lunedì 7 maggio 2018

Una storia


di Giovanna Rotondo Stuart)


Ho salutato Gianni, il mio psicoterapeuta, ci siamo visti per l’ultima volta prima della pausa estiva, più che una terapia è stata una chiacchierata, chissà… se ci rivedremo ancora. Tornando a casa, ripenso ai mesi passati, al primo giorno di terapia, mi rivedo seduta sul divano, con la schiena appoggiata allo schienale e lui di fronte a me che diceva, parlandomi con voce calma e tranquilla, di rilassarmi, chiedendo a ogni organo del mio corpo di dormire. Mi preoccupava il pensiero di dormire o perdere il controllo.
“Non voglio dormire, per favore”  mi ribellavo.
“Ti prometto che non dormirai” mi rispondeva, sempre parlandomi molto lentamente, “pensa alla parola “calma” e concentrati”. 


Alla fine mi concentrai. Tutto il mio corpo era rilassato, ogni parte, ogni organo. Io mi dicevo “calma”. La prima immagine è stata il verde dei prati in un bel pomeriggio di sole in montagna. C’era tanto silenzio, tanta quiete. Poi l’immagine della mia casa, di sera, quando tutti dormono e io sono sola, più niente! Gianni mi chiedeva di andare indietro nel tempo. Sentivo il mio corpo diventare pesante, come il piombo. C’era una ragazzina con i capelli lunghi. Qualcosa mi ha turbato profondamente. A volte piangevo. E lui:
“Piangi, è bello piangere!”
“Ma io non voglio piangere. Che senso ha?” 
Ma improvviso mi assaliva il desiderio di piangere. E sempre non volevo. Gianni diceva:
“Devi piangere, puoi permettertelo”.
Mi sentivo a disagio, fuori dalla realtà e con il  corpo pesante. Solo la mia testa era leggera.
“E se volessi alzarmi, potrei?”
”Certo che puoi, basta che tu lo voglia”.
Gianni mi ha guidato in un viaggio dentro il mio corpo. Ho visitato ogni parte, ogni organo, ho accarezzato quelli che mi facevano male. A momenti mi sentivo stanca. 
“Dimentica che devi essere forte, lasciati andare“ .
Ho mosso un braccio.
”Muovi un braccio: quello che vuoi. Pensa di avere un palloncino attaccato a un filo, alzalo”.
Ho scelto il  braccio sinistro, il mio braccio offeso e mutilato. L’ho alzato, dritto, alto. Cosa che  non riesco ancora a fare. O almeno, non perfettamente e senza fatica.
“Non toccarti la fronte, altrimenti ti addormenterai”. ha continuato Gianni, parlandomi con voce bassa, convincente.
Sarà proprio così? Mah! Nel dubbio non mi sono toccata la fronte. C’erano momenti in cui mi sembrava tutto assurdo e senza senso, quasi buffo. Gliel’ho detto, ma a lui non ha fatto nessuna impressione. Ed è venuto il tempo di ritornare alla normalità.
“Conta da dieci a zero. Fino a cinque sentirai ancora il bisogno di dormire e ti sentirai ancora pesante: da cinque a zero incomincerai a svegliarti”.
Così ho fatto. Gianni è bolognese ed è nero, nero. Capelli neri, occhi neri, carnagione scura. Siamo usciti insieme. Io sono andata da Lambrate, dove abita, in via Veneziano, all’Istituto dei Tumori,  a cercare l’Associazione di Attive Come Prima. Ho conosciuto Candy, che ha alle spalle un anno di chemioterapia, e il Dott. Tamburini, lo psicologo. Il Dott. Tamburini mi ha fatto delle domande su ciò che ho avuto e ciò che ho in mente di fare:
“Carcinoma al seno sinistro, due linfonodi in metastasi. Mastectomia totale. Adesso sono in chemioterapia, due cicli al mese per un anno”.
“Come si sente?” mi ha chiesto.
”Non so neanch’io, male, la chemio mi fa star male. La nausea non mi abbandona mai… “
“C’è qualcuno che la segue, l’aiuta?”
”Il mio medico di famiglia.  Ho bisogno di aiuto. Vorrei che ci fosse più assistenza per quelli come me. Soprattutto se hanno bambini. Vorrei fare qualcosa. Dove abito non c’è nulla”.
“Sarebbe utile, ma adesso non è il momento. In futuro la terapia potrebbe diventare molto debilitante. Ed è pesante, a livello psicologico, e non solo, dover affrontare situazioni che noi stessi stiamo vivendo e ci causano sofferenza.  Le consiglio di aspettare. Almeno per il tempo che è in terapia”.
“Sì, mi accorgo io stessa di far fatica. Parlare dei miei problemi mi turba e mi deprime”. Inoltre, non ne abbiamo parlato, ma la cosa aleggiava tra noi, ci potrebbero essere  recidive.
