Racconto Breve
Alessia Ghisi Migliari
Oggi le ombre hanno dita lunghe.
È la stagione, lo so.
Si aggrappano alle cose, non sai se pietose o minaccia, e
le coprono, forse le afferrano con arroganza.
Le sere non si arrossano quando fa così freddo – nessun
fuoco a creare meraviglia, un attimo di estasi, una lieve commozione del Bello.
Le tazze azzurre da tè che usavamo quando fuori il tempo
era così – ricordi?
Erano e sono decorate, economiche e sbeccate.
Ci abbiamo bevuto dentro gli anni migliori.
Sono in una credenza; ogni tanto le tocco, in cerca di un
bagliore, un déjà-vu.
Sono lisce e tintinnano, come la tua risata – saturavi la
stanza di gioia, così bene, con quel suono.
Tu le hai in mente, lì dove sei?
Tu hai una mente, dove sei ora?
E sono così patetica, stasera.
Che noia, querula e banale, sono, stasera.
Non sono più abituata a parlarti, forse a parlare; poi alla
fine parlo da sola (sembrerò pazza ai vicini di casa, vicini sempre troppo
lontani).
Le tue assenze si schiantano contro una quiete non
richiesta.
Il silenzio è talmente prezioso che di rumore ci si può
ammalare; ma quando è imposto da vuoti e mancanze e impedimenti, anche questo
tesoro sacro crea crepe nel CorpoAnima.
Vorrei dirti che da quando te ne sei andata ogni elemento
ha trovato il suo luogo naturale; che le ore e ciò che è accaduto hanno
acquisito un senso perfetto e compiuto.
Ma dato che oggi sono patetica, nel mio pathos sarò
onesta – e confesso, e forse lo sai già, che non è stato proprio così.
Questo silenzio, questa stanza, questo momento, questa
finestra, la vita fuori, le tazze fredde dentro: è tutto dissonante e forzato,
non voluto; anche il silenzio, può essere dissonante.
Sto con la solitudine – la utilizzano persino come
punizione e tortura, talvolta.
Che poi non preoccuparti: lo sai che sovente ho accanto
una creatura meravigliosa e amata, che, come te, illumina.
Ma quando deve svanire oltre lo scarno confine della
porta, mi accorgo.
Mi accorgo che fino a che sei stata qui, non conoscevo
questa terra interiore brulla e arida.
È come essere costantemente in un dipinto di Hopper.
Eppure manca la squisita distinzione dei termini inglesi:
Solitude, per un ritiro voluto e apprezzato, e Loneliness, per la
sofferenza imposta da questa condizione così umanamente disumana.
Non hai idea, di quanto ferisca il CorpoAnima, fino quasi
a spegnerlo; di come il nostro nocciolo interiore, il nostro cervello e cuore e
ogni cellula, e la nostra Aura, se c’è, ne vengano schiantati.
Vorrei che mi ascoltassi e, nel contempo, vorrei che tu
non sapessi che va così.
Ma forse abiti piani d’esperienza in cui non ti turba il
vedermi a questo modo (mi vedi?); forse scorgi un disegno più ampio – da questi
vetri, ti garantisco, l’immenso è invece un concetto astratto, gli orizzonti
stretti e quasi fermi. Che è impossibile, lo so, non può che esserci moto. E forse
sto evolvendo anche adesso, qui da sola. Ma che fatica sadica.
Mi viene addosso alla memoria quel modo di accarezzarmi
con le tue mani di terra e lavoro e vecchiaia, che colmava di pace la materia
oscura di cui siamo forse parte, come trafitti da un mistero che è affascinante
sfiorare quando siamo in Solitude, e terrificante quando siamo in Loneliness.
È strano, madre mia, questo mondo.
Siamo tutti a un respiro dall’altro, tutti connessi e
tutti sconnessi: che ovvietà, vero?
Pensa che possiamo parlare con uno sconosciuto dall’altra
parte del globo in un minuto; e poi le notti sono in un letto dove si dorme troppo
male e troppo larghi, senza respiri complici accanto.
Pare che questa paradossale faccenda della Solitudine Moderna
sia diventato un problema non da poco, diffuso tra i CorpiAnime.
Che selvaggia ironia!
A vedere così, da qui, sembra che là fuori tutto fluisca
in un armonioso balletto.
Serve un occhio allenato per accorgersi che sono danze
rapide in solitaria, dove lo sguardo aggancia e guizza solo per un momento, come
La Pantera di Rilke.
Deve essere stato Oscar Wilde, e molti altri ancora, credo,
a parlare delle numerosi prigioni che possono esservi.
Quella del corpo è senza dubbio tra le più atroci – una condanna
alla solitudine.
Ma sembra che la Natura abbia fantasia nel creare scenari
simili partendo da cause differenti.
Ed eccomi che io sono qui e ti parlo.
Adesso il buio ha raggiunto gli stipiti – il buio che
arriva senza che il panorama si infiammi: si muore di gelo anche scottando.
Mi faccio compagnia con la tua non-presenza; non mi ero
accorta che il tuo vivere ha creato protezioni contro gli abissi.
E la tua risata – non l’ho mai registrata, ma mi pare che
mi vibri dentro ancora.
E sono patetica e noiosa e querula e onesta, stasera
– ripetiamolo.
Va bene così.
Metto in cantina la mia solita vivacità, il mio tono più
moderno e ironico, la mia fretta feroce.
Tanto non lo saprà nessuno, a parte te.
Prima o poi, possibilmente presto, bisognerà proprio far
qualcosa per smussare questa Solitudine non cercata che ammorba tante AnimeCorpi.
Hai un’idea?
Servirebbe un gesto – perché il gesto, un gesto, la
differenza la può fare: come te che metti a bollire l’acqua, prendi le tazze
azzurre e cerchi lo zucchero; dopo, un gentile calore ci prenderà.
Ma tu, carissima madre, sei uno della moltitudine dei
nomi fatti di assenza.
E io uno della moltitudine dei nomi fatti di Loneliness
– in fondo non importa chi siamo, siamo in tanti, a sentirci così.
Siamo solo rappresentanti di fenomeni sociali diffusi e
taciuti, coma una sconfitta che tale non è.
Le dita lunghe delle ombre serotine (che parolone!) forse
son davvero pietose: nascondono una coreografia mal studiata, ognuno per sé
stesso.
E celano me, i molti me, dietro a un vetro, in una quiete
crudele, a cercare una voce vera (propria e altrui), e mani che ti stropiccino
e plasmino un poco; l’ideale sarebbe un farsi rimboccare le coperte, ancora una
volta.
Mi senti?
Mi sentite?
Vi sentite mai così?
(E da lontano si odono bisbigli, in crescendo, come
risposte da ogni dove)
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