di Bortolo Uberti
Tra le Città invisibili di
Italo Calvino, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, ce n’è
una che sempre mi affascina particolarmente ed è Tecla. L’incantato viaggiatore
Marco Polo racconta all’imperatore Kublai Khan il fascino di una città in
perenne costruzione. La città, di suo, è praticamente invisibile perché
nascosta da impalcature, armature metalliche, scale, tralicci, ponti sospesi, tele
di sacco. Gli abitanti lavorano indefessamente “perché non cominci la
distruzione”. Se, infatti, smettessero di lavorare, tutto, ma proprio
tutto, comincerebbe ad “andare in pezzi”, “non soltanto la città”.
Il viaggiatore s’interroga ed interroga quegli abitanti indaffarati: “Che
senso ha il vostro costruire? Qual è il fine d'una città in costruzione se non
una città? Dov'è il piano che seguite, il progetto?”. La risposta si fa
attendere fin quando non “scende la notte sul cantiere. È una notte
stellata. «Ecco il progetto», dicono”.
La prima considerazione che nasce
spontanea in noi è quella di un senso di frustrazione: com’è possibile che il
lavoro non finisca mai? Com’è possibile che quella città non sia mai ultimata?
Noi, quando mettiamo mano a qualcosa vorremmo vederlo realizzato nel minor
tempo possibile. Se va per le lunghe viene spontaneo ripetere l’espressione
milanese “Lungh ‘me la Fabrica del Domm”, cioè lungo come la
Fabbrica del Duomo, qualcosa che non finisce mai.
Noi non abbiamo
subito la distruzione, come invece vediamo accadere negli scenari di guerra, e
non abbiamo subito una deportazione, come è avvenuto invece qualche decennio
fa. Ma se non lavoriamo insieme, con passione ed entusiasmo, la nostra comunità
si sfalda, piano piano si sgretola, si svuota. Nessuno può stare a guardare,
ciascuno deve metterci il suo e deve farlo con gli altri. Il progetto, non
dimentichiamolo, è il cielo stellato, cioè qualcosa di alto, infinito, di
divino. Il progetto è scritto nelle parole della Bibbia, ha il suo modello in
Gesù e in quella comunità che prende forma dal dono dello Spirito santo.
Ci sono, tuttavia, due modi
opposti di costruire: alla maniera di Babele al tempo della torre o alla maniera di
Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. I primi, guidati dall’ambizione, sfidano
Dio per affermare
se stessi, ma finiscono con il dividersi tra loro e disperdersi nella regione.
I secondi, i discepoli nel Cenacolo a Gerusalemme, si lasciano riempire dal
dono dello Spirito, vincono la paura, spalancano le porte ed escono sulla
piazza. La loro gioia contagerà molti e la loro parola (in realtà, quella di
Gesù) raggiungerà i confini della terra. C’è un costruire che è quello
paradossale del self made man, di chi si fa da sé, non ha bisogno degli altri,
e c’è quello di chi lavora insieme per raggiungere un obiettivo comune.
Nella lingua swahili (Kenya) harambee
significa “tutti insieme”. Harambee è il grido che riunisce tutto il
villaggio per fare insieme qualcosa che è utile per tutti. È un canto di festa
che accompagna la gioia della collaborazione. Viene spesso raffigurato con una
scultura in ebano nella quale la comunità è unita nello sforzo comune, ciascuno
sostiene l’altro per il sogno di tutti. Allora alziamoci anche noi e costruiamo
insieme. Harambee! La nostra comunità sarà un riflesso dello splendore del
cielo stellato!
Fantastica visione della nostra società, dove tutti siamo soli e orgogliosi di fare da soli. L'unione fa la forza! Complimenti, semplicemente fantastico e riflessivo. Grazie. Juanito
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