In questi giorni fa molto caldo c’è afa e bassa pressione e ho molta nausea, il dott. Tamburini ha avuto ragione quando mi ha detto di aspettare almeno la fine della terapia. Le cose sono peggiorate da allora. Ho la testa grande come un pallone, anzi, come una mongolfiera e mi sento precaria. Precaria dentro e fuori. Ieri avevo detto al dottore che mi cercava una vena per il prelievo:  “Mi scusi,  forse piangerò”.
Questa mattina presto Ina è venuta nel mio letto, mi si è accucciata accanto:
“Ti fa ancora male la pallina?”
Mi chiede con una carezza timida …  
“Non più, presto sarà guarita”.
Ho spesso il rimpianto di non dedicarmi ai bambini in modo più concreto. Gli leggo poco e non seguo Ian bene a scuola: sono abbastanza discontinua in tutto.
Il nono ciclo è quasi completo, mi resta da prendere il citostatico per qualche giorno. Sempre metà dose, sempre squassata dal vomito. Un conato di vomito dietro l’altro, senza tregua. Non c’è antistaminico che tenga. Anzi, peggiora la situazione, mi collassa ancor di più e sto peggio.
L’ultima volta non ho potuto dormire mai, per notti intere. Avevo negli orecchi il pianto del bimbo in fondo al pozzo. Lo sentivo nel mio cuore. L’ho preso per mano, l’ho accarezzato, gli ho parlato:
“Bimbo bello e caro. Bimbo mio che Dio ti aiuti”.
Tutto il giorno non ho voluto sentire, né sapere. Ero a letto stesa, al buio, senza cuscino, incapace di riposare, sconvolta dal malessere:
“Bimbo caro. Bimbo mio. Vorrei scaldarti. Cullarti”.
Ore e ore di buio, in compagnia di un’infinita umanità dolorante.
I pensieri cominciano a diventare morbosi senza che io me ne renda conto e mi sfuggo al controllo. Spero di riuscire a conservare tutte le rotelle al posto giusto.
Da Gianni mi sono rilassata. Lui mi dice sempre di parlare con il mio inconscio, di trattarlo gentilmente, di chiedergli che la chemioterapia non mi faccia star male, ma che solo la parte benefica sia usata dal mio corpo:
“Posso chiedere al mio inconscio di avere un effetto positivo sui miei capelli? Sono stanca di stare senza capelli e non mi piaccio”. gli ho chiesto.
“Qualsiasi cosa tu voglia! Devi solo crederci!”
“Lo desidero molto. Ci metterò tutta la mia grinta!”
“Questo mi piace, non lasciarti mai sopraffare dalle avversità. Sii resiliente”
“Posso raccontarti un sogno che mi turba molto?”
“E’ importante che tu lo faccia!”
“Di solito non ricordo i miei sogni ma questo sì, ed è ricorrente. Sogno sempre di fuggire da una bara, sono vestita di bianco con i capelli lunghi e spingo una lastra di marmo con tutte le mie forze, fuori è buio.
“Vuole semplicemente dire che stai lottando per la tua sopravvivenza e questo è positivo”.
“Si, ma perché vestita di bianco?”
“Il sogno è sempre uguale o si manifesta con immagini diverse?”
“E’ sempre uguale, anche se cambia la modalità: io che tento di sollevare il pesante coperchio di una bara in un luogo cimiteriale e all’aperto, di notte. Io che tento di fuggire da una bara verticale appoggiata e senza coperchio, alla fine di un treno in corsa ma non riesco ad uscire, come se fossi attirata all’interno. Sempre vestita di bianco e con i capelli al vento”.
“Li sogni separati o insieme?”
“Sempre insieme, prima uno poi l’altro,  e li ricordo”.
“Sono sogni facili da comprendere: la coscienza del tuo stato di salute, la paura, la fuga. Non vuoi soccombere. Non so dirti del vestito bianco”.
“Mio figlio dice che sono diventata brutta, che non sono più la sua mamma. Non so cosa fare, mi rendo conto di essere assente, di non ascoltarlo. E’ molto agitato e lo rimprovero spesso”.
“Devi farti aiutare, non puoi fare tutto da sola. Nel frattempo cerca di essere paziente, più presente, più positiva. Devi pensare che il peggio è passato, che sei guarita, presto tutto sarà come prima”.
“Nulla sarà più come prima, né il rapporto con i miei figli, né quello con le persone intorno a me. Io stessa non sarò più come prima. Forse dopo, ma sarà comunque diverso”
“Potrà diventare migliore. Devi aver pazienza ancora per qualche tempo”.
“Il tempo sottratto alla mia famiglia, alla cura dei miei figli, mi pesa molto. Lo vivo come una punizione ingiusta, crudele”.
“Sì, diventerà il tuo riscatto, la tua forza”.
Gianni mi parlava con gentilezza, quando ci siamo salutati, mi ha sorriso. 
“Sei stata brava, devi continuare così. Quando tornerò ti voglio trovare bella e con dei capelli nuovi. Prometti”.
Ho sorriso a mia volta augurandogli una buona estate.



