giovedì 17 gennaio 2019

Breve storia di due orfane, a Roma (prima parte)


di Marco Moretti 


Il viaggio a Roma per far visita a una mostra di pittura, l’incontro con un’orfana particolare e chi l’ha adottata. Tre giorni intensi sui sette colli, l’Appia antica e la sua pineta. L’inverno capitolino a farla da padrone. Dimenticavo…c’è un’altra orfana.


La giornata mostrò un che di miracoloso. Il tempo era splendido e non faceva freddo, ma capita sovente a Genova, vantaggi di una città adagiata sulla sponda del Mar Ligure.
Intercity per la capitale arrivato e ripartito in orario, carrozza semideserta con temperatura ottimale, nessuna suoneria con volume da rave-party.
Mario Pinozzi iniziò con queste premesse il viaggio di metà dicembre, programmato da tempo.
Su consiglio di Jorge, strano a dirsi si era rivelato anche un esperto di pittura. Da infermiere a critico d’arte, un bel passo.
Con la mediazione di Munnacci, che da buon motore di ricerca in carne e ossa si era adoperato per i biglietti della mostra. Giornalista introdotto in ogni ambiente, nulla da dire.
Aveva procurato una guida turistica.
Prenotato alloggio e treni.
Tutto bene, quindi.
Fino a Genova Brignole, ben cinque minuti dopo che Mario Pinozzi aveva riposto  trolley e giubbotto.
Si era lasciato prendere dalla gravità che lo depositava sul sedile.
Aveva ripreso la lettura di un libro, interrotta dopo dediche, citazioni e quarta di copertina: certi giorni quelle pagine pesavano come fossero di acciaio.
Il dialogo giunse nitido, tra una donna matura, per quello che si poteva intuire dalla voce, e un uomo dall' età indefinita. Con la solida certezza che si trattava di un arrogante.
-          Scusa zia, se sposti ‘a bestia riesco a passa’ prima che annamo.
-          Chi crede di essere, non mi sembra di conoscerla per darci del tu.
-          Ce manca pure che conosco ‘na babbiona come a te. – risata.
Brivido sotto la pelle, in una carrozza riscaldata.
Con la sciarpa intorno al collo.
Non era una questione di congiuntivi, lo sapeva.
Mario tentò di cacciare indietro la “fame", sembrava un tantino esagerato liberarla per una cosa da poco.
-          Sei sorda o che, me levi dai cojoni questo cane o vòi un calcio?
Appunto.
Chiusura del libro, stiramento del collo, grattatina alla barba.
In piedi nel corridoio, direzione coda del treno.
Lei era una sessantenne elegante, in un cappotto rosso, trucco sobrio, capelli grigi e corti, ordinati. Teneva al guinzaglio un cane alto meno di mezzo metro, pelo corto e coda tozza, tesa. Il muso era schiacciato, gli occhi neri che fissavano immobili il tipo dei congiuntivi mancati. Sui trenta, capelli spianati dal gel, abito con cravatta e giaccone sportivo, trolley griffato. Taroccato. Occhiali da sole e una cicatrice sulla guancia destra completavano il ritratto.
-          Stia calmo, - disse lei, - le conviene.
-          Che paura, - rispose tendendo in avanti le braccia e facendole vibrare – che sei 'na cintura nera de…
Il cane scattò senza emettere un suono, assaggiò pantalone e caviglia dell'uomo e prese a scuotere il collo…e il resto del piccolo corpo. Che si rivelò forte.
-          Aahhh…molla bastardo!
Mister Congiuntivo, secondo Mario si era guadagnato questo nick-name, cercò di sganciare il cane scalciando in modo scomposto. La signora mollò il guinzaglio e fece un passo indietro. Pinozzi tornò a sedere con aria soddisfatta.
-          Jeff, lascia!  - la voce della donna suonò tranquilla.
Il cane mollò l’osso con l’uomo intorno e fece una breve retromarcia sino ai piedi della proprietaria.
-          Ma che è, 'na specie de mastino? – Congiuntivo tastò la gamba – M’ha mozzicato, io ve denuncio. I pantaloni…erano quelli boni.
