di Marco Moretti
Il
viaggio a Roma per far visita a una mostra di pittura, l’incontro con un’orfana
particolare e chi l’ha adottata. Tre giorni intensi sui sette colli, l’Appia
antica e la sua pineta. L’inverno capitolino a farla da padrone.
Dimenticavo…c’è un’altra orfana.
La
giornata mostrò un che di miracoloso. Il tempo era splendido e non faceva freddo,
ma capita sovente a Genova, vantaggi di una città adagiata sulla sponda del Mar
Ligure.
Intercity
per la capitale arrivato e ripartito in orario, carrozza semideserta con
temperatura ottimale, nessuna suoneria con volume da rave-party.
Mario
Pinozzi iniziò con queste premesse il viaggio di metà dicembre, programmato da
tempo.
Su
consiglio di Jorge, strano a dirsi si era rivelato anche un esperto di pittura.
Da infermiere a critico d’arte, un bel passo.
Con
la mediazione di Munnacci, che da buon motore di ricerca in carne e ossa si era
adoperato per i biglietti della mostra. Giornalista introdotto in ogni
ambiente, nulla da dire.
Aveva
procurato una guida turistica.
Prenotato
alloggio e treni.
Tutto
bene, quindi.
Fino
a Genova Brignole, ben cinque minuti dopo che Mario Pinozzi aveva riposto trolley e giubbotto.
Si
era lasciato prendere dalla gravità che lo depositava sul sedile.
Aveva
ripreso la lettura di un libro, interrotta dopo dediche, citazioni e quarta di
copertina: certi giorni quelle pagine pesavano come fossero di acciaio.
Il
dialogo giunse nitido, tra una donna matura, per quello che si poteva intuire
dalla voce, e un uomo dall' età indefinita. Con la solida certezza che si
trattava di un arrogante.
-
Scusa zia, se sposti ‘a bestia riesco a
passa’ prima che annamo.
-
Chi crede di essere, non mi sembra di
conoscerla per darci del tu.
-
Ce manca pure che conosco ‘na babbiona come
a te. – risata.
Brivido
sotto la pelle, in una carrozza riscaldata.
Con
la sciarpa intorno al collo.
Non
era una questione di congiuntivi, lo sapeva.
Mario
tentò di cacciare indietro la “fame", sembrava un tantino esagerato
liberarla per una cosa da poco.
-
Sei sorda o che, me levi dai cojoni questo
cane o vòi un calcio?
Appunto.
Chiusura
del libro, stiramento del collo, grattatina alla barba.
In
piedi nel corridoio, direzione coda del treno.
Lei
era una sessantenne elegante, in un cappotto rosso, trucco sobrio, capelli
grigi e corti, ordinati. Teneva al guinzaglio un cane alto meno di mezzo metro,
pelo corto e coda tozza, tesa. Il muso era schiacciato, gli occhi neri che fissavano
immobili il tipo dei congiuntivi mancati. Sui trenta, capelli spianati dal gel,
abito con cravatta e giaccone sportivo, trolley griffato. Taroccato. Occhiali
da sole e una cicatrice sulla guancia destra completavano il ritratto.
-
Stia calmo, - disse lei, - le conviene.
-
Che paura, - rispose tendendo in avanti
le braccia e facendole vibrare – che sei 'na cintura nera de…
Il
cane scattò senza emettere un suono, assaggiò pantalone e caviglia dell'uomo e
prese a scuotere il collo…e il resto del piccolo corpo. Che si rivelò forte.
-
Aahhh…molla bastardo!
Mister
Congiuntivo, secondo Mario si era guadagnato questo nick-name, cercò di sganciare
il cane scalciando in modo scomposto. La signora mollò il guinzaglio e fece un
passo indietro. Pinozzi tornò a sedere con aria soddisfatta.
-
Jeff, lascia! - la voce della donna suonò tranquilla.
Il
cane mollò l’osso con l’uomo intorno e fece una breve retromarcia sino ai piedi
della proprietaria.
-
Ma che è, 'na specie de mastino? – Congiuntivo
tastò la gamba – M’ha mozzicato, io ve denuncio. I pantaloni…erano quelli boni.
-
Nessun problema, poi spiegheremo alle
autorità che lei ci ha minacciato.
