articolo di Mimma Zuffi
Queste righe non
vogliono essere né un saggio né un articolo di riflessione, bensì un omaggio al
percorso di vita di un grande della nostra letteratura: ELIO VITTORINI
Conobbi Elio
Vittorini quando ero una bimbetta e quel nome, allora, mi disse ben poco. Più
tardi, precisamente nel marzo 1965, lo incontrai nuovamente alla Mondadori e
due cose mi colpirono subito: la voce e gli occhi, intelligenti, penetranti, pronti a
cogliere qualsiasi lieve sfumatura.
Mi parlò della
Sicilia, di Lawrence, di Faulkner, di Pratolini, di Montale, di come alcune
volte, chiuso in ufficio, si sentiva soffocare, e la fantasia gli veniva in
aiuto.
Vorrei ora sia tracciare una sintetica biografia di questo autore che può essere considerato
uno dei grandi della letteratura italiana del Novecento sia analizzare due suoi capolavori.
Elio Vittorini
nasce a Siracusa il 23 luglio 1908, maggiore di quattro fratelli. Vive gli anni
della sua infanzia in Sicilia, spostandosi da un paese all’altro in seguito ai
trasferimenti del padre ferroviere. Ancor
prima di frequentare la scuola, aiutato dal padre Sebastiano, legge Robinson Crusoe e Le Mille e una Notte, che rimangono impressi in modo indelebile nella sua mente.
Nel 1921,
sfruttando i biglietti ferroviari gratuiti del padre, fugge da casa verso
l’Italia Settentrionale.
Nel 1924 interrompe
gli studi di ragioneria, si stabilisce nei pressi di Gorizia, dove trova lavoro
come contabile, e poi come assistente in una impresa di costruzioni.
Al 1927 risale la
pubblicazione dei primi articoli sulla terza pagina de "La Stampa", diretta a quel tempo da Curzio Malaparte. Questa collaborazione
continua fino al 1929, allorché i suoi articoli non sono più giudicati conformi all’ideologia fascista.
Il 10 settembre
1927 viene celebrato il matrimonio
“riparatore” con Rosa Quasimodo, sorella del poeta Salvatore. Quando
nell’agosto del 1928 nasce il loro primo figlio lo chiameranno Giusto Curzio,
in omaggio a Curzio Malaparte.
Il 13 ottobre 1929
pubblica su “L’Italia letteraria” Scarico di coscienza in cui afferma che è necessario ci sia un’ apertura europea per la letteratura italiana. Sempre nel
1929 Vittorini inizia la sua collaborazione con “Solaria”, facendo la
recensione a Ritratto del mio paese
di G. B. Angioletti.
Nel 1930 si
trasferisce a Firenze, lavora a “Solaria” e a “La Nazione” dove impara
l’inglese con l’aiuto di un tipografo. In collaborazione con Enrico Falqui cura
l’antologia “Scrittori Nuovi” per l’editore Carabba.
Nel 1931 esce il
volume di racconti Piccola Borghesia.
Nel 1933, sul
numero di febbraio di “Solaria” esce la prima puntata di Garofano rosso. Nell’ottobre dello stesso anno, l’editore Mondadori
pubblica la sua prima traduzione dall’inglese, si tratta de Il Purosangue di D.H. Lawrence. Due anni
dopo, sempre per la stessa casa editrice, esce
la traduzione de La vergine e lo Zingaro e
altri racconti, sempre di Lawrence.
Nel luglio del 1936
scoppia la guerra civile in Spagna. Come
conseguenza, Vittorini interrompe la stesura di Erica e i suoi fratelli.
In quel periodo,
Vittorini assiste a una rappresentazione de La
Traviata e questo gli
suggerisce osservazioni critiche sul rapporto tra melodramma e romanzo che
esporrà poi nella prefazione a Il
Garofano rosso nel 1948. Nel dicembre 1936 viene pubblicato il libro Viaggio in Sardegna, preceduto dalla
prosa lirica Nei Morlacchi. Nel 1952
Mondadori ristampa questi scritti cambiando il titolo in Sardegna come un’infanzia.
Nel 1937 appare la
sua traduzione, sempre per Mondadori, di Gordon
Pym di E.A. Poe. Nel settembre dello stesso anno inizia la stesura di Conversazione in Sicilia.
Sul numero 5 di
“Letteratura”, anno 1938, pubblica la traduzione di tre racconti di Saroyan,
mentre sul numero 6 compare la prima puntata di Conversazione in Sicilia. Più tardi si trasferisce a Milano e
comincia a lavorare per l’editore Bompiani.