-          Nessun problema, poi spiegheremo alle autorità che lei ci ha minacciato.
E Jeff ha seguito la sua natura, difendere chi lo accudisce. Se controlla noterà  che le sue carni sono illese, l’ho fermato subito. I pantaloni poi sono a posto, pessima stoffa, pesante e resistente.
Adesso se ci lascia passare vorrei sedermi, il treno sta partendo.
Il ferito da combattimento si fece da parte, la coppia donna-cane passò oltre; lei controllò il numero dei posti e si accomodò di fronte a Pinozzi. Che risultò oggetto di interesse per Jeff: il cane lo studiò, annusando scarpe e pantaloni, sbirciò intorno e balzò sul sedile accanto alla donna. Mario sintonizzò il volto sull’espressione “E questo che vuole?”.
-          Non mi dica che anche lei odia i cani. – disse calma la proprietaria della bestiola.
-          Non odio nessuno, in linea di principio. Ammetto però che mi ero alzato perché Mister Congiuntivo mi stava irritando, un discreto cafone.
La sconosciuta increspò le labbra tinte da un filo di rossetto, probabilmente il suo concetto di sorriso. Tese la destra a Mario, il cane non perdeva un fotogramma.
-          Sandra, molto piacere. Lui è Jeff, con me da sei anni. È un bulldog francese, molto protettivo verso chi lo accudisce.
-          Mario, il piacere è mio.
-   E con lui, come mi presento? – sorriso ebete.
Sandra riportò le labbra in modalità formale.
-          L’ha già fatto. Non ha accarezzato la sua testa, né l’ha fissato negli occhi. Poi ha superato il test olfattivo. Non dico che gli piaccia, ma Jeff l’ha “approvato”.
-          Quello canino è per me un mondo alieno, mi viene da pensare che loro siano esseri che ci guardano e non ci capiscono.
-          Affatto, siamo noi a non capirli. Perché usiamo la comunicazione verbale, pensi a Mister Congiuntivo, come l' ha definito: lei l' ha solo ascoltato, ma io e Jeff l’abbiamo osservato. Gridava e gesticolava. Lui l'ha pure annusato e ha trovato ostilità, per cui mi ha difesa.
-          Quindi riassumendo: siamo noi che non li capiamo, non intendono conquistare il pianeta per renderci schiavi, sono solo suscettibili.
Lei stirò ancora le labbra.
-          Sei un fottuto bastardo, spero che scendendo inciampi e ti rompa un femore. E durante il trasporto in ambulanza un TIR possa ridurti in polpette!
-          Ehi cara signora, adesso esagera. Non mi pare di avere offeso lei, né il suo…
-          Che stupido, ero diventato la versione soft della vittima, ops…aggressore del suo cane.
-          Lei è una persona sensibile, mi scusi solo per il modo, ma un esempio vale più di mille parole. E mi è parso di avere di fronte qualcuno che sa ascoltare.
-          Certe volte preferirei essere sordo, le assicuro che avrei una vita più tranquilla.
-          Sarebbe soltanto vuota o terribilmente noiosa.
Prenda il tipo che Jeff ha “avvertito” è sordo, arrogante e vede se stesso al centro del mondo.
Mario, invece, che cosa fa nella vita oltre ad ascoltare e fare il paladino delle signore?
Smorfia. Pizzicotto al mento. Sbirciata al paesaggio, che in quel momento era il nero di una galleria.
-          Mi occupo di restauri e di pulizie. Specialmente dopo il lavoro, mi ritrovo spesso a pulire.
-          Beh, con un lavoro simile deve sollevare parecchia polvere.
-          Non ne ha idea, ma il problema è quella che ti resta addosso. Si deposita ovunque e resta a lungo, s' infila nelle pieghe.
Pinozzi distolse lo sguardo da Sandra e osservò Jeff. Gli parve che il cane lo studiasse. Poi tornò a lei.
-          Non ha mai detto la parola “padrone” di cane.
-          Perché un cane non deve avere padroni: mi chiami madre adottiva, proprietaria, colei che se ne occupa. Ma crede che un microchip sotto la pelle, preparare del cibo e tenerlo con me lo renda di mia proprietà e quindi succube?