E Jeff ha seguito la sua natura,
difendere chi lo accudisce. Se controlla noterà che le sue carni sono illese, l’ho fermato
subito. I pantaloni poi sono a posto, pessima stoffa, pesante e resistente.
Adesso se ci lascia passare vorrei sedermi, il treno sta
partendo.
Il
ferito da combattimento si fece da parte, la coppia donna-cane passò oltre; lei
controllò il numero dei posti e si accomodò di fronte a Pinozzi. Che risultò
oggetto di interesse per Jeff: il cane lo studiò, annusando scarpe e pantaloni,
sbirciò intorno e balzò sul sedile accanto alla donna. Mario sintonizzò il
volto sull’espressione “E questo che vuole?”.
-
Non mi dica che anche lei odia i cani.
– disse calma la proprietaria della bestiola.
-
Non odio nessuno, in linea di
principio. Ammetto però che mi ero alzato perché Mister Congiuntivo mi stava
irritando, un discreto cafone.
La
sconosciuta increspò le labbra tinte da un filo di rossetto, probabilmente il
suo concetto di sorriso. Tese la destra a Mario, il cane non perdeva un
fotogramma.
-
Sandra, molto piacere. Lui è Jeff, con
me da sei anni. È un bulldog francese, molto protettivo verso chi lo accudisce.
-
Mario, il piacere è mio.
-
E con lui, come mi presento? – sorriso ebete.
Sandra
riportò le labbra in modalità formale.
-
L’ha già fatto. Non ha accarezzato la
sua testa, né l’ha fissato negli occhi. Poi ha superato il test olfattivo. Non
dico che gli piaccia, ma Jeff l’ha “approvato”.
-
Quello canino è per me un mondo alieno,
mi viene da pensare che loro siano esseri che ci guardano e non ci capiscono.
-
Affatto, siamo noi a non capirli.
Perché usiamo la comunicazione verbale, pensi a Mister Congiuntivo, come l' ha
definito: lei l' ha solo ascoltato, ma io e Jeff l’abbiamo osservato. Gridava e
gesticolava. Lui l'ha pure annusato e ha trovato ostilità, per cui mi ha difesa.
-
Quindi riassumendo: siamo noi che non
li capiamo, non intendono conquistare il pianeta per renderci schiavi, sono
solo suscettibili.
Lei
stirò ancora le labbra.
-
Sei un fottuto bastardo, spero che
scendendo inciampi e ti rompa un femore. E durante il trasporto in ambulanza un
TIR possa ridurti in polpette!
-
Ehi cara signora, adesso esagera. Non
mi pare di avere offeso lei, né il suo…
-
Che stupido, ero diventato la versione
soft della vittima, ops…aggressore del suo cane.
-
Lei è una persona sensibile, mi scusi solo
per il modo, ma un esempio vale più di mille parole. E mi è parso di avere di
fronte qualcuno che sa ascoltare.
-
Certe volte preferirei essere sordo, le
assicuro che avrei una vita più tranquilla.
-
Sarebbe soltanto vuota o terribilmente
noiosa.
Prenda il tipo che Jeff ha “avvertito”
è sordo, arrogante e vede se stesso al centro del mondo.
Mario, invece, che cosa fa nella vita oltre ad ascoltare e
fare il paladino delle signore?
Smorfia.
Pizzicotto al mento. Sbirciata al paesaggio, che in quel momento era il nero di
una galleria.
-
Mi occupo di restauri e di pulizie.
Specialmente dopo il lavoro, mi ritrovo spesso a pulire.
-
Beh, con un lavoro simile deve sollevare
parecchia polvere.
-
Non ne ha idea, ma il problema è quella
che ti resta addosso. Si deposita ovunque e resta a lungo, s' infila nelle
pieghe.
Pinozzi
distolse lo sguardo da Sandra e osservò Jeff. Gli parve che il cane lo
studiasse. Poi tornò a lei.
-
Non ha mai detto la parola “padrone” di
cane.
-
Perché un cane non deve avere padroni:
mi chiami madre adottiva, proprietaria, colei che se ne occupa. Ma crede che un
microchip sotto la pelle, preparare del cibo e tenerlo con me lo renda di mia
proprietà e quindi succube?
-
È quello che dice la legge, o no?
