Come scrittore esordisci a 36 anni con la raccolta Racconti per sax tenore. Alcuni direbbero che si tratta di un esordio tardivo. Ma esiste un’età per esordire?
Diciamo che il fatto di pubblicare il libro d’esordio a 36 anni è stata un’abile mossa per evitare di essere catalogato, con tutta la retorica che di solito ne consegue, nella banale categoria dei “giovani esordienti”.
Scherzo, naturalmente. In realtà bisogna pensare che la prima pubblicazione è solo l’ultimo atto e il culmine di un lungo percorso. Io ho cominciato a scrivere in modo “organizzato” nel 1986, facendo tutta la gavetta con annessi invii di racconti a riviste, partecipazione a concorsi, corsi di scrittura creativa, spedizione seriale a case editrici (all’epoca non erano ancora diffusi i supporti informatici, per cui si inviavano voluminosi malloppi di fotocopie).
Era ancora l’epoca delle macchine per scrivere, io lavoravo su una Olivetti Studio 44, che conservo gelosamente ancor oggi. Tornando alla domanda, non credo che esista un’età giusta per esordire. Senza voler fare paragoni irriverenti, Camilleri ha pubblicato il suo primo libro a 53 anni, Bufalino a 61…
Quel libro diventa subito un best-seller. Come ti ha fatto sentire un successo così fulminante?
Racconti per sax tenore ricevette buone recensioni e finì subito nelle classifiche del Venerdì di Repubblica, che all’epoca era un affidabile indicatore del successo di un libro. Quella fu solo la molla che mi spinse a proseguire nel mondo della parola, con rinnovata fiducia.
In questa raccolta è presente anche la novella Le opinioni di un sax tenore nella quale, all’inizio di ogni capitolo, è indicato un brano musicale da accompagnare alla lettura. Data l’eterogeneità delle proposte, è stata una scelta soltanto funzionale o anche un riflesso delle tue passioni musicali?
Le opinioni di un sax tenore è un lungo racconto che coniuga due mie grandi amori: la scrittura e la musica. In quella novella, e nella scelta dei brani che accompagnano i capitoli, c’era in effetti la voglia di condividere con il lettore i miei dischi preferiti, le sensazioni che quella musica mi dava, riuscendo persino a ispirare le mie parole.
Le opinioni di un sax tenore è stato interamente scritto al Capolinea – un locale che purtroppo non esiste più – che al pari delle caves parigine ha rappresentato, dal dopoguerra in poi, il luogo del jazz a Milano.
Per la raccolta successiva dobbiamo aspettare il 1999, con Amori a serramanico. Come mai un periodo di gestazione così lungo?
Spesso i lunghi intervalli tra un libro e il successivo non dipendono dallo scrittore quanto da problemi di programmazione delle case editrici, soprattutto quando queste hanno dimensioni medio piccole.
La Tranchida, che purtroppo non esiste più, è stata un’ottima casa editrice, con un ricco catalogo del quale mi onoro di aver fatto parte, ma aveva risorse per uscire annualmente con un numero limitato di titoli.
In questa raccolta il tono è più scanzonato, e a racconti dal taglio ironico se ne alternano altri più marcatamente umoristici. È questo il modo in cui guardi alla realtà?
In realtà l’ironia, e l’autoironia, è una cifra stilistica che ha sempre avuto un ruolo importante nella mia scrittura. Già in Racconti per sax tenore, novelle come Chi ha ucciso il verbo dire?, Una giornata nata male, Una perquisa mancata e Like a Bird, sono basate su una visione satirica della realtà.
Con Amori a serramanico ho proseguito su quel terreno. Io credo che l’ironia e, ripeto, l’autoironia siano un’essenziale valvola di sfogo da tenere costantemente azionata per evitare che quella pentola a pressione che è il nostro cervello esploda, producendo i devastanti danni che tutti possiamo immaginare.
Successivamente, rispettivamente nel 2011 e nel 2012, partecipi alle antologie Sorci verdi e Lavoro vivo con racconti socialmente e politicamente impegnati. Sembra che la tua scrittura abbia compiuto una svolta…
Stilisticamente sono convinto che i racconti contenuti nelle due raccolte che citi, entrambe pubblicate dalla casa editrice Alegre, siano meglio strutturati dei precedenti ed abbiano una portata emozionale maggiore. Questo “passo in avanti”, però, credo faccia parte del percorso creativo e professionale cui ogni autore tende. Anche il contenitore, in quei casi, richiedeva un cambio di passo.
Sorci verdi è un libro sul razzismo, Lavoro vivo sul mondo del lavoro e della fabbrica in particolare, due tematiche a me molto care, in quanto figlio di emigranti (con madre artigiana e padre operaio metalmeccanico).
Nel racconto MissisSile Burning (Pietà l’è morta) non sono proprio riuscito a scrivere intingendo la penna nell’inchiostro dell’ironia, mentre Eqquessaè è stato un atto liberatorio attraverso il quale ho parlato di mia madre e di mio padre, e rivissuto parte della mia infanzia, difficile, costellata da continue cadute e rinascite, condizione molto frequente tra gli emigranti di ieri e che rivedo con dolore negli occhi dei diseredati di oggi.
Nel 2011 pubblichi anche DanteSka, sette canti suddivisi in quartine di endacasillabo tutti rigorosamente a rima alternata, che sottotitoli ApocriFunk – Hip Hopera in sette canti. Apparentemente l’unione di una modalità poetica antica e di riferimenti a generi musicali recenti sembra un ossimoro: come mai questa scelta?
DanteSka è un lavoro complesso, molto laborioso, e che racchiude in sé una serie di motivazioni diverse. Innanzitutto la voglia di sudare con la parola, per la parola e sulla parola. Il crearsi una gabbia così stretta, quale è una quartina di endecasillabo, implica il sapere tutta la fatica necessaria per “contenere”, in una frase con limiti di lunghezza, tutto ciò che vuoi raccontare.
Poiché in una riga non puoi infilare una serie di parole il cui numero totale di sillabe sia maggiore di undici, devi sempre considerare la collocazione degli accenti, al fine di non spezzare il ritmo, bisogna aver presente che la parola finale della prima riga dovrà fare rima baciata con quella della terza riga, e la seconda con la quarta.
Cose così. Se poi aggiungi il fatto che mi sono posto come ulteriore paletto quello di non utilizzare rime banali (gli infiniti dei verbi, ad esempio, come il classico amare/baciare), puoi capire la complessità della cosa. Un altro motivo che mi ha indotto ad accettare la sfida è capitato casualmente sul mio cammino: l’ascolto ripetuto, in radio, in televisione, di musica Rap.
Salvo alcuni sporadici casi in cui si poteva notare una certa ricerca nei testi, la maggior parte dei pezzi era fatta da rime cretine, affastellate, anzi da rime che rime non erano, luoghi comuni malamente scopiazzati dai rapper d’oltreoceano. Però riconoscevo nel Rap un linguaggio, peraltro molto seguito dai giovani.
Allora mi sono chiesto: e se provassi a raccontare la società in cui viviamo come fossi un menestrello del terzo millennio? Niente di originale, sia ben chiaro. Dante fece la stessa operazione settecento anni fa, con lo straordinario risultato che il mondo intero conosce e apprezza.
