Qual è il nostro posto nel mondo?
Spesso le domande sono più importanti delle risposte. Per rispondere a questa domanda mi viene in mente la bellissima frase di F.W. Nietzsche “divieni ciò che sei”, una sorta di fatica fisica ed intellettuale per realizzare ciò che ciascuno di noi è già in potenza.
(foto dal web- Mnemosyne, dea greca)
Chiunque abbia avuto un figlio o una figlia sa
bene che cos’è l’essere umano al momento della nascita: un neonato fragile ed
indifeso che ha bisogno di tutto per continuare a vivere. Gli altri mammiferi
riescono a camminare a quattro zampe entro 3 settimane dalla nascita. L’uomo
impiega almeno un anno prima di iniziare a camminare in maniera bipede. Il suo
cranio ed il suo cervello si adattano l’un l’altro reciprocamente raggiungendo
la forma finale nell’arco di 2 anni. Segno evidente di come l’evoluzione abbia
agito molto lentamente sulla specie homo sapiens, che è stata preceduta da
altre specie di ominidi poi scomparse.
“Ciò che deve essere lo deve diventare e, dato
che deve certo essere un essere per sé, lo deve diventare mediante se stesso”
diceva Fichte.
Eppure il risultato finale di questa
evoluzione, il cervello racchiuso all’interno del nostro cranio, separato dal
resto del corpo, non sarebbe sufficiente a garantire le funzioni superiori che
sono caratteristiche della mente umana. E’ necessario un collegamento integrale
con ogni parte del nostro corpo, non solo in senso centrifugo ma anche in senso
centripeto, tramite il sistema nervoso autonomo ed il sistema nervoso
periferico, per avere una coscienza di sé e proiettarsi oltre con la nostra
immaginazione, posizionando il nostro io nel mondo. Senza tralasciare il fatto
che secondo i neuroscienziati il cervello è cambiato molto poco negli ultimi
40.000 anni, la sua conformazione risale all’età della pietra, la sua
programmazione è funzionale alla sopravvivenza immediata. Nutrirsi ed evitare i
pericoli sembrano rimasti gli obiettivi più importanti. Spesso non ci rendiamo
conto quanto la nostra evoluzione sia da correlare alle capacità di astrazione
tipiche del linguaggio e della scrittura attraverso le figure metaforiche, le
uniche che consentono al pensiero di formulare un linguaggio figurato e quindi
di mettere in connessione il mondo delle idee con il mondo della realtà. Torna
alla mente la teoria dei tre mondi di Popper che distingue il “mondo uno” delle
entità fisiche dal mondo due della sfera soggettiva (pensieri e sentimenti) e
dal mondo tre, teatro dei prodotti del pensiero umano.
“La memoria, Mnemosyne, è la madre delle Muse
e il ricordo, l’esperienza di pensiero più frequente e insieme fondamentale, ha
a che fare con cose assenti, scomparse dai sensi. Pure l’assente che è evocato
e reso presente alla mente – una guerra, un evento, un movimento – non può apparire
nel modo in cui appariva ai sensi, come se il ricordo equivalesse ad una sorta
di stregoneria. Per apparire soltanto alla mente esso deve dapprima essere
desensibilizzato e alla capacità di trasformare oggetti sensibili in immagini
deve il nome di immaginazione” H. Arendt in “La vita della mente”. La fase di
elaborazione della mente, che di certo è alla base del linguaggio, si sconnette
dal mondo quale ci appare tramite gli organi di senso (vista, udito, olfatto,
tatto e gusto) e ci riposiziona in un mondo potenziale futuro, popolato da
immagini e ricordi ricostruiti ad arte secondo l’esperienza e la nostra
selezione inconscia dei particolari, come una sorta di puzzle personale, capace
di agire nel mondo esterno in maniera migliore. “La plasmabilità, come tale, è
il carattere dell’umanità” ricordava Fichte.
L’immaginazione sembra essere quella facoltà
mentale che permette all’uomo di passare dalla semplice percezione sensibile
all’intuizione, come un ponte utile e necessario per andare oltre la semplice afferenza
sensoriale. Kant sosteneva che “abbiamo una immaginazione pura come facoltà
fondamentale dell’anima umana, la quale sta alla base di ogni conoscenza a
priori. Per mezzo di essa mettiamo in rapporto il molteplice dell’intuizione da
una parte con la condizione dell’unità necessaria dell’appercezione pura
dall’altra”.
Purtroppo la nostra mentalità ancorata
all’esperienza del “qui ed ora” mal si adatta alle situazioni contingenti della
nostra epoca. Le modalità dell’etica tradizionale sul “bene” e sul “male” non
si presta ad una valutazione futura dell’umanità odierna, trascinata dalla
tecnologia alla conquista dell’universo e alle scoperte in ambito scientifico,
ma anche esposta, senza precedenti nella storia, al pericolo che l’agire umano
indiscriminato possa far scomparire l’umanità stessa. “Se continuiamo a
consumare energia e ad inquinare il pianeta con gli attuali ritmi, che destino
riserveremo ai nostri figli e nipoti?” si chiedeva H. Jonas.
Il cambiamento climatico è un fenomeno
insidioso, procede lentamente e non risulta facilmente comprensibile ad una
mentalità legata all’immediato propria del nostro cervello, così legato
all’esperienza, anche perché forse non c’è mai stata una condizione di pericolo
incombente per l’umanità come quella in cui viviamo. “Sappiamo ciò che è in gioco soltanto se sappiamo
che esso è in gioco” dice ancora Jonas nella prefazione al “Principio
responsabilità. Ricerca di un’etica per la civiltà tecnologica”
Siamo immersi nell’intelligenza artificale
ormai da tempo guidati da un paradigma tecnocratico che fa diventare divino il
mercato, più divino del Dio a cui una volta facevamo riferimento, in un modello
economico fisso sul presente. Ciò che può salvare ancora una volta l’umanità è
la nostra immaginazione proiettata sul futuro, salvaguardare il bene comune
esteso alle generazioni future, perché i bisogni dei nostri figli devono
assumere un’importanza tale da riuscire a superare il nostro egoismo. L’homo
sapiens dovrebbe essere in grado di prendere una decisione adeguata per le
generazioni future, altrimenti di quale sviluppo sostenibile stiamo parlando?
Non si tratta più di oziose controversie fra sviluppo contrapposto
all’ambiente: il rispetto dell’ambiente in cui viviamo e dell’intera
popolazione di questo pianeta è parte integrante del miglior sviluppo
ipotizzabile per coloro che abiteranno su questo pianeta.
Sono d’accordo con Papa Francesco quando dice
“non siamo di fronte a due crisi separate, una ambientale e l’altra sociale, ma
piuttosto ad un’unica crisi complessa che è allo stesso tempo sociale e
ambientale. Le strategie per una soluzione richiedono un approccio integrato
per combattere la povertà, ripristinando la dignità agli esclusi e allo stesso
tempo tutelando la natura”. Nelle epoche storiche sono quasi sempre stati i
cambiamenti climatici a spostare le popolazioni da un’area all’altra del nostro
pianeta. Se così non fosse stato non avremmo avuto la possibilità di essere la
progenie dell’homo sapiens.
Molto interessante, scrivi un po' più spesso!
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