di Marisa Vidulli
Quando
il suo sorriso sembra malinconico si chiama Monna Lisa. Quando sembra allegro,
Gioconda. E’ la prima opera d’arte bipolare.
(Fabrizio
Caramagna)
Marina
guardava sconsolata come si stesse rapidamente esaurendo il flacone del suo
profumo preferito dal nome strepitoso, La vie est belle di Lancôme. Lo
aveva comprato nel magico periodo della sua malattia bipolare, l'euforia per
ricordarsi della bellezza della vita quando fosse ritornato il periodo buio, la
depressione che arrivava puntuale come la morte, inesorabilmente dopo sei mesi
di felicità esagerata, anche se non è mai troppa la felicità! Ora era in
euforia, dormiva poco e non vedeva l'ora che spuntasse il giorno per riempirlo
di gioia, musica, colori e progetti a volte irragionevoli. Lo capiva da sola
quando girava per casa ululando: "Con i miei quadri farò il botto!".
Al contrario, in depressione, dormiva sempre, non voleva svegliarsi mai,
sperava piovesse o almeno in una giornata grigia, perché il sole le dava anche
fastidio. Questo alternarsi dell'umore aveva un nome: la Sindrome Bipolare. “Su
e giù per le scale” l'aveva scherzosamente denominata sua sorella, che non ne
capiva la gravità e non sapeva che strazio dell'anima fosse per lei e anche per
chi le stava accanto. Nessuno capiva, né poteva aiutarla, solo aspettare che
finisse.
Il
figlio maschio teneva il calcolo dei mesi e non sbagliava mai, nel frattempo le
diceva: “Poi passa”. Non sapeva il ragazzo, poi fattosi uomo adulto, che la
madre cercava i ponti più alti della città da cui buttarsi e sfracellarsi, né
aveva idea che la madre cercasse la pistola che il marito, finché era andato ad
allenarsi al poligono col suo amico, teneva nascosta tra le lenzuola riposte
nell'armadio grande e una volta era caduta in testa a sua madre che cercava
nella biancheria. Insomma, la depressione era un inferno per lei soprattutto,
ma anche per gli altri che tuttavia vi avevano fatto l'abitudine, loro lei no.
Individuati tre ponti buoni per l'insano gesto, ma a lei sembrava sano, il problema
era come recarvisi. Non guidava, quindi doveva andarci in taxi, poi scendere,
pagare e dire: “Vada pure, che mi devo solo ammazzare, sarà un attimo, nessuno
da portare indietro”. Insomma, farneticava e non ne veniva a capo. Al
contrario, in euforia affermava ai suoi familiari e amiche: “Mi tengo su,
faccio il possibile, mangio bene, tanta ginnastica, un po' di yoga, cerco di
riempire il bicchiere che prima vedevo solo mezzo vuoto, una grande passione
riempie di gioia le mie giornate, scrivere, ho buone amicizie, poche ma vere,
figli bravi e tanto amore, tanto, e pienezza che mi ha insegnato mia sorella. E
ringrazio ogni giorno che viene, ringrazio la vita affrontando gli inevitabili
problemi, uno alla volta, come mi ha insegnato mio marito che è sempre con me
notte e giorno”. In euforia mi alzo la mattina allegra, scendo dal letto e
penso: “Che bello, quante cose intorno da fare”, mentre in depressione vorrei
dormire fino a sera, penso: “Che schifo di giornata, speriamo piova, se c'è il
sole urlo di rabbia o mi sparo”.
Era
soprattutto la notte il momento più fecondo, anche nel sonno la mente non
quietava, elaborava piani, strutture, pensieri, migliaia di idee per progetti
nuovi per i suoi quadri, la poltrona su cui sedeva per vedere la tv spesso
sbatteva contro il muro provocando danni al delicato rilievo di gesso, pensava:
“Chi se ne frega, tanto l'anno prossimo sarò morta” e giù a dondolarsi e
scrostare il prezioso rilievo del muro di cui poi amaramente si pentiva nel
periodo euforico e si sarebbe data pugni in testa a vedere quel bel muro
rovinato.
L’ultima
volta, nel 2023, era in euforia, ben sei meravigliosi mesi di gioia pura,
quadri a bizzeffe e due premi anche, vinti all'ultima mostra allestita, si
ripeteva: “Ma bon, mi manca niente, faccio la vita del michelasso, mangio,
bevo, dormo, dipingo e vado a spasso”.
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