-          È quello che dice la legge, o no?
-          Per la legge è okay. Ma preferisco ciò che dice il cuore. Con un figlio forse sarebbe diverso? Diventerebbe un suo clone da plasmare? O un soldatino che ha timore, ma non fiducia?
-          Non ho esperienza, sono un tipo solitario. Ma recenti guai mi hanno insegnato che qualcuno farebbe carte false per avere un erede a sua immagine e somiglianza. E non solo.
Sandra accarezzò Jeff che si era accomodato sul sedile e vi appoggiava il muso.
-          Lo fanno anche con i cani, ma credo che questi “umani” non abbiano un briciolo di sentimento per i loro animali. Né per i loro figli.
Mario non replicò, guardò ancora il Bulldog.  Si era assopito.
-          Crede che avrà grane con il controllore? – disse con un filo d' ironia.
-          Per l’avvertimento a quel buzzurro?
-          Assolutamente no, il cane viaggia in regola e ho lei come testimone!
Lui sollevò le sopracciglia, ma annuì. Poi sorrise e afferrò il libro, sentiva che il suo “senso per i guai” stava facendo capolino: lo cacciò con un grugnito e raggiunse la prima pagina del romanzo. Che non si decise a leggere fino a quando il personale non controllò biglietti e cane. Subito dopo posò la testa, salutò le Apuane che sfilavano veloci, dedicò un pensiero a lei che riposava là. E ai suoi occhi.
E si addormentò.
Sognava, poteva capirlo: dove si era mai visto un bulldog francese gigante, con gli occhi di colore diverso?
Per giunta col muso appoggiato sulle Alpi Apuane.
Che ti chiamava per nome. E insisteva.
-          Mario…Mario.
E ti scuoteva.
-          Sveglia, siamo arrivati. In perfetto orario, siamo a Roma.
Un bravo cane, imitava benissimo la voce di donna. Una voce che ricorda quella di un’occasionale compagna di viaggio.
-          Mi sente, sono Sandra. Si svegli, il treno si è fermato. Dobbiamo scendere.
Appunto.
Le palpebre pesavano quintali, due immagini sfuocate si composero a fatica nei secondi successivi. Sandra sorrideva e Jeff lo osservava muto, la testa obliqua.
-          No…non capisco, devo essere stanco. Il lavoro senza orari, le fatiche in sala, sistemare braccia e corpi. Mi scusi.
-          Di nulla, ma spero di vedere qualche sua opera.
-          Qui a Roma ho lasciato la mia firma, ma non saprei proprio come aiutarla per rintracciare i committenti.
Qualche accenno di ruga comparve sul volto della donna, Mario pensò per pochi attimi di continuare, ma Jeff risolse la questione dicendo la sua. Due volte.
-          Capito, ora scendiamo. Mario mi darebbe una mano con la borsa? Io mi occupo del piccolo.
-          Deve fare i bisogni?
-          No, siamo arrivati e stavamo perdendo tempo. Ha solo voglia di casa.
Niente da fare, le sue possibilità di capire un cane erano le stesse di sostenere un dialogo con un Armeno muto. Prese le sue cose, afferrò la borsa di Sandra e cedette il passo a lei e al piccolo che non lo degnò di un’occhiata.
-          Si trattiene a lungo in città?
-          Rientro domenica sera, uno stacco dal lavoro. Visiterò la mostra al Quirinale, poi il Foro e farò una puntata nella zona dell’Appia Antica.
-          Perché domani non passa a salutarmi, pranziamo insieme e le faccio visitare la struttura che gestisco. È da quelle parti; – aprì la borsetta e recuperò un biglietto da visita – indirizzo e telefono. La aspetto.
Mario prese il cartoncino, raffigurava un cane come Jeff e riportava una dicitura in caratteri semplici. La strada, il telefono e il fax.
Sollevò il capo giusto in tempo per vedere Sandra e il cane perdersi tra la folla sul marciapiede del binario. Non gli restava che mescolarsi all’ umanità frettolosa diretta verso l’uscita.
