recensione di Annalisa Petrella
Metafora
perversa del sogno americano
“Noi siamo aperti
all’integrazione razziale, ma solo quando i negri saranno pronti!”
Il sesto film di George
Clooney regista irrompe sullo schermo con un forte taglio satirico fin dalla
prima scena: in una sorta di spot introduttivo vengono decantati i pregi della cittadina
nord-americana di Suburbicon, collocazione
ideale per famiglie bianche della middleclass
degli anni Cinquanta. Le immagini mostrano il tipico villaggio anonimo con file
di casette pressoché identiche, simil-lego, corredate da piccoli prati e da
ordinati posti macchina, non mancano la chiesa, lo store, il pub, l’ufficio
postale e quello di polizia per rendere tutto perfetto e controllabile, in sintesi
un luogo, come recita il sottotitolo del film, “dove i tuoi problemi
scompaiono”.
E’ immediato il richiamo
allo stile dei fratelli Coen che descrivono di preferenza l’America perbenista degli
anni compresi tra i Cinquanta e i Sessanta dove famiglie, rigorosamente bianche
e apparentemente felici, vivono un sogno di perfezione rigido e inviolabile da
qualsivoglia intrusione indebita. Clooney, che ha più volte lavorato con i Coen,
ha ripreso la loro sceneggiatura scritta nel 1986 e l’ha rielaborata con
l’aiuto del fedele Grant Heslow.
Il film segue due filoni: quello
antirazzista, di matrice Clooniana, che narra l’arrivo a Suburbicon dei Meyers,
una famiglia di afroamericani, fatto che risveglia nell’intera comunità bianca un’ondata
spaventosa di odio razzista i cui strepiti persecutori fanno da sottofondo
martellante per tutta la durata del film. L’intolleranza bianca è assatanata di
sangue e mette in atto tutti gli espedienti per scatenare nei Meyers reazioni
punibili, ma senza riuscirci, la famiglia è collaudata da un’antica storia di
persecuzioni e adotta con grande dignità un alto livello di resilienza come
unica possibilità per resistere allo stress della violenza perpetrata e cercare
di andare avanti.
La vicenda narrata nel
film si riferisce a un fatto di cronaca accaduto nel 1957 in Pennsylvania,
quando a Levittown si trasferirono William e Daisy Meyers, una coppia di
afroamericani e la cittadina, totalmente bianca, insorse in una serie di
pesantissime manifestazioni d’intolleranza documentate nel film “Crisis in
Lewittown”.
Il secondo filone, ripreso
dalla sceneggiatura dei Coen, entra nella vita dei Lodge, la famiglia bianca che
abita nella villetta confinante con quella dei Meyers, e attinge agli stilemi del
noir hollywoodiano degli anni Quaranta, trasformando la storia in un giallo a
tinte forti che diventa una sorta di viaggio pulp, sconfinante nel grottesco.
Emerge via via un intrigo di relazioni corrotte e aberranti mascherate
dall’ipocrisia di un bieco perbenismo. Gli innumerevoli colpi di scena al
limite dell’assurdo risvegliano nello spettatore stupore e scoppi di risa di
fronte a situazioni e personaggi che si muovono come automi manovrati da un
marchingegno inarrestabile. Gli adulti, maschi e bianchi dominano incontrastati
la scena del male con la complicità di donne perfettamente inserite nel loro
ruolo di secondo piano. Clooney riesce a descrivere l’arroganza della classe
dominante imbastendo una satira rabbiosa e diffidente dove razzismo, classismo
e misoginia vengono puniti in un bagno di sangue che esclude soltanto i
bambini. E’ confortante seguire il punto di vista di Nicky, il figlio dei
Lodge, coinvolto in quest’apocalisse di violenza e imbecillità, che riesce,
malgrado tutto, a mantenere con il bambino dei Meyers, nero, un rapporto che
travalica ogni steccato e che offre uno spiraglio di speranza.
Gli attori tutti offrono
un’efficace prova di recitazione, a partire dai protagonisti Matt Damon e
Juliane Moore, a Oscar Isaac, l’assicuratore, fino al piccolo Noah Jupe, nella
parte di Nicky.
E’ interessante notare che
Clooney regista sa far tesoro degli insegnamenti dei grandi maestri del cinema,
ritroviamo con piacere alcuni spunti hitchcockiani: la sedia a rotelle de "La finestra sul cortile"”, le due gemelle, una bionda e una bruna recitate entrambe
dalla Moore, di “Vertigo”, lo strangolamento visto attraverso le ombre come in
“The Wrong Man” e la suspense crescente del “Delitto perfetto”.
Corro al cinema a vederlo, grazie!
RispondiEliminaDaniela
Grazie.
EliminaAnnalisa
Ho visto il film e la sua recensione mi ha fornito elementi critici interessanti. L. S.
RispondiEliminaLa ringrazio.
EliminaAnnalisa
Visto, Clooney è maturo come regista e i Coen fanno da supporto. Francy
RispondiEliminaGrazie, Francy.
EliminaAnnalisa
Davvero interessante e sicuramente andrò a vederlo!
RispondiEliminaLudmilla
Cara Ludmilla, ti ringrazio.
EliminaAnnalisa
Brava non solo a evidenziare le varie componenti della trama del film, ma soprattutto a ricercare le matrici cinematografiche, storiche e di costume americane. Brava! Edoardo
RispondiEliminaTi ringrazio molto.
EliminaAnnalisa
Bella recensione. Andrò a vedere il film.
RispondiEliminaGrazie.
EliminaAnnalisa
Ho visto il film e attraverso questa recensione ho arricchito e perfezionato la lettura del film. Recensione veramente interessante ed esaustiva.Lucrezia
RispondiEliminaGrazie, Lucrezia, mia fedele lettrice.
RispondiEliminaAnnalisa
un'infame influenza mi finora impedito di vere questo film che mi riprometto di ammirare non appena possibile incentivata anche dalla tua acuta recensione
RispondiEliminaMiriam
Grazie e buona visione.
RispondiEliminaAnnalisa