di Bortolo Uberti
Un sussulto sulle rotaie, una
brusca frenata del treno e tutti i passeggeri sbalzano avanti. A volte
sbattendo la testa, urtando il vicino o cadendo a terra. Dipende dall’intensità
della frenata o dell’impatto. Il treno del mondo più che sulle rotaie sta
viaggiando fuoristrada su piste sconnesse. E noi, su quel treno, siamo
imbarcati. Con biglietto pagato. Se finora viaggiavamo, più o meno comodi,
adesso, tanto o poco, sobbalziamo e sbattiamo anche noi.
Quanto sta accadendo nel mondo non ci è indifferente. Ci riguarda molto di più di quanto non pensiamo. Non solo genera angoscia ma sembra pure sfuggire alla comprensione. E questo ci disorienta. Proviamo ad informarci, ascoltiamo gli esperti, da una parte e dall’altra, perché gli esperti sono sempre un po’ da una parte e un po’ dall’altra, e alla fine non ci raccapezziamo più. Percepiamo che tutto è più complicato di come sembra. Dietro ogni conflitto ci stanno ragioni storiche, politiche, economiche, umane. Dietro ogni conflitto, per quanto locale, ci stanno altri paesi, altre alleanze, altri fini. Gli obiettivi sono più articolati di quanto non traspaia. Ed un conflitto, anche se per fili segreti e ben nascosti, è collegato ad altri. Ogni alleanza, o appoggio politico, militare, economico, ha scopi diversi o che si sommano a quelli apparenti. Alla fine ci manca il fiato. Non capiamo più. Ci sentiamo impotenti. Non è nemmeno facile schierarsi da una parte o dall’altra, come ci veniva bene fino a poco tempo fa. Non ci resta che metterci dalla parte della pace ma questa parola, in questi giorni, a volte ha il sapore dell’utopia (non si realizzerà mai) ed altre volte ha il sapore della retorica (fin troppo dolce, nauseante). E quindi siamo destinati a distruggerci gli uni gli altri?
Il poeta israeliano Yehuda Amichai
(1924-2000), scriveva:
Metà della gente nel mondo
ama l’altra metà,
metà della gente
odia l’altra, […]
E dov’è il mio posto fra le due metà così combacianti,
e attraverso quale fessura vedrò
i quartieri bianchi dei miei sogni,
e coloro che corrono a piedi nudi sulle dune?
Quanto è vera questa domanda? Dov’è il mio posto tra le due parti? Forse è proprio quello di stare sulla linea dove le due metà combaciano (fa effetto usare questo verbo che ha in sé un bacio). Stare lì nel nome della dignità di ogni persona, del diritto a vivere e ad avere un futuro decente; stare lì nel nome della pace e della giustizia. Il nostro posto è quello di chi non smette di interessarsi e di informarsi, non smette di credere e di pregare. Il nostro posto è quello di chi cerca la pace in sé e la costruisce attorno a sé. Ogni giorno. A partire dalle piccole cose. Perché la conflittualità la respiriamo attorno a noi: in casa, al lavoro, per strada, ovunque.
Yocheved Lifshitz è la vecchietta israeliana rapita
dai miliziani di Hamas nel kibbutz di Be’eri. Ha 85 anni, è stata portata via su
una moto e condotta nei tunnel nella Striscia di Gaza. È stata picchiata con
bastoni, costretta a camminare per chilometri, poi nascosta nella fitta
ragnatela di cunicoli sotto Gaza. Qualche giorno fa, una delle poche, è stata
liberata. E mentre veniva consegnata nelle mani dei soccorritori lei che fa? Dà
la mano al suo carceriere e gli dice in ebraico: “Shalom”, pace!, e
l’altro risponde in arabo: “Aleikum salam”, pace anche a te! Ma con che
coraggio? Come è stato possibile? Eppure l’ha detto. Non è cambiato niente.
Tutto è come prima, forse peggio. Eppure io ammiro il coraggio di questa donna.
Ammiro quella parola che acquista, lì in quel momento, uno spessore nuovo,
forte, credibile. Diventa una parola possibile. Di questo abbiamo bisogno.
e alla bocca del tempo
accanto ai giardini di ombre spezzate,
facciamo come fanno i prigionieri,
facciamo come fanno i disoccupati,
coltiviamo la speranza.
Pace, speranza: siano parole
possibili. Questo chiediamo perché il treno del mondo non deragli
catastroficamente. Con noi sopra.
Nessun commento:
Posta un commento