attore umano ma addirittura l’animazione si compenetra al personaggio di Maurizio, così da originare una vera e propria sua “ibridazione”.
Quest’opera è risultata vincitrice di un David di Donatello per la migliore sceneggiatura.
Dopo questa parentesi cinematografica, Manuli torna alla generazione di corti di animazione con Trailer (1993).
Questo lavoro è molto importante, sicuramente per il messaggio che esso porta: rappresenta infatti un grido, di protesta o di disperazione, per le condizioni in cui versa l’animazione italiana.
Già l’incipit, dopo i crediti iniziali, è una dimostrazione di ciò: una scritta trilingue infatti informa che “È nata una nuova generazione di animatori che, per mancanza di denaro, dei propri film fa solo il trailer”.
Questa affermazione, cui fa seguito un breve momento in cui appare lo stesso Manuli nei panni di un “cartoonist” ambulante nonché questuante, è ahinoi, più o meno valida ancora oggi: sappiamo infatti che la situazione non è cambiata di molto.
Il trailer presentato all’interno di questo corto, in sé e per sé, poi, è alquanto assurdo, a metà strada tra l’horror e il thriller, con svariate citazioni da film di varie epoche (in primis King Kong), e con un uso della voce fuori campo che si trasforma, non si sa quanto involontariamente, in un elemento abbastanza esilarante.
Tutto questo però, in ultima analisi, è solo un pretesto per riaffermare la necessità di guardare all’animazione come a una vera e propria forma d’arte che necessita di tutto il sostegno possibile da parte di chiunque possa fornirglielo.
Il finale del cortometraggio è in linea con il resto del lavoro: si vede apparire l’ombra di un famoso personaggio di Disney, che getta nel cappello di Manuli... un biglietto per Eurodisney!


Dal finale di Trailer

Due anni più tardi viene realizzato L'eroe dei due mondi, dedicato naturalmente a Garibaldi.
Lungometraggio commissionate da RAI e Istituto Luce, si avvale della consulenza storica di Guido Gerosa.
In questo caso, si immagina che un bambino, di nome Pallino, a seguito di un naufragio, incontri, sull’isola di Caprera, un anziano signore che gli racconta in forma di favola la storia di quest’uomo, delle sue gesta e, conseguentemente, la storia del nostro Risorgimento.
Nonostante l’indubbio tono eccessivamente agiografico della sceneggiatura, (per esempio: nel film non si accenna minimamente ai fatti di Bronte, ma d’altra parte come si può parlare male di Garibaldi?), ciò che è veramente di valore in questo lungometraggio è innanzitutto l’idea di usare la tecnica del flash back per far rivivere le imprese del nostro eroe nazionale.


La copertina del DVD L'eroe dei due mondi

Poi, la grafica utilizzata per supportare questi momenti narrativi: un tratto molto originale, di pretto stampo fumettistico oserei dire, sia per quanto riguarda il layout sia per quanto riguarda l’uso del colore, giocato su infinite sfumature di una, massimo due tonalità di base.
Anche l’animazione, durante il racconto, si muove su un piano assolutamente originale, avvolgendo lo spettatore in un’atmosfera accattivante e avvolgente, proprio come un flusso di memoria.
Una nota interessante: nella troupe che ha contribuito alla realizzazione di questo lungometraggio troviamo ancora Maurizio Nichetti, questa volta quale realizzatore delle scenografie.
Di qualche anno più tardi è Casting (1997), che si raffigura come una pura parodia del mondo del cinema: qui si immagina il casting effettuato per trovare gli interpreti del cartone animato Biancaneve: vengono passate in rassegna svariate tipologie umane, femminili e maschili, il tutto condito da una notevole vena di umorismo, che sconfina nel demenziale.
Alla fine, comunque, i cartoni animati si prendono la loro rivincita sull’autore (Manuli, intendo dire), che fa una fine davvero ingloriosa.  