-
Per la legge è okay. Ma preferisco ciò
che dice il cuore. Con un figlio forse sarebbe diverso? Diventerebbe un suo
clone da plasmare? O un soldatino che ha timore, ma non fiducia?
-
Non ho esperienza, sono un tipo
solitario. Ma recenti guai mi hanno insegnato che qualcuno farebbe carte false
per avere un erede a sua immagine e somiglianza. E non solo.
Sandra
accarezzò Jeff che si era accomodato sul sedile e vi appoggiava il muso.
-
Lo fanno anche con i cani, ma credo che
questi “umani” non abbiano un briciolo di sentimento per i loro animali. Né per
i loro figli.
Mario
non replicò, guardò ancora il Bulldog.
Si era assopito.
-
Crede che avrà grane con il controllore?
– disse con un filo d' ironia.
-
Per l’avvertimento a quel buzzurro?
-
Assolutamente no, il cane viaggia in
regola e ho lei come testimone!
Lui
sollevò le sopracciglia, ma annuì. Poi sorrise e afferrò il libro, sentiva che
il suo “senso per i guai” stava facendo capolino: lo cacciò con un grugnito e raggiunse
la prima pagina del romanzo. Che non si decise a leggere fino a quando il
personale non controllò biglietti e cane. Subito dopo posò la testa, salutò le
Apuane che sfilavano veloci, dedicò un pensiero a lei che riposava là. E ai
suoi occhi.
E
si addormentò.
Sognava,
poteva capirlo: dove si era mai visto un bulldog francese gigante, con gli
occhi di colore diverso?
Per
giunta col muso appoggiato sulle Alpi Apuane.
Che
ti chiamava per nome. E insisteva.
-
Mario…Mario.
E
ti scuoteva.
-
Sveglia, siamo arrivati. In perfetto
orario, siamo a Roma.
Un
bravo cane, imitava benissimo la voce di donna. Una voce che ricorda quella di
un’occasionale compagna di viaggio.
-
Mi sente, sono Sandra. Si svegli, il
treno si è fermato. Dobbiamo scendere.
Appunto.
Le
palpebre pesavano quintali, due immagini sfuocate si composero a fatica nei
secondi successivi. Sandra sorrideva e Jeff lo osservava muto, la testa
obliqua.
-
No…non capisco, devo essere stanco. Il
lavoro senza orari, le fatiche in sala, sistemare braccia e corpi. Mi scusi.
-
Di nulla, ma spero di vedere qualche
sua opera.
-
Qui a Roma ho lasciato la mia firma, ma
non saprei proprio come aiutarla per rintracciare i committenti.
Qualche
accenno di ruga comparve sul volto della donna, Mario pensò per pochi attimi di
continuare, ma Jeff risolse la questione dicendo la sua. Due volte.
-
Capito, ora scendiamo. Mario mi darebbe
una mano con la borsa? Io mi occupo del piccolo.
-
Deve fare i bisogni?
-
No, siamo arrivati e stavamo perdendo
tempo. Ha solo voglia di casa.
Niente
da fare, le sue possibilità di capire un cane erano le stesse di sostenere un
dialogo con un Armeno muto. Prese le sue cose, afferrò la borsa di Sandra e
cedette il passo a lei e al piccolo che non lo degnò di un’occhiata.
-
Si trattiene a lungo in città?
-
Rientro domenica sera, uno stacco dal
lavoro. Visiterò la mostra al Quirinale, poi il Foro e farò una puntata nella
zona dell’Appia Antica.
-
Perché domani non passa a salutarmi,
pranziamo insieme e le faccio visitare la struttura che gestisco. È da quelle
parti; – aprì la borsetta e recuperò un biglietto da visita – indirizzo e
telefono. La aspetto.
Mario
prese il cartoncino, raffigurava un cane come Jeff e riportava una dicitura in caratteri
semplici. La strada, il telefono e il fax.
Sollevò
il capo giusto in tempo per vedere Sandra e il cane perdersi tra la folla sul
marciapiede del binario. Non gli restava che mescolarsi all’ umanità frettolosa
diretta verso l’uscita.