I temi politici e sociali sono presenti anche in DanteSka, opera nella quale ti immagini penetrare nell’Inferno dantesco attraverso la latrina di una birreria e incontrare le anime di persone pubbliche molto vicine al nostro presente guidato, invece che da Virgilio, da Fedor Dostoevskij. Sul tutto mi sembra predominare, nonostante i toni spigliatamente grotteschi, un senso di disillusione…
Ironia non vuol dire disimpegno, naturalmente. Infatti sia i miei racconti che i canti di DanteSka hanno sempre riferimenti legati alla politica, alla vita delle persone, alla società (in)civile, al mondo del lavoro, e questa è la mia personale interpretazione di “letteratura sociale”, in nome della quale insieme ad altri scrittori e artisti ho concorso a dare vita a una rivista semestrale giunta oramai al suo sesto anno di pubblicazione: Nuova Rivista Letteraria (originariamente Letteraria).
Hai anticipato la mia domanda: tu sei tra i fondatori e redattore di Letteraria, divenuta in seguito Nuova Rivista Letteraria, fondata da Stefano Tassinari. Come mai questo cambio di denominazione? E come definiresti la linea editoriale di Nuova Rivista Lettertaria?
Fin dalla nascita del progetto, fortemente voluto da Stefano Tassinari, straordinario intellettuale, scrittore, poeta, ma soprattutto agitatore e aggregatore culturale, ho fatto parte del collettivo di Letteraria, rivista nata col preciso intento di riavviare il dibattito all’interno della sinistra, sui grandi temi sociali: il lavoro, le lotte, l’immigrazione, lo stato sociale, l’arroganza del potere e quanto ha a che fare con la vita di una società. Tutto ciò, usando il particolare punto di vista dello scrittore o analizzando come la scrittura ha interpretato nel tempo i cambiamenti sociali e storici (abbiamo parlato via via di razzismo, di lavoro, di populismo, di movimenti di lotta, di scuola, di famiglia, e il prossimo numero sarà incentrato sul “cibo” o del feticcio che questo bisogno primario dell’uomo è diventato nelle società moderne).
Tornando alla domanda, il motivo del cambio di testata è da ricondurre a uno spiacevole evento: i primi due numeri del semestrale uscirono per i tipi di una prestigiosa casa editrice della sinistra, che una nuova proprietà stava tentando di rilanciare in pompa magna. Piccolo problema, il nuovo editore non onorava il pagamento di grafici e stampatori (gli scrittori offrivano gratuitamente i propri pezzi in rigoroso stile “militante”) e questo suonava come un ossimoro alle nostre orecchie di scrittori sociali, vicini e sensibili alle problematiche dei lavoratori. Da qui l’esigenza di un cambiamento (fortunatamente incontrammo un immediato interesse per il progetto da parte di Edizioni Alegre), e la necessità di variare il nome della testata.
A Nuova Rivista Letteraria collaborano numerosi scrittori di fama. Vi considerate una sorta di gruppo letterario come ce n’erano una volta?
L’idea era quella. Quando Stefano Tassinari, caro amico che purtroppo ci ha lasciati nel maggio di due anni fa, ci convocò per la prima riunione fondativa della rivista, emerse subito il desiderio di tornare a una dimensione pluralista della scrittura, dopo il deleterio ventennio in cui l’io, che Gadda definì il più lurido dei pronomi, era balzato prepotentemente alla ribalta seppellendo le esperienze di collettivismo degli anni sessanta e settanta. In questa magnifica avventura ho avuto la fortuna di avere compagni di viaggio quali Stefano Tassinari, Bruno Arpaia, Wu Ming 1, Pino Cacucci, Milena Magnani, Maria Rosa Cutrufelli, Massimo Vaggi, Paolo Vachino, Silvia Albertazzi, e anche Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Gianpiero Rigosi e tanti altri.
Dopo la scomparsa prematura del grande Stefano Tassinari la rivista non ha smesso le proprie pubblicazioni. Quello che faceva Stefano, cioè occuparsi di tutta la parte redazionale facendo da collettore dei pezzi, editing, titolando gli articoli, scrivendo i “cappelli” e individuando i brevi brani di presentazione degli articoli, è passato nelle tue mani. Un passaggio di testimone?
Con la morte di Stefano è venuto a mancare un essenziale punto di riferimento, perché la rivista girava intorno alla sua figura, in quanto oltre ad essere il “garante intellettuale” del progetto, ne era Direttore responsabile, caporedattore, correttore di bozze, insomma si occupava di tutto tranne che della parte grafica, di competenza, allora come ancor oggi, del grande fotografo ferrarese Luca Gavagna, amico di Stefano fin dall’infanzia. Per far fronte a questa mole di lavoro, nel dopo-Stefano è stato costituito un comitato redazionale ristretto: oggi, nella pratica, mi occupo io di tutte quelle incombenze che in passato ha svolto Stefano. Un passaggio di testimone? Solo nel lavoro pratico. La figura di Stefano Tassinari non è assolutamente replicabile.
Da alcuni anni collabori anche alla rivista PaginaUno…
PaginaUno è un’altra bella esperienza della mia vita di scrittore. Molto diversa da Letteraria, PaginaUno è uno strumento di approfondimento politico, condotto con grande arguzia e professionalità da tutti i collaboratori del bimestrale (tra i quali figurano importanti scrittori come Walter Pozzi, Davide Pinardi, Cataldo Russo). In questa realtà editoriale io sono un po’ un cane sciolto. Il mio amico di vecchia data Walter Pozzi, che è anche l’editore, mi lascia da sempre mano libera e di questo gli sono molto grato: i miei pezzi per PaginaUno riguardano spesso aspetti della cultura anni settanta (ho parlato della rivista satirica antifranchista Hermano Lobo, di quella underground italiana Cane Caldo, del disegnatore Maurizio Bovarini, del cantante scultore Herbert Pagani, del sociologo Giulio Salierno), interviste a personaggi dello spettacolo e della cultura che mi intrigano (Fabio Treves, Alberto Patrucco, Susanna Parigi, Fulvio Abbate, Alberto Prunetti, Maria Rosa Cutrufelli, Giangilberto Monti, Cisco ex Modena City Ramblers), oppure argomenti di cui sento l’urgenza di parlare in seguito a lettura o scoperta di testi particolari. E poi, come potrei non essere attaccato alla casa editrice PaginaUno dopo il coraggio dimostrato nel pubblicare un’opera particolare, difficile dal punto di vista dell’impatto sul pubblico, come il mio DanteSka?