DOTTOR  MARIO  PINOZZI – GENOVA
Il cartello era bianco e conteneva parole enormi, in rosso, carattere rockwell extra bold. Lo teneva bene in vista una giovane donna, sui venticinque anni, alta e mora. Stava in un paio di jeans, ai piedi stivali scuri e si scaldava dentro una giacca verde che pareva morbida, di materiale tecnico. Era posizionata appena oltre i cancelli di controllo.
-          Mi ha trovato, - disse il medico con l’ombra di un sorriso - anche se non era necessario farlo sapere a tutti.
-          Buongiorno, Susan. - tese la destra.
Mano fredda, pelle screpolata, unghie rosicchiate. Niente smalto.
-          La sua guida. Mi scuso, ma il suo segretario ha detto che tiene molto al titolo.
-          I titoli stanno all’inizio dei film o dei libri. Per te sono Mario, per me Susan va benissimo, che dici? - parlava trattenendole la mano.
Susan annuì sorridendo mentre recuperava l’arto superiore.
-          Ma dimmi, che accento aveva il mio “segretario”? Genovese con odore di Grecia?
-          Nessun profumo di pesto o mussaka, - sveglia, altro sorriso, denti perfetti dietro labbra robuste - direi che sapeva di ossobuco con risotto.
-          Che combinazione, poi lo sentirò. Ma a proposito di algoritmi tipo cucina, stomaco e orologio, il segretario ha dato anche disposizioni per questo?
-          Mi sarei opposta con ogni forza, ti porto io. Trastevere, gricia e carciofi con vino dei castelli, poi mostra. Okay?
-          Si, ma per me pasto no-alcool e un patto: dopo il pranzo facciamo una nuotata nel caffè.
-          Anche un paio di tuffi; - terzo sorriso, ancora trionfo di bianco e rosso - una cosa però, in trattoria ci aspetta una persona che andrà alla mostra. È un problema?
-          Solo se parla troppo e scatta decine di foto. I selfie poi, no…
Risata di coppia e uscita dalla stazione; li attendeva un’Alfa blu, in ottime condizioni anche se datata. Al posto di guida sedeva un tipo biondo, aria svogliata, pelle e occhi chiari. Sedettero nei sedili posteriori e l’auto partì sgommando.
-          Al volante c’è Bogdan, - disse Susan - sa dove portarci.
Lei e Mario ricevettero un saluto con la mano; il medico fissò qualche secondo la nuca biondastra, poi rivolse l’attenzione a Roma.
Percorrevano un fiume in piena, tra due pareti con fenditure dalle quali altri rivi aumentavano la portata. Anche la pendenza sembrava mettere alla prova l’abilità del conducente di evitare ostacoli, rallentare o assecondare la corrente: Via Nazionale, Via Veneto e Via del Corso, Piazza del Popolo e il Lungotevere. I colori, le luci e i profumi: neri e arabi, bianchi e asiatici. Le prime coraggiose luci in anticipo sul Natale, i semafori e la processione di stop rossi delle auto e dei bus. I gas di scarico e il grasso degli hot-dog. Roma era mutata, un ibrido tra la capitale dell’impero e una moderna Babele: multietnica, a strati. Come lasagne farcite o una grassa torta americana.
La frenata riportò Mario sulla Terra: aprì la portiera con cautela, mise i piedi sul pianeta e osservò la piazza dopo pochi passi esitanti. L’atmosfera conteneva gas respirabile, bipedi transitavano a passo lento da soli o in gruppo. Suoni musicali provenivano da locali con porte socchiuse, accompagnati da aromi sconosciuti e cartelli indicatori parlavano di flora e fauna assortita. Sacrificata per compiacere divinità capricciose e viziate: si calò nel ruolo senza il minimo rimorso.
-          In quale tempio mi condurrai? - disse Mario.
-          Prego? – Susan lo studiò, indecisa su come interpretare la domanda.
Esclusa la crisi mistica optò per una banale ipoglicemia e indicò a Mario di seguirla, dopo un cenno d’intesa con Bogdan che si allontanò.
Ancora con rumore di gomme.
Percorsi pochi metri superarono una stretta porta a vetri per ritrovarsi nel rito pagano preferito dei Romani: un buon pasto con ingredienti giusti.