DOTTOR MARIO
PINOZZI – GENOVA
Il
cartello era bianco e conteneva parole enormi, in rosso, carattere rockwell
extra bold. Lo teneva bene in vista una giovane donna, sui venticinque anni, alta
e mora. Stava in un paio di jeans, ai piedi stivali scuri e si scaldava dentro
una giacca verde che pareva morbida, di materiale tecnico. Era posizionata
appena oltre i cancelli di controllo.
-
Mi ha trovato, - disse il medico con
l’ombra di un sorriso - anche se non era necessario farlo sapere a tutti.
-
Buongiorno, Susan. - tese la destra.
Mano
fredda, pelle screpolata, unghie rosicchiate. Niente smalto.
-
La sua guida. Mi scuso, ma il suo
segretario ha detto che tiene molto al titolo.
-
I titoli stanno all’inizio dei film o
dei libri. Per te sono Mario, per me Susan va benissimo, che dici? - parlava
trattenendole la mano.
Susan
annuì sorridendo mentre recuperava l’arto superiore.
-
Ma dimmi, che accento aveva il mio
“segretario”? Genovese con odore di Grecia?
-
Nessun profumo di pesto o mussaka, - sveglia,
altro sorriso, denti perfetti dietro labbra robuste - direi che sapeva di
ossobuco con risotto.
-
Che combinazione, poi lo sentirò. Ma a
proposito di algoritmi tipo cucina, stomaco e orologio, il segretario ha dato
anche disposizioni per questo?
-
Mi sarei opposta con ogni forza, ti
porto io. Trastevere, gricia e carciofi con vino dei castelli, poi mostra.
Okay?
-
Si, ma per me pasto no-alcool e un patto:
dopo il pranzo facciamo una nuotata nel caffè.
-
Anche un paio di tuffi; - terzo
sorriso, ancora trionfo di bianco e rosso - una cosa però, in trattoria ci
aspetta una persona che andrà alla mostra. È un problema?
-
Solo se parla troppo e scatta decine di
foto. I selfie poi, no…
Risata
di coppia e uscita dalla stazione; li attendeva un’Alfa blu, in ottime
condizioni anche se datata. Al posto di guida sedeva un tipo biondo, aria
svogliata, pelle e occhi chiari. Sedettero nei sedili posteriori e l’auto partì
sgommando.
-
Al volante c’è Bogdan, - disse Susan -
sa dove portarci.
Lei
e Mario ricevettero un saluto con la mano; il medico fissò qualche secondo la
nuca biondastra, poi rivolse l’attenzione a Roma.
Percorrevano
un fiume in piena, tra due pareti con fenditure dalle quali altri rivi
aumentavano la portata. Anche la pendenza sembrava mettere alla prova l’abilità
del conducente di evitare ostacoli, rallentare o assecondare la corrente: Via
Nazionale, Via Veneto e Via del Corso, Piazza del Popolo e il Lungotevere. I
colori, le luci e i profumi: neri e arabi, bianchi e asiatici. Le prime
coraggiose luci in anticipo sul Natale, i semafori e la processione di stop
rossi delle auto e dei bus. I gas di scarico e il grasso degli hot-dog. Roma
era mutata, un ibrido tra la capitale dell’impero e una moderna Babele:
multietnica, a strati. Come lasagne farcite o una grassa torta americana.
La
frenata riportò Mario sulla Terra: aprì la portiera con cautela, mise i piedi
sul pianeta e osservò la piazza dopo pochi passi esitanti. L’atmosfera
conteneva gas respirabile, bipedi transitavano a passo lento da soli o in
gruppo. Suoni musicali provenivano da locali con porte socchiuse, accompagnati
da aromi sconosciuti e cartelli indicatori parlavano di flora e fauna assortita.
Sacrificata per compiacere divinità capricciose e viziate: si calò nel ruolo
senza il minimo rimorso.
-
In quale tempio mi condurrai? - disse
Mario.
-
Prego? – Susan lo studiò, indecisa su
come interpretare la domanda.
Esclusa
la crisi mistica optò per una banale ipoglicemia e indicò a Mario di seguirla,
dopo un cenno d’intesa con Bogdan che si allontanò.
Ancora
con rumore di gomme.
Percorsi
pochi metri superarono una stretta porta a vetri per ritrovarsi nel rito pagano
preferito dei Romani: un buon pasto con ingredienti giusti.