Ricordando Antonia

Antonia era venuta a trovarmi. Qualcuno era stato gentile e aveva pensato che la sua presenza e la sua visita avrebbero potuto aiutarmi ad affrontare le difficoltà che mi aspettavano. Si era presentata all’improvviso, alta, allegra, simpatica.
“Ciao sono Antonia amica di…  vorrei semplicemente parlare un po’ con te di quello che ci è capitato, se vuoi, se te la senti”.
Osservavo allibita quella bella ragazzona, di parecchi anni più giovane di me, dall’aspetto esuberante e con una timbro di voce profondo, da favola.
“Si, certo. Lo vorrei proprio”.
Mi sentivo piuttosto imbarazzata, facevo molta fatica a parlare di me!
“Ma tu li hai ancora tutt’e due i seni?”  le chiesi, infine, con difficoltà.
“No, ho una protesi di silicone”.
E con molta disinvoltura se la tolse e me la fece vedere.
“Se tutto andrà bene, presto farò la ricostruzione. Ci vogliono due anni”.
Mi disse che era stata operata all’Istituto Tumori.
”Mi sono trovata benissimo. L’intero piano era occupato da persone che avevano il mio stesso problema, che aspettavano e soffrivano come me. Il personale professionale è altamente qualificato e ti fa sentire curata bene”.
Mi aveva detto che i suoi  linfonodi non erano stati intaccati:
“Aspettavo solo quello,  non ho fatto nessuna terapia, non è stata ritenuta necessaria”.
La cosa si era risolta chirurgicamente. La fiducia di Antonia nel futuro era totale: ti faceva sentire come se tu stessi per intraprendere un viaggio che avrebbe potuto  essere, sì,  avventuroso, ma, senza dubbio a lieto fine. Era ottimista! Aveva un bimbo di sei anni e quando ne parlava la sua voce, i suoi movimenti, la sua espressione, tutto in lei si addolciva ed  esprimeva tenerezza.


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