Un giovane cameriere guidò la gimkana tra i tavoli verso un angolo tranquillo, la nicchia nella parete più lontana dall’ingresso. La donna li stava osservando, si alzò e si presentò a entrambi; vestiva con eleganza quasi frivola, adatta per una cena a due. Bionda, ben fatta, esibiva unghie curate e trucco formale. Occhiali con montatura in celluloide, scura. Gonna al ginocchio e tacco dieci; dava l’idea di avere scelto il look da un catalogo. Stonava, su una quarantenne piacente. Mario pensò ghignando che non avrebbe accettato una scommessa sulla biancheria intima di Alessia; la modella da Postal Market che ora gli sedeva accanto e liberava un profumo dolciastro e penetrante.
-          Hi hi hi, faccia ridere anche noi! -  lo sorprese.
Uno a zero.
-          Nulla di strano, - mentì guardando in sequenza lei e Susan - pensavo a un certo segretario milanese.
-          Hi hi hi, - ribadì Alessia - mi racconti che magari lo conosco: vivo anch’ io a Milano, zona Brera.
-          Appunto, ben lontana dai luoghi che bazzica il tipo in questione. E di cosa si occupa?
-          Lavoro nel settore risorse umane di una multinazionale, ma non mi chieda quale. Hi hi hi!
Cambiava l’ordine dei fattori, ma non il risultato: una bambola parlante matura, impegnata a gestire risorse umane.
Hi hi hi.
Represse una feroce risata, ordinò i caffè (decaffeinato, disse Alessia) e si offrì di pagare.
-          No no no, faccio io, lo scarico io come pranzo di lavoro. - Alessia non risultò arrendevole.
E andava avanti a gruppi di tre, si trattasse di hi o di no.
Altro spostamento veloce sull’Alfa di Bogdan che divorò salite e discese per depositare i tre sazi commensali alla base del Quirinale dopo trecentoundici secondi: secondo Susan si trattava del record annuale, l’autista smentì mostrando con le dita il numero trecentosette. Lei replicò che non aveva assistito.
Mario lasciò i due a discutere di tempi e percorsi, declinando il passaggio di ritorno verso l’Hotel. Il medico estrasse dal cappello la scusa della passeggiata per smaltire il pasto romano. Bogdan si era offerto di accompagnare Susan e di portare i bagagli suoi e di Alessia a destinazione.
Intascò il programma dell’indomani e si arrampicò verso le Scuderie in compagnia della responsabile risorse umane della nota multinazionale.
In attesa del prossimo, ineluttabile hi hi hi.
La mostra si rivelò una sorpresa, non conosceva la “Secessione” viennese e venne rapito dai tratti moderni, i colori vivi, le pose intense. Si perse, letteralmente, in un quadro: raffigurava una donna dai tratti spigolosi, le mani nei capelli neri arruffati. Il tutto, rinforzato dal volto sofferto, poteva trasudare tristezza: ma l’abito mescolava le carte. Arancione, vivo, rumoroso: una piccola macchia viva che scopriva solo arti, viso e corpo tratteggiati in nero.
-          Egon Schiele, - sentenziò Alessia - troppo avanti per il cambio di secolo. Ha lasciato questo mondo a ventisei anni.
Ecco che arriva il solito trio consonante-vocale, Mario attese la botta.
-          Morto in povertà, celebrato anni dopo. Cosa ti ha colpito? Lo osservi da circa mezz’ora.
Mario assorbì indifferente il passaggio al tu, certo di avere accanto la gemella della donna con cui aveva pranzato. Occhi scurissimi, attenti. Nulla di frivolo.
-          Pensavo che fossi catatonico, hi hi hi!
Così scomparve la sorella innocente, vittima di Hi-Alessia, dopo la breve comparsata.
-          Osservavo una donna che ha vissuto, intensamente, e forse sta tirando le somme o raccogliendo i cocci. Non è triste, ma pensa. Guarda dentro di sé.
-          O scruta dentro chi la sta osservando.
Ancora la sorella? Meglio approfittarne.
-          In questo caso rischia di perdersi.
-          In una tempesta o un labirinto? Deve usare forza e coraggio o ingegno e pazienza?
