(a cura di Mimma Zuffi)
Red Star Press
pag.202 € 19,00
Invito alla lettura di Raúl Zecca Castel
Parlare
di Stirner, si sa, non è mai stato facile. L’estremo radicalismo delle sue
teorie da un lato e la mancanza di sistematicità che ne contraddistingue
l’esposizione dall’altro, hanno fatto sì che l’Unico restasse per lungo tempo ostaggio delle più diverse
strumentalizzazioni ideologiche, quando non fosse considerato come prova
dell’insanità mentale del suo autore, documento clinico di un malato
psichiatrico. Condanne e maledizioni, queste, che assieme all’opera non si sono
infatti risparmiate di colpirne il povero autore, destinato ad un’esistenza di
stenti e umiliazioni prima e al più ingrato oblio storiografico poi.
Scrive
Roberto Calasso, a ragione, che i più fedeli lettori di Stirner, quelli che
costantemente ne hanno sentito l’attrazione, sono gli autodidatti e i
farneticanti. Non è un caso dunque – e nemmeno presunzione – se la prima volta
che scorsi le pagine di quest’opera appartenevo alla prima delle due categorie,
per quanto ora, a ripensarci bene, rivedendo nella memoria gli improbabili poster
affissi alle pareti di casa in cui campeggiavano a caratteri cubitali alcune
delle più efficaci frasi stirneriane (‘Io
sono il nemico mortale dello Stato’, e ancora ‘Nelle mani dello Stato la violenza si chiama diritto, in quelle dell’individuo
delitto’), forse non ero poi così lontano dall’esprimere una perfetta fusione
di entrambi gli elementi. Dovevo avere circa quindici anni e le pagine de l’Unico sembravano custodire segreti e
misteri talvolta indecifrabili.
Quando
una decade più tardi decisi di impegnare la mia tesi di laurea in filosofia
allo studio del pensiero stirneriano provai la strana sensazione di chi vuole
chiudere un conto rimasto troppo a lungo in sospeso. Quasi una scommessa, una
sfida a due da giocare sul filo del tempo, un secolo e mezzo di domande, dubbi,
silenzi, accuse, apologie. Così ho provato ad affrontare il testo di Stirner da
un punto di vista filosofico, cercando di stare il più possibile alla larga da
preconcetti ideologici, analizzandone quelle che a mio avviso erano le nozioni
cardine. Lungi dall’assumere aprioristicamente una posizione determinata, di
manifestarla e dunque argomentarla, ho invece tentato di svolgere un’operazione
speculativa che consistesse in una sorta di vivisezione dei vari concetti che
Stirner offre in modo poco ordinato al lettore. L’obiettivo era quello che
ognuno – me compreso – potesse trarne autonomamente le proprie conclusioni.
Conclusioni,
tuttavia, che in alcun modo possono considerarsi risposte definitive alla
questione stirneriana. Ciò perché l’Unico
non intende affatto istituire un nuovo sistema filosofico, né tantomeno un
nuovo modello politico o un progetto antropologico, ennesima utopia. Si ha a
che fare, piuttosto, con l’auspicio di una nuova consapevolezza - consapevolezza
egoistica appunto - fondamento individualistico di ogni possibile pensare ed
agire. Vano, dunque, ogni sforzo definitorio di quella figura immemorabile che
è l’unico stirneriano, fluire
inarrestabile di energie centrifughe, perpetua impermanenza dell’essere. Ogni
definizione, in quanto tale, non può che esprimere il raggio d’azione di sempre
universali categorie, concetti e ideali che altro non sono se non simulacri del
potere, gerarchia autoritaria sotto il cui giogo si chinano le teste umane.
Anche
per questo, Stirner non si definisce mai anarchico. Eppure, come avverte Franco
di Sabantonio in un suo contributo sull’anarchismo stirneriano (F. Di
Sabantonio, Stirner e l’anarchismo,
in AA. VV., Individuo e insurrezione.
Stirner e le culture della rivolta - Atti del Convegno -, a cura di E.
Xerri e V. Talerico, Il Picchio, Firenze, 1992), proprio per questo, egli può
dirsi molto di più, più anarchico degli stessi anarchici. Il suo, se si vuole,
è un anarchismo metodologico. Esso è strumento e mai fine o scopo, poiché
questo resta sempre l’individuo nella sua incommensurabile unicità.
Ecco
allora che il messaggio custodito tra le pagine de l’Unico, quel messaggio per me una volta così segreto e misterioso,
consiste forse in un semplice quanto impegnativo invito. L’invito a prendere
coscienza di se stessi, dei propri interessi, della propria contingenza, a
riappropriarsi di quanto nei secoli è stato alienato nei più diversi al di là, a disporre quindi delle
proprie capacità e facoltà, a rivoltarsi,
al fine ultimo di schiudere la via alla possibilità di una vita non più
rinunciataria ma gioiosa, dove le relazioni tra gli individui siano fondate
sulla reciprocità e non sullo sfruttamento gerarchico. Un invito, purtroppo,
che pare essere rimasto inascoltato sin da allora e la cui eco – ahinoi! - si
affievolisce giorno dopo giorno.
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