Un
giovane cameriere guidò la gimkana tra i tavoli verso un angolo tranquillo, la
nicchia nella parete più lontana dall’ingresso. La donna li stava osservando, si
alzò e si presentò a entrambi; vestiva con eleganza quasi frivola, adatta per
una cena a due. Bionda, ben fatta, esibiva unghie curate e trucco formale. Occhiali
con montatura in celluloide, scura. Gonna al ginocchio e tacco dieci; dava
l’idea di avere scelto il look da un catalogo. Stonava, su una quarantenne
piacente. Mario pensò ghignando che non avrebbe accettato una scommessa sulla
biancheria intima di Alessia; la modella da Postal Market che ora gli sedeva
accanto e liberava un profumo dolciastro e penetrante.
-
Hi hi hi, faccia ridere anche noi! - lo sorprese.
Uno
a zero.
-
Nulla di strano, - mentì guardando in
sequenza lei e Susan - pensavo a un certo segretario milanese.
-
Hi hi hi, - ribadì Alessia - mi
racconti che magari lo conosco: vivo anch’ io a Milano, zona Brera.
-
Appunto, ben lontana dai luoghi che
bazzica il tipo in questione. E di cosa si occupa?
-
Lavoro nel settore risorse umane di una
multinazionale, ma non mi chieda quale. Hi hi hi!
Cambiava
l’ordine dei fattori, ma non il risultato: una bambola parlante matura,
impegnata a gestire risorse umane.
Hi
hi hi.
Represse
una feroce risata, ordinò i caffè (decaffeinato, disse Alessia) e si offrì di
pagare.
-
No no no, faccio io, lo scarico io come
pranzo di lavoro. - Alessia non risultò arrendevole.
E
andava avanti a gruppi di tre, si trattasse di hi o di no.
Altro
spostamento veloce sull’Alfa di Bogdan che divorò salite e discese per
depositare i tre sazi commensali alla base del Quirinale dopo trecentoundici
secondi: secondo Susan si trattava del record annuale, l’autista smentì
mostrando con le dita il numero trecentosette. Lei replicò che non aveva
assistito.
Mario
lasciò i due a discutere di tempi e percorsi, declinando il passaggio di ritorno
verso l’Hotel. Il medico estrasse dal cappello la scusa della passeggiata per
smaltire il pasto romano. Bogdan si era offerto di accompagnare Susan e di
portare i bagagli suoi e di Alessia a destinazione.
Intascò
il programma dell’indomani e si arrampicò verso le Scuderie in compagnia della
responsabile risorse umane della nota multinazionale.
In
attesa del prossimo, ineluttabile hi hi hi.
La
mostra si rivelò una sorpresa, non conosceva la “Secessione” viennese e venne
rapito dai tratti moderni, i colori vivi, le pose intense. Si perse,
letteralmente, in un quadro: raffigurava una donna dai tratti spigolosi, le
mani nei capelli neri arruffati. Il tutto, rinforzato dal volto sofferto, poteva
trasudare tristezza: ma l’abito mescolava le carte. Arancione, vivo, rumoroso:
una piccola macchia viva che scopriva solo arti, viso e corpo tratteggiati in
nero.
-
Egon Schiele, - sentenziò Alessia -
troppo avanti per il cambio di secolo. Ha lasciato questo mondo a ventisei
anni.
Ecco
che arriva il solito trio consonante-vocale, Mario attese la botta.
-
Morto in povertà, celebrato anni dopo.
Cosa ti ha colpito? Lo osservi da circa mezz’ora.
Mario
assorbì indifferente il passaggio al tu, certo di avere accanto la gemella
della donna con cui aveva pranzato. Occhi scurissimi, attenti. Nulla di
frivolo.
-
Pensavo che fossi catatonico, hi hi hi!
Così
scomparve la sorella innocente, vittima di Hi-Alessia, dopo la breve comparsata.
-
Osservavo una donna che ha vissuto, intensamente,
e forse sta tirando le somme o raccogliendo i cocci. Non è triste, ma pensa.
Guarda dentro di sé.
-
O scruta dentro chi la sta osservando.
Ancora
la sorella? Meglio approfittarne.
-
In questo caso rischia di perdersi.
-
In una tempesta o un labirinto? Deve
usare forza e coraggio o ingegno e pazienza?