Mario sollevò gli occhiali con due dita e massaggiò gli occhi.
-          Magari è sufficiente qualche grammo di cuore.
-          Hi hi hi, o di pancreas! La discussione si fa seria, ma la mostra non è affatto finita.
Agganciò il gomito sinistro di un frastornato Pinozzi e lo trascinò saltellando, impegnato a trattenere gli occhiali nella mano destra.
Il pomeriggio osservò la mostra in compagnia della coppia male assortita di visitatori, allontanandosi solo per fare spazio alla precoce sera di dicembre. Che accolse Mario e Alessia con un abbraccio freddo. Troppo.
-          No no no, così non va, mi devo riscaldare; che ne dici, ci beviamo qualcosa?
-          Ottimo, non mi sparo una cioccolata con panna da secoli.
-          Pensavo a qualcosina da “adulti”, hi hi hi.
L’alternanza di no e hi si faceva pesante, Mario rimpianse quella tra Alessia e la gemella.
-          Durante il pranzo mi hai osservato?
-          Sì sì sì, te ne sei accorto. Sei un bel bocconcino, hi hi hi.
Adesso pure i sì, tre rime baciate. E gli stava facendo la corte?
Fosse stato un uomo avrebbe già lasciato campo libero alla “fame”, ma con questa tipa nessun segnale: pulsazioni e respiro regolari, muscoli rilassati, adrenalina nei depositi. Pensò di tenerla a mente come antidoto per certe evenienze in cui sarebbe stata utile una calma olimpica.
-          Grazie, anche tu non sei male. Però mi riferivo al fatto che vado a acqua, Coca e caffè: l’alcool mi fa male al motore.
-          No no no, un bel motore non deve guastarsi. Niente alcool, ma la cioccolata è per i "bauscia"!
Nuovo arpionaggio del gomito, imbocco di Via del Corso, destinazione San Lorenzo in Lucina: per la precisione un tavolo accanto al fungo catalitico di un locale.
La foto ritraeva un cerchio con tovaglia rossa: questo ospitava un cocktail da competizione, multicolore, con annesse decorazioni e vassoio di cibo sfizioso. Accanto sfiguravano una Diet Coke e sparute arachidi in ciotola. La componente umana della raffigurazione era una donna allegra ed elegante con un uomo, volto arrossato e spalle in ombra. Al gelo.
Mario pensò che l’indomani il cronista si sarebbe scervellato sulle ipotesi alla base del tentativo di lui di strozzarla, dopo quello che pareva un momento sereno.
Sorrise. Come in trattoria.
-          Hi hi hi, sei proprio allegro oggi!
Due a zero, non c’era partita. Questa era fuori categoria, rischiava una goleada.
-          Dove alloggi, da queste parti?
-          Sì sì sì, una traversa di Via del Tritone. E tu, tenebroso e affascinante astemio?
Questa ci stava provando, Mario stette al gioco. Sperava in cuor suo nel ritorno della gemella, ma lo colse un dubbio: per Alessia era un gioco o aveva di fronte una donna dalla doppia personalità? Tirò i dadi.
-          Una piazzetta, tra qui e piazza Navona, di cui non ricordo il nome. 
-          Ma visto che non fa caldo, e sono quasi le venti, che ne dici se ti accompagno e ci mangiamo qualcosa di leggero?
-          Bello bello bello! - il catalogo dei tris si ampliò - Coda alla vaccinara e pajata?
Non finiva di stupire, dove stipava tutto quel cibo? Altro lancio.
-          La tua gemella mangia quanto te?
Hi-Alessia  entrò in stand-by.
-          Non fa ridere, - di nuovo quegli occhi acuti - pensi che sia un gioco?
-          Dimmelo tu, Alessia o… cosa?
-          Andiamo o mi passa l’appetito. E paga il conto.
Cenarono in una trattoria lontana dalle rive del fiume turistico, consigliata da un tassista. La gemella di Alessia, che non rivelò mai il nome alternativo, fu una compagnia interessante, adatta a proseguire la conversazione sulla mostra degli espressionisti.
-          Stordito da una donna sola, in un vestito arancione. Ti credevo un tipo diverso.
-          Forse perché sono un lupo solitario.