Sei stato anche tra gli ideatori della prima versione di Inkroci, quella cartacea, cui collabori tutt’ora e inoltre scrivi anche per A-Rivista Anarchica e per altre testate…
Inkroci è uno splendido luogo dove mi è offerta l’occasione di parlare diffusamente di quelle che sono due mie grandi passioni: la musica e il cinema (certo cinema, per la verità). Su questa rivista posso presentare ai lettori i dischi che hanno fatto parte della mia formazione e che a mio avviso meritano di non finire nel (o di essere ripescati dal) dimenticatoio. Mi piace raccontare non solo del loro contenuto, quanto piuttosto di tutto quello che c’era intorno, il mondo, la gente, le “vibrazioni” degli indimenticabili seventies. Per quanto riguarda l’altro tema, ho proposto alla redazione una rubrica che parlasse di cinema e letteratura, di letteratura nel cinema, facendo un parallelo tra l’opera letteraria originale e la trasposizione cinematografica che ne è stata fatta. Ogni tanto, poi, su Inkroci compare anche qualche mio racconto… A proposito, vorrei fare i complimenti ai traduttori che ottimamente traspongono i pezzi in inglese, e agli illustratori. Bravissimi.
Per quanto riguarda invece A-Rivista anarchica, credo si tratti di una rivista davvero speciale, graficamente molto curata, dai contenuti sempre interessantissimi e che contrariamente a ciò che si può pensare (per il fatto di essere espressione di un’ideologia), molto molto aperta. Da un paio di lustri mi sono appassionato allo studio della storia dei movimenti sociali a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e in questa mia ricerca non potevo non incontrare, tra gli altri, il movimento anarchico.
Mi ha da subito colpito la purezza di un’ideale che è senza dubbio la quintessenza dell’utopia, e la determinazione dei suoi adepti. Qualche anno fa acquistai un numero speciale di A-Rivista anarchica, mi sembra nel quarantennale della sua pubblicazione, che riportava i nomi di tutti i collaboratori fin dal primo numero.
Pensai che mi avrebbe fatto piacere far parte di quella folta schiera che negli anni aveva concorso a mettere un importante tassello nel puzzle complesso della libertà di stampa e di pensiero, e nella diffusione di cultura e contro-cultura. Subito dopo inviai, tramite il mio amico Felice Accame, già storico collaboratore della rivista, un mio racconto su Gaetano Bresci. Il racconto piacque, e fu così che entrai in contatto con A.
Qualcuno direbbe che, collaborando a più riviste, pubblicate da diversi editori, “lavori per la concorrenza”. Personalmente credo che ragionare in termini di concorrenza nell’ambito della cultura sia insensato e controproducente, eppure molti lo fanno. Tu che cosa ne pensi? E a che cosa si deve questa tua scelta controcorrente?
In realtà tutte le riviste alle quali collaboro le percepisco complementari una all’altra. Ognuna di esse si occupa di diffusione della cultura, magari su terreni diversi, ma il “lavorare per la concorrenza” o il “conflitto di interessi”, io lo vedo quando gli ambiti di intervento sono diversi tra loro e spingono in direzioni opposte, e questo non sembra essere il mio caso.
Come poeta partecipi anche alla carovana dei versi e ai poetry slam di abrigliasciolta. Come vivi queste esperienze?
Mettiamo subito in chiaro una cosa: io non sono un poeta. Amo definirmi un onesto artigiano del verso, laddove l’aggettivo “onesto” racchiude in sé passione, dedizione ed estremo rispetto per la parola. La Poesia è qualcosa di estremamente alto, un termine di cui troppe persone abusano, e io non voglio cadere nello stesso errore.
Carovana dei versi è un bel contenitore di energie, un magma in continuo movimento dietro il quale in maniera discreta si nasconde l’abile regia di Ombretta Diaferia, che da oltre un decennio dirige molto efficacemente, e con passione rara, un’orchestra di giovani e meno giovani dediti al poetare.
Carovana dei versi è vivere in maniera corale l’amore della poesia, così come le altre mie esperienze di scrittura hanno una connotazione collettivistica, come ho già detto parlando di Nuova Rivista Letteraria. Pur avendovi partecipato in due occasioni, i poetry slam mi piacciono meno, perché personalmente non credo che la poesia possa e debba essere oggetto di competizione, in quanto a volte la capacità interpretativa ha il sopravvento sull’opera.
Prima hai fatto riferimento alla tua Olivetti Studio 44. Oggi come oggi scrivi a mano, a macchina o con il computer?
Scrivo a penna. Sempre. Ci ho provato, ma scrivere direttamente a computer (e, prima, a macchina) non mi riesce proprio.
Mi toglie concentrazione. Il mio studio è pieno di pagine scritte a mano, alcune in ordinata sequenza, e di brandelli di fogli sparsi dove magari ho appuntato un’idea da sviluppare, giornali annotati, insomma scrivo un po’ dovunque. Analizzando questo mio modus operandi, ho però scoperto che dietro la scrittura a penna c’è l’urgenza e l’immediatezza; nel successivo riscrivere a computer, c’è una prima revisione del testo e questo è importantissimo.
Chi scrive sa che la prima stesura va letta e riletta, scritta e riscritta tante volte prima di giungere a un risultato soddisfacente. Questo è il mio percorso.
Una cosa che si nota leggendo le tue opere è che, pur utilizzando un linguaggio ricco, ti esprimi in maniera semplice, diretta. Quanto ritieni che sia importante la leggibilità, in un’opera letteraria?
Non mi piace il barocchismo, soprattutto in letteratura. La ricerca, anche spasmodica, della parola non può diventare l’essenza stessa e il motivo unico della scrittura. L’esercizio di stile, che pure in alcuni casi ho praticato, deve essere da subito dichiarato essere tale al lettore, altrimenti è puro narcisismo.
Riguardo alla questione della leggibilità, è persin banale dire che qualsiasi testo, essendo rivolto a un pubblico, debba essere leggibile, il che non vuole assolutamente dire che si debba scrivere in funzione del livello di comprensione del lettore medio, altrimenti nel nostro Paese e in questo infausto periodo storico (i dati statistici sui lettori in Italia sono sconfortanti) la letteratura sarebbe già morta e sepolta. Se qualcuno è però convinto che la semplicità sia sinonimo di povertà di linguaggio, be’… problemi suoi.
Secondo te l’arte, e nello specifico la letteratura, può e deve produrre coscienza nel lettore? Può avere ancora un potere rivoluzionario?
C’è una frase del sindacalista e grande pensatore anarchico Fernand Pelloutier, che guida la mia mano quando scrivo: “ È l’ignoranza che fa i rassegnati. Ciò vuol dire che l’arte deve fare i ribelli”. Senza contare che anche Antonio Gramsci diceva: “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.
Ecco, io credo sia davvero così. Da sempre il potere teme la cultura, perché un uomo colto è un uomo consapevole, capace di mettere in relazione gli eventi e dunque non manovrabile. Gli artisti, gli scrittori devono fare la loro parte smettendo di guardarsi l’ombelico e raccontare inutilità, trasmettendo invece al lettore emozioni e consapevolezza. Tutto il resto è puro onanismo letterario. Naturalmente questo è ciò che penso io al riguardo, ma non ho mai preteso di essere depositario della verità.
Secondo te è vero che stiamo vivendo un’omologazione culturale verso il basso piuttosto inquietante?
Il disastro in cui il nostro paese versa già da qualche lustro è sotto gli occhi di tutti. Lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università italiana, unitamente al taglio (per non parlare di azzeramento) dei finanziamenti al mondo della cultura ha portato nel tempo a un preoccupante appiattimento di pensiero e a una drastica riduzione di capacità critica in gran parte dei cittadini. I media e la televisione sono complici del genocidio culturale in corso. Perché, tutto questo? Perché il potere ha paura della cultura. Come già detto.