Mario
sollevò gli occhiali con due dita e massaggiò gli occhi.
-
Magari è sufficiente qualche grammo di
cuore.
-
Hi hi hi, o di pancreas! La discussione
si fa seria, ma la mostra non è affatto finita.
Agganciò
il gomito sinistro di un frastornato Pinozzi e lo trascinò saltellando,
impegnato a trattenere gli occhiali nella mano destra.
Il
pomeriggio osservò la mostra in compagnia della coppia male assortita di
visitatori, allontanandosi solo per fare spazio alla precoce sera di dicembre.
Che accolse Mario e Alessia con un abbraccio freddo. Troppo.
-
No no no, così non va, mi devo
riscaldare; che ne dici, ci beviamo qualcosa?
-
Ottimo, non mi sparo una cioccolata con
panna da secoli.
-
Pensavo a qualcosina da “adulti”, hi hi
hi.
L’alternanza
di no e hi si faceva pesante, Mario rimpianse quella tra Alessia e la gemella.
-
Durante il pranzo mi hai osservato?
-
Sì sì sì, te ne sei accorto. Sei un bel
bocconcino, hi hi hi.
Adesso
pure i sì, tre rime baciate. E gli stava facendo la corte?
Fosse
stato un uomo avrebbe già lasciato campo libero alla “fame”, ma con questa tipa
nessun segnale: pulsazioni e respiro regolari, muscoli rilassati, adrenalina
nei depositi. Pensò di tenerla a mente come antidoto per certe evenienze in cui
sarebbe stata utile una calma olimpica.
-
Grazie, anche tu non sei male. Però mi
riferivo al fatto che vado a acqua, Coca e caffè: l’alcool mi fa male al
motore.
-
No no no, un bel motore non deve
guastarsi. Niente alcool, ma la cioccolata è per i "bauscia"!
Nuovo
arpionaggio del gomito, imbocco di Via del Corso, destinazione San Lorenzo in
Lucina: per la precisione un tavolo accanto al fungo catalitico di un locale.
La
foto ritraeva un cerchio con tovaglia rossa: questo ospitava un cocktail da
competizione, multicolore, con annesse decorazioni e vassoio di cibo sfizioso.
Accanto sfiguravano una Diet Coke e sparute arachidi in ciotola. La componente
umana della raffigurazione era una donna allegra ed elegante con un uomo, volto
arrossato e spalle in ombra. Al gelo.
Mario
pensò che l’indomani il cronista si sarebbe scervellato sulle ipotesi alla base
del tentativo di lui di strozzarla, dopo quello che pareva un momento sereno.
Sorrise.
Come in trattoria.
-
Hi hi hi, sei proprio allegro oggi!
Due
a zero, non c’era partita. Questa era fuori categoria, rischiava una goleada.
-
Dove alloggi, da queste parti?
-
Sì sì sì, una traversa di Via del
Tritone. E tu, tenebroso e affascinante astemio?
Questa
ci stava provando, Mario stette al gioco. Sperava in cuor suo nel ritorno della
gemella, ma lo colse un dubbio: per Alessia era un gioco o aveva di fronte una
donna dalla doppia personalità? Tirò i dadi.
-
Una piazzetta, tra qui e piazza Navona,
di cui non ricordo il nome.
-
Ma visto che non fa caldo, e sono quasi
le venti, che ne dici se ti accompagno e ci mangiamo qualcosa di leggero?
-
Bello bello bello! - il catalogo dei
tris si ampliò - Coda alla vaccinara e pajata?
Non
finiva di stupire, dove stipava tutto quel cibo? Altro lancio.
-
La tua gemella mangia quanto te?
Hi-Alessia
entrò in stand-by.
-
Non fa ridere, - di nuovo quegli occhi
acuti - pensi che sia un gioco?
-
Dimmelo tu, Alessia o… cosa?
-
Andiamo o mi passa l’appetito. E paga
il conto.
Cenarono
in una trattoria lontana dalle rive del fiume turistico, consigliata da un
tassista. La gemella di Alessia, che non rivelò mai il nome alternativo, fu una
compagnia interessante, adatta a proseguire la conversazione sulla mostra degli
espressionisti.
-
Stordito da una donna sola, in un
vestito arancione. Ti credevo un tipo diverso.
-
Forse perché sono un lupo solitario.