Un aspirante Principe Azzurro in Casting

Detto di Monster Mash (2000), coproduzione Italia-USA, storia di mostri messi sotto processo in quanto non più in grado di spaventare nessuno, il successivo lavoro di Guido Manuli di cui vorrei parlare è Aida degli alberi (2001), lungometraggio liberamente ispirato all’opera di Giuseppe Verdi Aida.
Vi si narra la vicenda di Aida, principessa del Regno di Arborea, e Radames, giovane guerriero del Regno di Petra, reciprocamente innamorati nonostante i rispettivi popoli d’appartenenza siano da anni in guerra fra loro.
La loro storia è complicata dal fatto che Amneris, giovane figlia del re di Petra, è a sua volta innamorata di Radames e dagli intrighi del Grande Sacerdote di Petra, Ramfis, il quale vuole che suo figlio Kak, più interessato al cibo, in verità, si sposi con Amneris, al fine di divenire lui stesso il vero regnante di Petra.
Radames, per di più, viene anche condannato a morte per aver favorito la fuga di Amonasro, padre di Aida e re di Arborea, catturato durante una battaglia.
Alla fine, comunque, come in ogni favola che si rispetti, il cattivo Ramfis viene neutralizzato, Aida e Radames possono coronare il loro sogno d’amore, che coincide anche con la fine delle ostilità fra i due popoli.


Radames (di spalle) ed Aida

E Amneris, vi chiederete voi? Beh, Amneris finirà con lo scoprire in fondo che anche il pacioso e goloso Kak ha notevoli virtù e decide quindi di consolarsi con lui... in fondo è comunque lei la figlia del Re di Petra, destinata ad assurgere al trono e a comandare, senza contare che, nel mutato clima politico che si è creato tra Petra e Arborea, non serve più un re bellicoso.
Realizzato in collaborazione con la casa di produzione Lanterna Magica, avvalendosi della sceneggiatura, oltre che dello stesso Manuli, di Umberto Marino, questo è a mio avviso sicuramente il più disneyano di tutti i lavori del nostro.
Lo stile grafico, l’animazione, la presenza di canzoni nei momenti più cruciali dal punto di vista del dramma psicologico che coinvolge i personaggi, tutto si rifà alla tradizione d’oltre oceano.
Non solo questo, naturalmente: anche il modo in cui sono delineati tutti i personaggi, a cominciare dagli animali “antropomorfizzati” nei loro comportamenti, strizza decisamente l’occhio al mondo Disney (da Pocahontas ad Aladdin, giusto per fare due nomi a caso).
Vale la pena comunque sottolineare che siamo di fronte a un lavoro di pregevolissima fattura e che non scade nella melensaggine o, peggio, nel ridicolo.
I personaggi sono comunque ben delineati e ben calibrata è la suddivisione dei ruoli del tipo “caratterista”: in questo senso fantastico è il coccodrillo goloso di biscotti, che piange a comando e nelle cui lacrime si riflettono le immagini di ciò che sta succedendo in giro per il mondo (una specie di specchio magico, insomma).
Un’ultima annotazione prima di salutare questo lavoro: esistono tantissime e incredibili somiglianze fra i personaggi, gli ambienti, gli oggetti che compaiono in questo lavoro e quelli che troviamo in Avatar (2009), il film di J. Cameron che tanto successo ha avuto al botteghino in tutto il mondo.
Al di là di eventuali contenziosi (di cui si ignora l’esistenza e che non interessano chi scrive) fra gli autori, questo fatto può essere interpretato come un indiretto riconoscimento della validità della nostra scuola in fatto di animazione.
L’ultima creazione, ma solo in termini puramente cronologici, di Manuli è la serie televisiva Acqua in bocca (2007-2008-2011), realizzata in co-produzione con RAI e MAGA Production.
Si tratta di brevissimi episodi da 5 minuti l’uno che hanno come protagonisti due simpatici e svitati pesciolini (Pippo e Palla), che vivono in un acquario all’interno di un appartamento occupato da una classica famiglia (la famiglia Carugati nella fattispecie, formata da Ma’, Pa’ e i figli Chris e Sara) con annesso gatto di ordinanza.
In questi episodi, realizzati con la tecnica digitale 3D, la vita di questa famiglia e le sue dinamiche vengono viste e vissute dal punto di vista... dei due pesci, che ci danno la loro personalissima interpretazione di tutto ciò che accade nell’ambito della famiglia.
Il tutto tenendo anche conto della differente indole e psicologia dei due pesci, uno ingenuo, a volte anche sciocchino, l’altro che si vuole dare un contegno da “pesce di mondo”, ma che anch’esso non poche volte rivela la sua vera natura sempliciotta.
Ne nascono così degli episodi che, grazie anche alla loro brevità e alle situazioni a volte surreali che rappresentano, strappano il sorriso.


Il logo della serie




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