Quella che viene chiamata crisi della letteratura o, più in generale, crisi della cultura, secondo me in realtà è stasi. “Crisi” sarebbe già un bel termine, saremmo già avanti. La crisi prevede qualcosa che scoppi, è comunque rottura…
Credo tu abbia ragione. Ma non esiste stasi eterna, e questo lo sa bene anche chi da questa stasi trae tutti i benefici. Questo è il momento di quiete che precede lo scoppio della tempesta, la situazione di massima tensione dell’elastico.
Dopo c’è la rottura, e nessuno è in grado di stabilire o di limitare i danni che ne potranno conseguire. Ovviamente la crisi o la stasi della letteratura e della cultura, sono solo un piccolo spicchio di un problema di carattere politico, economico, sociale, che investe l’intera vita delle nostre società avanzate.
Oggi c’è la tendenza all’autopubblicazione, specialmente sul web, che ha reso più semplice ed economica questa pratica. Tu che cosa ne pensi?
Non mi piace e non mi interessa. Sono un uomo del secolo scorso, sono un uomo del passato. Se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo vorrei vivere un secolo, quello che va dal 1850 al 1950, periodo in cui mi piace pensare che siano accadute le cose più importanti, drammatiche e belle dell’intera vita dell’umanità.
Il libro è fatto di carta e inchiostro. Il tablet è comodo, pesa poco e contiene intere biblioteche, questo lo so. Ma pensa che tristezza e che povertà le case del futuro, senza scaffali, senza volumi impolverati, senza storia. No, se questo è il futuro, non mi interessa.
Erri De Luca ha scritto che lo “scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta”. Tu sei d’accordo?
Erri De Luca ha scritto una cosa naturale (non vorrei mancare di rispetto a uno scrittore che stimo infinitamente, dicendo “scontata”); lo scrittore sarà sempre più piccolo della materia che racconta. Chi pensa di fare il contrario, e ce ne sono, è destinato a cadere nel ridicolo.
Ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono, secondo te, gli scrittori contemporanei che andrebbero assolutamente letti?
Io sono un lettore onnivoro e disordinato, leggo romanzi e saggi, poesia, reportage e tutto quanto mi ispiri al momento o mi sia necessario per scrivere i miei racconti o i tanti pezzi per le riviste alle quali collaboro.
Mi piacciono molto i classici della letteratura russa dell’ottocento, in primis Dostoevskij, i francesi Sartre e Queneau, Kafka e Roth, Joseph, gli americani Hemingway, Steinbeck, Fante, Bukowski, Hammett e Chandler. Mi piacciono i noir, i libri storici, soprattutto ambientati in determinati momenti e luoghi, come la guerra civile spagnola, la Parigi di fine ottocento e inizio novecento, la Russia della rivoluzione, l’Italia fascista, le esperienze coloniali…
E tra i contemporanei italiani?
Amo gli scrittori meridionali della seconda metà del novecento: i miei conterranei Jovine e Silone, Lussu, Alvaro, Gramsci, ma anche Gadda, Pratolini, Morante, Sciascia e tra i più recenti Striano, Tassinari, e perché no? Camilleri. E a proposito, ho una vera e propria venerazione per la produzione della casa editrice siciliana Sellerio.
Quali sono le fonti di ispirazione di cui ti servi quando scrivi?
Ogni scritto ha bisogno di una scintilla iniziale, di un’idea che valga la pena di sviluppare. Questa miccia, chiamiamola così, nasce normalmente dalla vita, propria o delle persone che si hanno intorno o magari di qualcuno che si è conosciuto per caso, poi per lo sviluppo della storia c’è tutto un lavoro di studio e raccolta di informazioni.
Personalmente non comincio mai a scrivere finché non ho ben chiara nella mente la chiave da dare al mio racconto e l’impianto generale. Poi, scrivendo, le cose cambiano, e di molto, perché i personaggi cominciano a vivere di vita propria e portano le vicende dove vogliono loro, ma i paletti iniziali li ho posti io e il comando delle operazioni è sempre e solo mio.
Stai lavorando a un nuovo libro? E sarà un libro poetico o narrativo? Vuoi darcene qualche anticipazione?
Nel 2015 dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, essere pubblicata una mia nuova raccolta di racconti. Tengo molto a questo progetto perché sono convinto che l’ostracismo riservato alla forma racconto nel nostro Paese sia del tutto immotivata oltreché ingiusta. Nei paesi anglosassoni le short stories sono considerate a pieno titolo letteratura alta. In Italia, gli editori scuotono la testa ogni volta che viene loro proposto un libro di racconti. Io vado ostinatamente per la mia strada.
Perché scrivi? Perché la scrittura?
Se ti dicessi che per me scrivere è come fare l’amore con la donna più bella del mondo mi crederesti? Per farmi capire, ti racconto una storiella che chiarisce il concetto. Dunque… Una nave affonda al largo di un’isola deserta.
Miracolosamente si salvano, approdando sulla spiaggia di quest’isola, un giovane, aitante marinaio e la top model Kate Moss (ognuno ci metta quella che più gli aggrada). In questo scenario paradisiaco i due si innamorano e, come è logico che sia, travolti dalla passione si danno al sesso sfrenato.
Tutto fila liscio per qualche settimana, poi, all’improvviso, il giovane marinaio comincia a intristire. La donna, affettuosamente, chiede il motivo di quel cambiamento di umore. «Cosa ti succede? Ti sei stancato di me?» chiede la ragazza. «No, amore mio – risponde il marinaio – come potrei? È che… sento molto la mancanza del mio amico Mario».
La bellissima top model rimane un po’ perplessa poi chiede: «Posso fare qualcosa per scacciare questa tua malinconia?». Il giovanotto ci pensa su un attimo e dice: «Sì. Ecco… potresti indossare la mia divisa da marinaio… e nascondere i tuoi lunghi capelli sotto il mio cappello bianco».
E mentre con un tizzone di carbone spento disegna un paio di baffi neri sul viso della ragazza, aggiunge: «Ora vai dietro quella palma, fai finta di essere il mio amico Mario, sbuca all’improvviso e vienimi incontro come se non ci vedessimo da lungo tempo». La ragazza, senza capire, esegue alla lettera le disposizioni del marinaio.
Sbuca dalla palma, si dirige verso il giovane e questi, come colto da una gioia esplosiva le corre incontro, le butta le braccia al collo in un saluto affettuoso e le dice: «Ciao Mario! Come stai? – e immediatamente dopo – Oh! Lo sai che faccio l’amore con Kate Moss?». Ecco. Scrivere è proprio come far l’amore con la donna più bella del mondo. Il piacere, la passione… d’accordo, ma che gusto c’è se poi non lo possiamo raccontare a nessuno?
(pubblicato con l'autorizzazione di www.Inkroci.it)
Come scrittore esordisci a 36 anni con la raccolta Racconti per sax tenore. Alcuni direbbero che si tratta di un esordio tardivo. Ma esiste un’età per esordire?