-
Vai spesso a caccia?
-
Non il tipo di caccia a cui pensi tu,
comunque non sono qui perché mi hai dato l’idea di una preda.
-
Quindi fammi capire, che stiamo
facendo?
Conversazione?
Ammiriamo il locale?
Valutiamo la cena?
-
Ci sono anche altre opzioni…
Lo
sguardo acuto di Alessia-2 divenne ancora più scuro. Non rispose, vuotò con
calma il bicchiere di rosso.
E
si alzò.
-
Devo fare una telefonata.
Non
si intravedeva la fine di questo match assurdo; tra Hi-Alessia e Alessia-2, questa e Mario, lui e la sorella originale. O
era la copia? Rammentò qualcosa a proposito di due gemelle, orfane, che
scambiavano i ruoli in base alle necessità. O erano gemelli maschi? Comunque
fosse cacciò in malo modo lo spigolo di ricordo che intravedeva nel buio,
gemelli e occhi, uomini e donne, allevamenti di organi.
Per
concludere almeno la cena chiese un caffè normale, uno decaffeinato (memore del
pranzo) e il conto. La donna tornò al suo posto e guardò l’ora. Poi le tazzine.
-
Mi hai preso per una vecchia? Il “deca”
lo bevi tu! - invertì i caffè e ingollò il suo, senza zucchero.
Mario
snobbò la tazzina rimasta piena e chiamò il cameriere. Sistemato il conto si
alzò e attese che Alessia-2 recuperasse gli accessori.
-
Non fai il cavaliere? Cattivone, hi hi
hi.
Evidentemente
il clone aveva esaurito la batteria, il chirurgo balzò in sella e prese le
redini come in un intervento urgente. Serviva un risultato certo, la partita
doveva essere chiusa.
-
Certo, ti chiamo un taxi e ci salutiamo
qua. Il mio hotel è dietro l’angolo e non sto bene. Accetti le scuse?
-
Beh beh beh, accetto la “scusa”. Grazie
della giornata, peccato per la serata!
“Hi
hi hi lo dico io, stavolta.” - pensò Mario. “Ho perso di brutto, ma posso finalmente
rientrare negli spogliatoi. Con la stampa parleremo domani”.
La
mattina del sabato lo chiamò attraverso la voce del telefono sul comodino:
sintetica, fredda, instancabile. Le otto, non era male: in fondo non lo
aspettavano malformazioni o ferite in sala operatoria, ma una visita delle vestigia
romane dell’Appia antica. Programmata per le 9,30.
Un
dubbio si insinuò, bastardo.
Trillo
trillo trillo trillo trillo.
Solo
due sapevano del viaggio a Roma.
Trillo
trillo trillo trillo trillo.
Jorge
il Greco.
Trillo
trillo trillo trillo trillo.
Bruto
il Milanese.
Trillo
trillo trillo trillo trillo.
Chiunque
fosse andava premiato, per la resistenza.
O punito.
Chi
scassa all’ alba del mio fuso orario?
-
Buongiorno,
sono Susan.
Un
sospiro di sollievo, né Jorge né Munnacci. E nessuna tripletta!
-
Scusami…credevo fosse il segretario, o
peggio.
-
Sono
io che devo scusarmi, ma abbiamo un problema con Bogdan.
-
Si è sentito male, gli è successo
qualcosa? – l’istinto del medico non dormiva profondo, era solo assopito.
-
Non
a lui, ma è stata danneggiata l’azienda del cugino. Un incendio…sono molto
legati e dovrebbe passare da lui.
-
Credo che troveremo l’alternativa ad un
carro o alla scarpinata.
Si
udì un tentativo malriuscito di soffocare una risata, Mario ricordò con piacere
la bocca di Susan.
-
Arrivo
con un taxi tra mezz’ora.
-
Facciamo un’ora.
Buonasera a tutti i lettori: con questa storia romana si chiude un ciclo ideale del nostro amico Mario. Di certo non muore, né si prende un anno sabbatico: semplicemente deve riposare. A breve uscirà il romanzo in cui è "nato" e, dopo la seconda parte, lascerò uno spoilre su titolo, copertina e casa editrice. Chi vivrà vedrà. Grazie a tutti
RispondiEliminaL'autore
Marco Moretti