Orlando Sora, con quel viso tagliato nella pietra, i capelli
neri, ricci ricci, un fisico asciutto, aveva mantenuto un certo fascino anche
in là con gli anni.
Quando l’avevo conosciuto, aveva superato da poco la cinquantina,
non aveva nulla dell’uomo di quell’età, i suoi capelli erano ancora ricci e
neri e gli capitava di arrossire spesso
nonostante gli anni. La timidezza era il suo cruccio, mi raccontava spesso
della fatica per superarla, soprattutto in eventi come i concerti, poiché era
un appassionato musicista e suonava in pubblico.
Mi aveva fermato un giorno che l’avevo incontrato insieme a
suo figlio Riccardo e, con un’aria quasi da ragazzo, mi aveva avvicinato e
chiesto se potesse farmi il ritratto:
“Sono Orlando Sora e questo è mio figlio Riccardo, volevo
chiederti se posso farti il ritratto, sono un pittore”.
Io non avevo capito subito, ero una ragazzina piuttosto sprovveduta, arrivata dal sud con la
valigia di cartone insieme alla mia famiglia, qualche anno prima, e mi sentivo
ancora spaesata.
Lui mi aveva ripetuto l’offerta e mi aveva detto di chiedere
il permesso ai miei genitori. Era stato l’inizio di una bella storia tra il
pittore e la sua modella.
Non ho mai dimenticato la sensazione che ho avuto la prima
volta, entrando nello studio di Via Appiani e guardando i suoi
dipinti: mi ero sentita come Alice nel paese delle meraviglie… li avevo amati!
L’intuizione confusa di trovarmi davanti
a qualcosa di grande era diventata, con il tempo, una certezza.
Lo studio, uno stanzone luminoso con due ampie finestre che arrivavano al soffitto, un pavimento di vecchi listoni di
legno divenuti grigiastri e polverosi per l’uso, aveva un’atmosfera affascinante.
C’erano cavalletti di diverse misure ai lati e quadri
dappertutto: appoggiati al muro della parete in fondo, per terra, messi uno
sopra l’altro, appesi. Tantissimi. Il tutto poteva appariva disordinato, ma ogni oggetto aveva la giusta
collocazione.
Sora lavorava sul cavalletto posto al centro, con accanto il
tavolino dove impastava le terre e creava i suoi colori, e, dietro, la pedana
per i ritratti.
E’ stato bello posare, mi sentivo parte di qualcosa, veder
realizzato un dipinto a cui avevo
contribuito con la mia presenza, mi sembrava un sogno: oltre alla ragazzina
scontrosa qual ero, ce n’era un’altra che lui aveva intravisto e dipingeva.
Ho avuto il privilegio di veder nascere uno dei miei dipinti preferiti: “Il paesaggio
con la luna”. Ricordo che me ne stavo seduta in un angolo dello studio,
immobile come uno dei tanti quadri intorno a me, attenta a non distoglierlo
dalla sua ispirazione mentre lavorava.
Lui dipingeva assorto, arretrando di tanto in tanto, gli
occhi socchiusi per meglio mettere a fuoco la sua opera, dimentico della mia
presenza e da tutto quanto lo circondava.
“Il paesaggio con la luna” una composizione con in primo
piano una figura solitaria, in piedi contro la montagna dove si appoggia una
luna gialla e, vicino, un cavallo bianco.
Un’opera che dà la percezione dell’infinito e da cui traspare una grande
spiritualità. Due creature a contatto con la natura, nel silenzio.
Mi sono sentita come se fossi quella figura solitaria del dipinto, e, ancora oggi, ogni
volta che lo guardo, avverto la stessa emozione.
Un giorno gli avevo detto: “Mi piacerebbe descriverti mentre
dipingi”.
Sora, un artista che guardava al Rinascimento… Il desiderio
di poter realizzare un’opera di pittura murale come l’affresco, diventava, per lui, una necessità: “Il libro
dell’Arte” di Cennino Cennini” era il suo riferimento. Un manuale che parla di
pigmenti, pennelli, tecniche d’affresco e molto altro; un testo da cui non si può prescindere, se si
è artista a tutto tondo.
Mi permetteva, talvolta, di aiutarlo a bucare con un
punteruolo gli “spolveri”, i cartoni con i disegni degli affreschi da
appoggiare sulla parete da affrescare, in seguito li avrebbe tamponati con un
sacchetto di tela riempito di carboncino, per tracciare i contorni
sull’intonaco fresco. Arte e mestiere.
Ci ha lasciato opere di eccezionale bellezza come “Il Giorno
del Giudizio” l’affresco della Chiesa di
San Giuseppe al Caleotto, degna di Giotto e Masaccio, i suoi Maestri.
Alcuni suoi ritratti sono autentici capolavori. Ce n’era uno
che a me piaceva molto per l’espressione profonda e malinconica che vi traspariva,
una piccola testa che mi raffigurava. L’ammiravo sempre, sapevo che se
gliel’avessi chiesta me l’avrebbe
donata. Ma non avevo mai osato, ora non so dove sia.
Un altro ritratto che trovavo più che bello era quello di sua
figlia Vanna che studiava: una bimbetta con le trecce castane, in posa di tre quarti, avvolta in
sfumature di luce dalle tonalità pastello
con qualche lieve tocco bianco/azzurro. Uno dei più intensi e
particolari: si trova a Villa Manzoni,
nelle Sale dedicate alle opere di Sora
C’erano quasi trent’anni di differenza tra il “Paesaggio con
la luna” il mio ritratto e “La figlia
del pittore”. Quest’ultimo appartiene al
periodo degli Anni Trenta, un tempo in cui aveva dipinto molto con la sua
famiglia, i suoi figli: un periodo amorevole, dai toni chiari e luminosi.
L’altro, agli Anni Sessanta, un momento altrettanto bello, come ogni tempo
della sua pittura.
Emozioni simili si possono percepire in molte delle opere di
Orlando Sora. Trovo che lui avesse la capacità di cogliere l’aspetto più intimo
della personalità di chi gli stava di fronte, soprattutto
quando si sentiva in sintonia, e, nelle composizioni, di esprimere la
spiritualità dell’essere umano.
Al pomeriggio, quando finiva di dipingere o disegnare, dopo
aver lavato i pennelli, suonava e studiava la chitarra classica fino all’ora di
cena.
La chitarra classica, uno strumento dal suono limpido e
forte, era l’altro grande amore della sua vita dopo la pittura e la sua
famiglia: aveva le più belle chitarre che si potessero trovare!
A quell’epoca Sora era considerato uno dei migliori chitarristi classici e aveva
suonato spesso con Segovia del quale era amico. La musica l’appassionava tanto
quanto la pittura: ha suonato come solista per la Gioventù Musicale, ha
accompagnato la Corale di Lecco nei sui concerti, ha studiato contrappunto e
l’ha fatto da solo, come da solo eseguiva le trascrizioni dal liuto alla
chitarra classica e componeva musica senza scriverla, per puro piacere.
Un solitario, un autodidatta di straordinario talento!
Mi diceva:
“Leggere una pagina di musica è come leggere un racconto in
un libro, con la differenza che qui la storia è scritta con segni diversi e le
si può dare un suono con uno strumento”.
Sono felice di avere scoperto un artista, un autodidatta di grande valore umanitario. Grazie Delia
RispondiEliminaBello! Chris
RispondiEliminaGrazie, Delia. E' stato un privilegio conoscerlo e lavorare con lui. Giovanna
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