Diciamo che il fatto di pubblicare il libro d’esordio a 36 anni è stata un’abile mossa per evitare di essere catalogato, con tutta la retorica che di solito ne consegue, nella banale categoria dei “giovani esordienti”.
Scherzo, naturalmente. In realtà bisogna pensare che la prima pubblicazione è solo l’ultimo atto e il culmine di un lungo percorso. Io ho cominciato a scrivere in modo “organizzato” nel 1986, facendo tutta la gavetta con annessi invii di racconti a riviste, partecipazione a concorsi, corsi di scrittura creativa, spedizione seriale a case editrici (all’epoca non erano ancora diffusi i supporti informatici, per cui si inviavano voluminosi malloppi di fotocopie).
Era ancora l’epoca delle macchine per scrivere, io lavoravo su una Olivetti Studio 44, che conservo gelosamente ancor oggi. Tornando alla domanda, non credo che esista un’età giusta per esordire. Senza voler fare paragoni irriverenti, Camilleri ha pubblicato il suo primo libro a 53 anni, Bufalino a 61…
Quel libro diventa subito un best-seller. Come ti ha fatto sentire un successo così fulminante?
Racconti per sax tenore ricevette buone recensioni e finì subito nelle classifiche del Venerdì di Repubblica, che all’epoca era un affidabile indicatore del successo di un libro. Quella fu solo la molla che mi spinse a proseguire nel mondo della parola, con rinnovata fiducia.
In questa raccolta è presente anche la novella Le opinioni di un sax tenore nella quale, all’inizio di ogni capitolo, è indicato un brano musicale da accompagnare alla lettura. Data l’eterogeneità delle proposte, è stata una scelta soltanto funzionale o anche un riflesso delle tue passioni musicali?
Le opinioni di un sax tenore è un lungo racconto che coniuga due mie grandi amori: la scrittura e la musica. In quella novella, e nella scelta dei brani che accompagnano i capitoli, c’era in effetti la voglia di condividere con il lettore i miei dischi preferiti, le sensazioni che quella musica mi dava, riuscendo persino a ispirare le mie parole.
Le opinioni di un sax tenore è stato interamente scritto al Capolinea – un locale che purtroppo non esiste più – che al pari delle caves parigine ha rappresentato, dal dopoguerra in poi, il luogo del jazz a Milano.
Per la raccolta successiva dobbiamo aspettare il 1999, con Amori a serramanico. Come mai un periodo di gestazione così lungo?
Spesso i lunghi intervalli tra un libro e il successivo non dipendono dallo scrittore quanto da problemi di programmazione delle case editrici, soprattutto quando queste hanno dimensioni medio piccole.
La Tranchida, che purtroppo non esiste più, è stata un’ottima casa editrice, con un ricco catalogo del quale mi onoro di aver fatto parte, ma aveva risorse per uscire annualmente con un numero limitato di titoli.
In questa raccolta il tono è più scanzonato, e a racconti dal taglio ironico se ne alternano altri più marcatamente umoristici. È questo il modo in cui guardi alla realtà?
In realtà l’ironia, e l’autoironia, è una cifra stilistica che ha sempre avuto un ruolo importante nella mia scrittura. Già in Racconti per sax tenore, novelle come Chi ha ucciso il verbo dire?, Una giornata nata male, Una perquisa mancata e Like a Bird, sono basate su una visione satirica della realtà.
Con Amori a serramanico ho proseguito su quel terreno. Io credo che l’ironia e, ripeto, l’autoironia siano un’essenziale valvola di sfogo da tenere costantemente azionata per evitare che quella pentola a pressione che è il nostro cervello esploda, producendo i devastanti danni che tutti possiamo immaginare.
Successivamente, rispettivamente nel 2011 e nel 2012, partecipi alle antologie Sorci verdi e Lavoro vivo con racconti socialmente e politicamente impegnati. Sembra che la tua scrittura abbia compiuto una svolta…
Stilisticamente sono convinto che i racconti contenuti nelle due raccolte che citi, entrambe pubblicate dalla casa editrice Alegre, siano meglio strutturati dei precedenti ed abbiano una portata emozionale maggiore. Questo “passo in avanti”, però, credo faccia parte del percorso creativo e professionale cui ogni autore tende. Anche il contenitore, in quei casi, richiedeva un cambio di passo.
Sorci verdi è un libro sul razzismo, Lavoro vivo sul mondo del lavoro e della fabbrica in particolare, due tematiche a me molto care, in quanto figlio di emigranti (con madre artigiana e padre operaio metalmeccanico).
Nel racconto MissisSile Burning (Pietà l’è morta) non sono proprio riuscito a scrivere intingendo la penna nell’inchiostro dell’ironia, mentre Eqquessaè è stato un atto liberatorio attraverso il quale ho parlato di mia madre e di mio padre, e rivissuto parte della mia infanzia, difficile, costellata da continue cadute e rinascite, condizione molto frequente tra gli emigranti di ieri e che rivedo con dolore negli occhi dei diseredati di oggi.
Nel 2011 pubblichi anche DanteSka, sette canti suddivisi in quartine di endacasillabo tutti rigorosamente a rima alternata, che sottotitoli ApocriFunk – Hip Hopera in sette canti. Apparentemente l’unione di una modalità poetica antica e di riferimenti a generi musicali recenti sembra un ossimoro: come mai questa scelta?
DanteSka è un lavoro complesso, molto laborioso, e che racchiude in sé una serie di motivazioni diverse. Innanzitutto la voglia di sudare con la parola, per la parola e sulla parola. Il crearsi una gabbia così stretta, quale è una quartina di endecasillabo, implica il sapere tutta la fatica necessaria per “contenere”, in una frase con limiti di lunghezza, tutto ciò che vuoi raccontare.
Poiché in una riga non puoi infilare una serie di parole il cui numero totale di sillabe sia maggiore di undici, devi sempre considerare la collocazione degli accenti, al fine di non spezzare il ritmo, bisogna aver presente che la parola finale della prima riga dovrà fare rima baciata con quella della terza riga, e la seconda con la quarta.
Cose così. Se poi aggiungi il fatto che mi sono posto come ulteriore paletto quello di non utilizzare rime banali (gli infiniti dei verbi, ad esempio, come il classico amare/baciare), puoi capire la complessità della cosa. Un altro motivo che mi ha indotto ad accettare la sfida è capitato casualmente sul mio cammino: l’ascolto ripetuto, in radio, in televisione, di musica Rap.
Salvo alcuni sporadici casi in cui si poteva notare una certa ricerca nei testi, la maggior parte dei pezzi era fatta da rime cretine, affastellate, anzi da rime che rime non erano, luoghi comuni malamente scopiazzati dai rapper d’oltreoceano. Però riconoscevo nel Rap un linguaggio, peraltro molto seguito dai giovani.
Allora mi sono chiesto: e se provassi a raccontare la società in cui viviamo come fossi un menestrello del terzo millennio? Niente di originale, sia ben chiaro. Dante fece la stessa operazione settecento anni fa, con lo straordinario risultato che il mondo intero conosce e apprezza.