Il 1939 vede tre
altre sue traduzioni: Luce d’agosto di
William Faulkner, Il mietitore di Dodder
di T. F. Powy e Pian della Tortilla
di Steinbeck. Per i tipi Mondadori, in collaborazione con Giansiro Ferrata,
pubblica La tragica vicenda di Carlo III.
Nel 1940 escono
molte sue traduzioni (“Che ve ne sembra
dell’America?”, “ I pascoli del cielo”, “La peste di Londra”, “Il piccolo
campo”) e comincia a preparare l’antologia Americana.
Nel marzo 1941 vede
la luce, in 350 esemplari, Conversazione
in Sicilia che ha per titolo Nome
e lacrime. Pochi mesi dopo viene
ristampato da Bompiani con il titolo originale. Sempre Bompiani pubblica la
prima edizione di Americana, ma la
censura fascista ne vieta la vendita per le note critiche di Vittorini. Traduce
Nozze di sangue di Federico Garcia
Lorca e Il cammino nella polvere di
John Fante.
Nel 1942 esce la
ristampa di Americana, questa volta
con la prefazione di Emilio Cecchi. Per Mondadori traduce Pagine di viaggio di D.
H. Lawrence.
Il 26 luglio 1943,
subito dopo la caduta del fascismo, Vittorini viene arrestato e rinchiuso nelle
carceri di San Vittore. Liberato poco prima dell’8 settembre partecipa
attivamente alla Resistenza e collabora alla stampa clandestina del PCI; pensa
anche di far uscire un foglio intitolato “Il Partigiano”, che non viene però
approvato dalle autorità antifasciste. Per Sansoni traduce Tito Andronico.
Subito dopo la
Liberazione (1945) pubblica Uomini e no
e per qualche tempo dirige l’edizione milanese de “L’Unità”. Il 29 settembre
1945 esce il primo numero de “Il Politecnico”, settimanale di cultura
contemporanea, pubblicato da Einaudi e diretto dallo stesso Vittorini.
Sul numero 5/6
(1946) Mario Alicata pubblica “La corrente Politecnico” dove critica
l’impostazione ideologica della rivista diretta da Vittorini. Da ciò prende il
via la sua polemica con il PCI sul tema “politica e cultura” e che avrà termine
con la “Lettera a Togliatti”, pubblicata sul numero 35 de “Il
Politecnico”, nella quale Vittorini sostiene l’autonomia del lavoro culturale
nei confronti della pratica politica.
Nel 1947 esce Il Sempione strizza l’occhio al Frejus e
sul numero due de “La rassegna d’Italia” appare la prima puntata de Lo zio Agrippa passa in treno. Alla fine
dell’anno si chiude la rivista “Il Politecnico”, che nel frattempo era
diventata mensile.
Nel 1948 pubblica
da Mondadori in volume Il Garofano
rosso, scrivendo una prefazione nella quale critica sia il linguaggio sia la
tecnica di quel suo vecchio romanzo. Sempre in quell’anno partecipa a
“Rencontres Internationales” di Ginevra e interviene con una relazione dal
titolo “L’arte è engagement naturale”, che riflette il tema dell’autonomia
della cultura già esposto nella polemica con Togliatti.
Nel 1949 il romanzo
Lo zio Agrippa passa in treno cambia
titolo e diventa Le donne di Messina,
pubblicato da Bompiani. Conversazione in
Sicilia viene tradotto in America e Hemingway ne scrive la prefazione.
Nel 1950 cura per
Einaudi l’edizione dell’ Orlando Furioso
e riprende a collaborare con “La Stampa”. Nel 1951 Einaudi lancia una nuova
collana di narratori, “I gettoni”, e Vittorini la dirige con entusiasmo e
talento: Beppe Fenoglio, Italo Calvino, Carlo Cassola, Lalla Romano, Mario
Rigoni Stern sono solo alcuni degli scrittori che fa pubblicare. Nel settembre
dello stesso anno si riapre la polemica con Togliatti.
Nel 1952 cura per
Einaudi le Commedie di Goldoni.
Dal 1953 al 1956
vengono ristampati molti suoi romanzi, e nel 1957 raccoglie quasi tutti i suoi
scritti critici, corredati da annotazioni e riflessioni, che pubblica per
Bompiani con il titolo Diari in pubblico.