-          Vai spesso a caccia?
-          Non il tipo di caccia a cui pensi tu, comunque non sono qui perché mi hai dato l’idea di una preda.
-          Quindi fammi capire, che stiamo facendo?
Conversazione?
Ammiriamo il locale?
Valutiamo la cena?
-          Ci sono anche altre opzioni…
Lo sguardo acuto di Alessia-2 divenne ancora più scuro. Non rispose, vuotò con calma il bicchiere di rosso.
E si alzò.
-          Devo fare una telefonata.
Non si intravedeva la fine di questo match assurdo; tra Hi-Alessia e Alessia-2,  questa e Mario, lui e la sorella originale. O era la copia? Rammentò qualcosa a proposito di due gemelle, orfane, che scambiavano i ruoli in base alle necessità. O erano gemelli maschi? Comunque fosse cacciò in malo modo lo spigolo di ricordo che intravedeva nel buio, gemelli e occhi, uomini e donne, allevamenti di organi.
Per concludere almeno la cena chiese un caffè normale, uno decaffeinato (memore del pranzo) e il conto. La donna tornò al suo posto e guardò l’ora. Poi le tazzine.
-          Mi hai preso per una vecchia? Il “deca” lo bevi tu! - invertì i caffè e ingollò il suo, senza zucchero.
Mario snobbò la tazzina rimasta piena e chiamò il cameriere. Sistemato il conto si alzò e attese che Alessia-2 recuperasse gli accessori.
-          Non fai il cavaliere? Cattivone, hi hi hi.
Evidentemente il clone aveva esaurito la batteria, il chirurgo balzò in sella e prese le redini come in un intervento urgente. Serviva un risultato certo, la partita doveva essere chiusa.
-          Certo, ti chiamo un taxi e ci salutiamo qua. Il mio hotel è dietro l’angolo e non sto bene. Accetti le scuse?
-          Beh beh beh, accetto la “scusa”. Grazie della giornata, peccato per la serata!
“Hi hi hi lo dico io, stavolta.” - pensò Mario. “Ho perso di brutto, ma posso finalmente rientrare negli spogliatoi. Con la stampa parleremo domani”.

La mattina del sabato lo chiamò attraverso la voce del telefono sul comodino: sintetica, fredda, instancabile. Le otto, non era male: in fondo non lo aspettavano malformazioni o ferite in sala operatoria, ma una visita delle vestigia romane dell’Appia antica. Programmata per le 9,30.
Un dubbio si insinuò, bastardo.
Trillo trillo trillo trillo trillo.
Solo due sapevano del viaggio a Roma.
Trillo trillo trillo trillo trillo.
Jorge il Greco.
Trillo trillo trillo trillo trillo.
Bruto il Milanese.
Trillo trillo trillo trillo trillo.
Chiunque fosse andava premiato, per la resistenza.
               O punito.
Chi scassa all’ alba del mio fuso orario?
-          Buongiorno, sono Susan.
Un sospiro di sollievo, né Jorge né Munnacci. E nessuna tripletta!
-          Scusami…credevo fosse il segretario, o peggio.
-          Sono io che devo scusarmi, ma abbiamo un problema con Bogdan.
-          Si è sentito male, gli è successo qualcosa? – l’istinto del medico non dormiva profondo, era solo assopito.
-          Non a lui, ma è stata danneggiata l’azienda del cugino. Un incendio…sono molto legati e dovrebbe passare da lui.
-          Credo che troveremo l’alternativa ad un carro o alla scarpinata.
Si udì un tentativo malriuscito di soffocare una risata, Mario ricordò con piacere la bocca di Susan.
-          Arrivo con un taxi tra mezz’ora.
-          Facciamo un’ora.

1 commento:

  1. Buonasera a tutti i lettori: con questa storia romana si chiude un ciclo ideale del nostro amico Mario. Di certo non muore, né si prende un anno sabbatico: semplicemente deve riposare. A breve uscirà il romanzo in cui è "nato" e, dopo la seconda parte, lascerò uno spoilre su titolo, copertina e casa editrice. Chi vivrà vedrà. Grazie a tutti
    L'autore
    Marco Moretti

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