I temi politici e sociali sono presenti anche in DanteSka, opera nella quale ti immagini penetrare nell’Inferno dantesco attraverso la latrina di una birreria e incontrare le anime di persone pubbliche molto vicine al nostro presente guidato, invece che da Virgilio, da Fedor Dostoevskij. Sul tutto mi sembra predominare, nonostante i toni spigliatamente grotteschi, un senso di disillusione…
Ironia non vuol dire disimpegno, naturalmente. Infatti sia i miei racconti che i canti di DanteSka hanno sempre riferimenti legati alla politica, alla vita delle persone, alla società (in)civile, al mondo del lavoro, e questa è la mia personale interpretazione di “letteratura sociale”, in nome della quale insieme ad altri scrittori e artisti ho concorso a dare vita a una rivista semestrale giunta oramai al suo sesto anno di pubblicazione: Nuova Rivista Letteraria (originariamente Letteraria).
Hai anticipato la mia domanda: tu sei tra i fondatori e redattore di Letteraria, divenuta in seguito Nuova Rivista Letteraria, fondata da Stefano Tassinari. Come mai questo cambio di denominazione? E come definiresti la linea editoriale di Nuova Rivista Lettertaria?
Fin dalla nascita del progetto, fortemente voluto da Stefano Tassinari, straordinario intellettuale, scrittore, poeta, ma soprattutto agitatore e aggregatore culturale, ho fatto parte del collettivo di Letteraria, rivista nata col preciso intento di riavviare il dibattito all’interno della sinistra, sui grandi temi sociali: il lavoro, le lotte, l’immigrazione, lo stato sociale, l’arroganza del potere e quanto ha a che fare con la vita di una società. Tutto ciò, usando il particolare punto di vista dello scrittore o analizzando come la scrittura ha interpretato nel tempo i cambiamenti sociali e storici (abbiamo parlato via via di razzismo, di lavoro, di populismo, di movimenti di lotta, di scuola, di famiglia, e il prossimo numero sarà incentrato sul “cibo” o del feticcio che questo bisogno primario dell’uomo è diventato nelle società moderne).
Tornando alla domanda, il motivo del cambio di testata è da ricondurre a uno spiacevole evento: i primi due numeri del semestrale uscirono per i tipi di una prestigiosa casa editrice della sinistra, che una nuova proprietà stava tentando di rilanciare in pompa magna. Piccolo problema, il nuovo editore non onorava il pagamento di grafici e stampatori (gli scrittori offrivano gratuitamente i propri pezzi in rigoroso stile “militante”) e questo suonava come un ossimoro alle nostre orecchie di scrittori sociali, vicini e sensibili alle problematiche dei lavoratori. Da qui l’esigenza di un cambiamento (fortunatamente incontrammo un immediato interesse per il progetto da parte di Edizioni Alegre), e la necessità di variare il nome della testata.
A Nuova Rivista Letteraria collaborano numerosi scrittori di fama. Vi considerate una sorta di gruppo letterario come ce n’erano una volta?
L’idea era quella. Quando Stefano Tassinari, caro amico che purtroppo ci ha lasciati nel maggio di due anni fa, ci convocò per la prima riunione fondativa della rivista, emerse subito il desiderio di tornare a una dimensione pluralista della scrittura, dopo il deleterio ventennio in cui l’io, che Gadda definì il più lurido dei pronomi, era balzato prepotentemente alla ribalta seppellendo le esperienze di collettivismo degli anni sessanta e settanta. In questa magnifica avventura ho avuto la fortuna di avere compagni di viaggio quali Stefano Tassinari, Bruno Arpaia, Wu Ming 1, Pino Cacucci, Milena Magnani, Maria Rosa Cutrufelli, Massimo Vaggi, Paolo Vachino, Silvia Albertazzi, e anche Carlo Lucarelli, Marcello Fois, Gianpiero Rigosi e tanti altri.
Dopo la scomparsa prematura del grande Stefano Tassinari la rivista non ha smesso le proprie pubblicazioni. Quello che faceva Stefano, cioè occuparsi di tutta la parte redazionale facendo da collettore dei pezzi, editing, titolando gli articoli, scrivendo i “cappelli” e individuando i brevi brani di presentazione degli articoli, è passato nelle tue mani. Un passaggio di testimone?
Con la morte di Stefano è venuto a mancare un essenziale punto di riferimento, perché la rivista girava intorno alla sua figura, in quanto oltre ad essere il “garante intellettuale” del progetto, ne era Direttore responsabile, caporedattore, correttore di bozze, insomma si occupava di tutto tranne che della parte grafica, di competenza, allora come ancor oggi, del grande fotografo ferrarese Luca Gavagna, amico di Stefano fin dall’infanzia. Per far fronte a questa mole di lavoro, nel dopo-Stefano è stato costituito un comitato redazionale ristretto: oggi, nella pratica, mi occupo io di tutte quelle incombenze che in passato ha svolto Stefano. Un passaggio di testimone? Solo nel lavoro pratico. La figura di Stefano Tassinari non è assolutamente replicabile.
Da alcuni anni collabori anche alla rivista PaginaUno…
PaginaUno è un’altra bella esperienza della mia vita di scrittore. Molto diversa da Letteraria, PaginaUno è uno strumento di approfondimento politico, condotto con grande arguzia e professionalità da tutti i collaboratori del bimestrale (tra i quali figurano importanti scrittori come Walter Pozzi, Davide Pinardi, Cataldo Russo). In questa realtà editoriale io sono un po’ un cane sciolto. Il mio amico di vecchia data Walter Pozzi, che è anche l’editore, mi lascia da sempre mano libera e di questo gli sono molto grato: i miei pezzi per PaginaUno riguardano spesso aspetti della cultura anni settanta (ho parlato della rivista satirica antifranchista Hermano Lobo, di quella underground italiana Cane Caldo, del disegnatore Maurizio Bovarini, del cantante scultore Herbert Pagani, del sociologo Giulio Salierno), interviste a personaggi dello spettacolo e della cultura che mi intrigano (Fabio Treves, Alberto Patrucco, Susanna Parigi, Fulvio Abbate, Alberto Prunetti, Maria Rosa Cutrufelli, Giangilberto Monti, Cisco ex Modena City Ramblers), oppure argomenti di cui sento l’urgenza di parlare in seguito a lettura o scoperta di testi particolari. E poi, come potrei non essere attaccato alla casa editrice PaginaUno dopo il coraggio dimostrato nel pubblicare un’opera particolare, difficile dal punto di vista dell’impatto sul pubblico, come il mio DanteSka?
Sei stato anche tra gli ideatori della prima versione di Inkroci, quella cartacea, cui collabori tutt’ora e inoltre scrivi anche per A-Rivista Anarchica e per altre testate…
Inkroci è uno splendido luogo dove mi è offerta l’occasione di parlare diffusamente di quelle che sono due mie grandi passioni: la musica e il cinema (certo cinema, per la verità). Su questa rivista posso presentare ai lettori i dischi che hanno fatto parte della mia formazione e che a mio avviso meritano di non finire nel (o di essere ripescati dal) dimenticatoio. Mi piace raccontare non solo del loro contenuto, quanto piuttosto di tutto quello che c’era intorno, il mondo, la gente, le “vibrazioni” degli indimenticabili seventies. Per quanto riguarda l’altro tema, ho proposto alla redazione una rubrica che parlasse di cinema e letteratura, di letteratura nel cinema, facendo un parallelo tra l’opera letteraria originale e la trasposizione cinematografica che ne è stata fatta. Ogni tanto, poi, su Inkroci compare anche qualche mio racconto… A proposito, vorrei fare i complimenti ai traduttori che ottimamente traspongono i pezzi in inglese, e agli illustratori. Bravissimi.
Per quanto riguarda invece A-Rivista anarchica, credo si tratti di una rivista davvero speciale, graficamente molto curata, dai contenuti sempre interessantissimi e che contrariamente a ciò che si può pensare (per il fatto di essere espressione di un’ideologia), molto molto aperta. Da un paio di lustri mi sono appassionato allo studio della storia dei movimenti sociali a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, e in questa mia ricerca non potevo non incontrare, tra gli altri, il movimento anarchico.
Mi ha da subito colpito la purezza di un’ideale che è senza dubbio la quintessenza dell’utopia, e la determinazione dei suoi adepti. Qualche anno fa acquistai un numero speciale di A-Rivista anarchica, mi sembra nel quarantennale della sua pubblicazione, che riportava i nomi di tutti i collaboratori fin dal primo numero.
Pensai che mi avrebbe fatto piacere far parte di quella folta schiera che negli anni aveva concorso a mettere un importante tassello nel puzzle complesso della libertà di stampa e di pensiero, e nella diffusione di cultura e contro-cultura. Subito dopo inviai, tramite il mio amico Felice Accame, già storico collaboratore della rivista, un mio racconto su Gaetano Bresci. Il racconto piacque, e fu così che entrai in contatto con A.
Qualcuno direbbe che, collaborando a più riviste, pubblicate da diversi editori, “lavori per la concorrenza”. Personalmente credo che ragionare in termini di concorrenza nell’ambito della cultura sia insensato e controproducente, eppure molti lo fanno. Tu che cosa ne pensi? E a che cosa si deve questa tua scelta controcorrente?
In realtà tutte le riviste alle quali collaboro le percepisco complementari una all’altra. Ognuna di esse si occupa di diffusione della cultura, magari su terreni diversi, ma il “lavorare per la concorrenza” o il “conflitto di interessi”, io lo vedo quando gli ambiti di intervento sono diversi tra loro e spingono in direzioni opposte, e questo non sembra essere il mio caso.
Come poeta partecipi anche alla carovana dei versi e ai poetry slam di abrigliasciolta. Come vivi queste esperienze?
Mettiamo subito in chiaro una cosa: io non sono un poeta. Amo definirmi un onesto artigiano del verso, laddove l’aggettivo “onesto” racchiude in sé passione, dedizione ed estremo rispetto per la parola. La Poesia è qualcosa di estremamente alto, un termine di cui troppe persone abusano, e io non voglio cadere nello stesso errore.
Carovana dei versi è un bel contenitore di energie, un magma in continuo movimento dietro il quale in maniera discreta si nasconde l’abile regia di Ombretta Diaferia, che da oltre un decennio dirige molto efficacemente, e con passione rara, un’orchestra di giovani e meno giovani dediti al poetare.
Carovana dei versi è vivere in maniera corale l’amore della poesia, così come le altre mie esperienze di scrittura hanno una connotazione collettivistica, come ho già detto parlando di Nuova Rivista Letteraria. Pur avendovi partecipato in due occasioni, i poetry slam mi piacciono meno, perché personalmente non credo che la poesia possa e debba essere oggetto di competizione, in quanto a volte la capacità interpretativa ha il sopravvento sull’opera.
Prima hai fatto riferimento alla tua Olivetti Studio 44. Oggi come oggi scrivi a mano, a macchina o con il computer?
Scrivo a penna. Sempre. Ci ho provato, ma scrivere direttamente a computer (e, prima, a macchina) non mi riesce proprio.
Mi toglie concentrazione. Il mio studio è pieno di pagine scritte a mano, alcune in ordinata sequenza, e di brandelli di fogli sparsi dove magari ho appuntato un’idea da sviluppare, giornali annotati, insomma scrivo un po’ dovunque. Analizzando questo mio modus operandi, ho però scoperto che dietro la scrittura a penna c’è l’urgenza e l’immediatezza; nel successivo riscrivere a computer, c’è una prima revisione del testo e questo è importantissimo.
Chi scrive sa che la prima stesura va letta e riletta, scritta e riscritta tante volte prima di giungere a un risultato soddisfacente. Questo è il mio percorso.
Una cosa che si nota leggendo le tue opere è che, pur utilizzando un linguaggio ricco, ti esprimi in maniera semplice, diretta. Quanto ritieni che sia importante la leggibilità, in un’opera letteraria?
Non mi piace il barocchismo, soprattutto in letteratura. La ricerca, anche spasmodica, della parola non può diventare l’essenza stessa e il motivo unico della scrittura. L’esercizio di stile, che pure in alcuni casi ho praticato, deve essere da subito dichiarato essere tale al lettore, altrimenti è puro narcisismo.
Riguardo alla questione della leggibilità, è persin banale dire che qualsiasi testo, essendo rivolto a un pubblico, debba essere leggibile, il che non vuole assolutamente dire che si debba scrivere in funzione del livello di comprensione del lettore medio, altrimenti nel nostro Paese e in questo infausto periodo storico (i dati statistici sui lettori in Italia sono sconfortanti) la letteratura sarebbe già morta e sepolta. Se qualcuno è però convinto che la semplicità sia sinonimo di povertà di linguaggio, be’… problemi suoi.
Secondo te l’arte, e nello specifico la letteratura, può e deve produrre coscienza nel lettore? Può avere ancora un potere rivoluzionario?
C’è una frase del sindacalista e grande pensatore anarchico Fernand Pelloutier, che guida la mia mano quando scrivo: “ È l’ignoranza che fa i rassegnati. Ciò vuol dire che l’arte deve fare i ribelli”. Senza contare che anche Antonio Gramsci diceva: “Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.
Ecco, io credo sia davvero così. Da sempre il potere teme la cultura, perché un uomo colto è un uomo consapevole, capace di mettere in relazione gli eventi e dunque non manovrabile. Gli artisti, gli scrittori devono fare la loro parte smettendo di guardarsi l’ombelico e raccontare inutilità, trasmettendo invece al lettore emozioni e consapevolezza. Tutto il resto è puro onanismo letterario. Naturalmente questo è ciò che penso io al riguardo, ma non ho mai preteso di essere depositario della verità.
Secondo te è vero che stiamo vivendo un’omologazione culturale verso il basso piuttosto inquietante?
Il disastro in cui il nostro paese versa già da qualche lustro è sotto gli occhi di tutti. Lo smantellamento della scuola pubblica e dell’università italiana, unitamente al taglio (per non parlare di azzeramento) dei finanziamenti al mondo della cultura ha portato nel tempo a un preoccupante appiattimento di pensiero e a una drastica riduzione di capacità critica in gran parte dei cittadini. I media e la televisione sono complici del genocidio culturale in corso. Perché, tutto questo? Perché il potere ha paura della cultura. Come già detto.
Quella che viene chiamata crisi della letteratura o, più in generale, crisi della cultura, secondo me in realtà è stasi. “Crisi” sarebbe già un bel termine, saremmo già avanti. La crisi prevede qualcosa che scoppi, è comunque rottura…
Credo tu abbia ragione. Ma non esiste stasi eterna, e questo lo sa bene anche chi da questa stasi trae tutti i benefici. Questo è il momento di quiete che precede lo scoppio della tempesta, la situazione di massima tensione dell’elastico.
Dopo c’è la rottura, e nessuno è in grado di stabilire o di limitare i danni che ne potranno conseguire. Ovviamente la crisi o la stasi della letteratura e della cultura, sono solo un piccolo spicchio di un problema di carattere politico, economico, sociale, che investe l’intera vita delle nostre società avanzate.
Oggi c’è la tendenza all’autopubblicazione, specialmente sul web, che ha reso più semplice ed economica questa pratica. Tu che cosa ne pensi?
Non mi piace e non mi interessa. Sono un uomo del secolo scorso, sono un uomo del passato. Se avessi la possibilità di tornare indietro nel tempo vorrei vivere un secolo, quello che va dal 1850 al 1950, periodo in cui mi piace pensare che siano accadute le cose più importanti, drammatiche e belle dell’intera vita dell’umanità.
Il libro è fatto di carta e inchiostro. Il tablet è comodo, pesa poco e contiene intere biblioteche, questo lo so. Ma pensa che tristezza e che povertà le case del futuro, senza scaffali, senza volumi impolverati, senza storia. No, se questo è il futuro, non mi interessa.
Erri De Luca ha scritto che lo “scrittore dev’essere più piccolo della materia che racconta”. Tu sei d’accordo?
Erri De Luca ha scritto una cosa naturale (non vorrei mancare di rispetto a uno scrittore che stimo infinitamente, dicendo “scontata”); lo scrittore sarà sempre più piccolo della materia che racconta. Chi pensa di fare il contrario, e ce ne sono, è destinato a cadere nel ridicolo.
Ogni buono scrittore è anche un assiduo lettore; quali sono, secondo te, gli scrittori contemporanei che andrebbero assolutamente letti?
Io sono un lettore onnivoro e disordinato, leggo romanzi e saggi, poesia, reportage e tutto quanto mi ispiri al momento o mi sia necessario per scrivere i miei racconti o i tanti pezzi per le riviste alle quali collaboro.
Mi piacciono molto i classici della letteratura russa dell’ottocento, in primis Dostoevskij, i francesi Sartre e Queneau, Kafka e Roth, Joseph, gli americani Hemingway, Steinbeck, Fante, Bukowski, Hammett e Chandler. Mi piacciono i noir, i libri storici, soprattutto ambientati in determinati momenti e luoghi, come la guerra civile spagnola, la Parigi di fine ottocento e inizio novecento, la Russia della rivoluzione, l’Italia fascista, le esperienze coloniali…
E tra i contemporanei italiani?
Amo gli scrittori meridionali della seconda metà del novecento: i miei conterranei Jovine e Silone, Lussu, Alvaro, Gramsci, ma anche Gadda, Pratolini, Morante, Sciascia e tra i più recenti Striano, Tassinari, e perché no? Camilleri. E a proposito, ho una vera e propria venerazione per la produzione della casa editrice siciliana Sellerio.
Quali sono le fonti di ispirazione di cui ti servi quando scrivi?
Ogni scritto ha bisogno di una scintilla iniziale, di un’idea che valga la pena di sviluppare. Questa miccia, chiamiamola così, nasce normalmente dalla vita, propria o delle persone che si hanno intorno o magari di qualcuno che si è conosciuto per caso, poi per lo sviluppo della storia c’è tutto un lavoro di studio e raccolta di informazioni.
Personalmente non comincio mai a scrivere finché non ho ben chiara nella mente la chiave da dare al mio racconto e l’impianto generale. Poi, scrivendo, le cose cambiano, e di molto, perché i personaggi cominciano a vivere di vita propria e portano le vicende dove vogliono loro, ma i paletti iniziali li ho posti io e il comando delle operazioni è sempre e solo mio.
Stai lavorando a un nuovo libro? E sarà un libro poetico o narrativo? Vuoi darcene qualche anticipazione?
Nel 2015 dovrebbe, il condizionale è d’obbligo, essere pubblicata una mia nuova raccolta di racconti. Tengo molto a questo progetto perché sono convinto che l’ostracismo riservato alla forma racconto nel nostro Paese sia del tutto immotivata oltreché ingiusta. Nei paesi anglosassoni le short stories sono considerate a pieno titolo letteratura alta. In Italia, gli editori scuotono la testa ogni volta che viene loro proposto un libro di racconti. Io vado ostinatamente per la mia strada.
Perché scrivi? Perché la scrittura?
Se ti dicessi che per me scrivere è come fare l’amore con la donna più bella del mondo mi crederesti? Per farmi capire, ti racconto una storiella che chiarisce il concetto. Dunque… Una nave affonda al largo di un’isola deserta.
Miracolosamente si salvano, approdando sulla spiaggia di quest’isola, un giovane, aitante marinaio e la top model Kate Moss (ognuno ci metta quella che più gli aggrada). In questo scenario paradisiaco i due si innamorano e, come è logico che sia, travolti dalla passione si danno al sesso sfrenato.
Tutto fila liscio per qualche settimana, poi, all’improvviso, il giovane marinaio comincia a intristire. La donna, affettuosamente, chiede il motivo di quel cambiamento di umore. «Cosa ti succede? Ti sei stancato di me?» chiede la ragazza. «No, amore mio – risponde il marinaio – come potrei? È che… sento molto la mancanza del mio amico Mario».
La bellissima top model rimane un po’ perplessa poi chiede: «Posso fare qualcosa per scacciare questa tua malinconia?». Il giovanotto ci pensa su un attimo e dice: «Sì. Ecco… potresti indossare la mia divisa da marinaio… e nascondere i tuoi lunghi capelli sotto il mio cappello bianco».
E mentre con un tizzone di carbone spento disegna un paio di baffi neri sul viso della ragazza, aggiunge: «Ora vai dietro quella palma, fai finta di essere il mio amico Mario, sbuca all’improvviso e vienimi incontro come se non ci vedessimo da lungo tempo». La ragazza, senza capire, esegue alla lettera le disposizioni del marinaio.
Sbuca dalla palma, si dirige verso il giovane e questi, come colto da una gioia esplosiva le corre incontro, le butta le braccia al collo in un saluto affettuoso e le dice: «Ciao Mario! Come stai? – e immediatamente dopo – Oh! Lo sai che faccio l’amore con Kate Moss?». Ecco. Scrivere è proprio come far l’amore con la donna più bella del mondo. Il piacere, la passione… d’accordo, ma che gusto c’è se poi non lo possiamo raccontare a nessuno?
(pubblicato con l'autorizzazione di www.Inkroci.it)
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