Nel 1956 rifiuta di
far pubblicare Il Gattopardo di
Tomasi di Lampedusa.
Nel giugno
del 1959 esce il primo numero de “Il Menabò”.
Nel 1960 diventa
direttore della collana “La Medusa” di Mondadori.
Nel 1961, in
collaborazione con Fabio Carpi e Nelo Risi, stende la
sceneggiatura del suo romanzo Le strade
del mondo. Il film non viene
realizzato. Muore suo figlio Giusto.
Nel 1963 Vittorini
subisce una prima grave operazione.
Nel 1964 vede la
luce una nuova collana di Mondadori progettata da Vittorini, “Nuovi Scrittori
Stranieri”.
Il 12 febbraio 1966
muore a Milano mentre sta lavorando a Le
due tensioni, libro che uscirà postumo.
Conversazione in Sicilia é caratterizzato
da cinque blocchi narrativi che corrispondono ad altrettante tappe simboliche.
Ho usato la parola “simbolico” perché il significato di questo libro deve
essere cercato nei suoi sottesi simbolici, e non solamente nell’interpretazione
della vicenda secondo uno schema tradizionale.
Queste cinque tappe
sono:
1.
Il viaggio di Silvestro verso la Sicilia
2.
La conversazione con la madre
3. Le visite di Silvestro con la madre per le
iniezioni
4. La conoscenza da vicino della palpitante Sicilia
5. La conversazione con l’ombra di Liborio, fratello di Silvestro.
Nella prima parte
l’autore espone il tema e la ragione dell’intera vicenda. Infatti, all’inizio
ci imbattiamo in Silvestro, crucciato da una specie di angoscia che lo rende incapace dinanzi ai segni della
sofferenza che affligge l’umanità. Egli
confessa il suo stato d’animo “credere il genere umano perduto e non avere
febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui.
Ero agitato da astratti furori, non nel sangue, ed ero quieto, non avendo voglia
di nulla”, quando riceve una lettera dal padre lontano in cui lo invita ad
andare a trovare la madre sola in Sicilia. Nel leggere questa lettera decide di
intraprendere il viaggio, decisione che si potrebbe collegare al suo desiderio
di fuga di fronte al male che perseguita il mondo. Quindi questo viaggio è
l’espressione della ricerca di qualcosa che possa “curare” tale angoscia.
Durante questa corsa verso la Sicilia, Silvestro si imbatte in alcuni
personaggi degni di nota: il siciliano che non riesce a vendere le sue arance,
i due poliziotti Coi Baffi e Senza Baffi, il Gran Lombardo; ogni personaggio ha
la propria simbologia. Infatti, il siciliano delle arance rappresenta il
carattere del genere umano offeso, mentre Coi Baffi e Senza Baffi rappresentano
l’offesa. Rispetto agli altri il Gran Lombardo è diverso, non solo fisicamente
(“era un siciliano, grande, un lombardo o
un normanno forse di Nicosia, tipo anche lui carrettiere come quelli delle voci
sul corridoio, ma autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri”), ma
anche moralmente. Uno dei viaggiatori gli domanda: “Siete professore, voi?”, e la sua risposta, le sue parole sono
quasi rivelatrici: “Credo che l’uomo sia
maturo per altro”, - disse. “Non soltanto per non rubare, non uccidere,
eccetera, e per essere un buon cittadino. Credo che sia maturo per altro, per
nuovi, per altri doveri: è per questo che si sente, io credo, la mancanza di
altri doveri, altre cose, da compiere. Cose da fare per la nostra coscienza in
un senso nuovo.”
Quindi Silvestro
trova una prima definizione a quel “qualcosa” che cercava nelle parole del Gran
Lombardo: l’uomo riscatterà le offese ricevute solo quando raggiungerà la
maturità per “altri doveri”.
Nella seconda parte,
il viaggio di Silvestro assume il carattere di itinerario simbolico.
Dice un critico: “E questo non è un viaggio poetico
impressionistico, ma viaggio poetico morale: l’uomo non va nella sua terra a
cercare pace o idillio, ma a recuperare il perduto senso eroico di sé”.
Arrivato in Sicilia
si accorge che il viaggio non si è esaurito negli incontri fatti in treno ed è
concluso, ma sta per cominciare un altro viaggio “nella quarta dimensione” della memoria.
“…il nome del paese era scritto su un muro
come sulle cartoline che io mandavo ogni anno a mia madre, e il resto, quella
scalinata tra vecchie case, le montagne attorno, le macchie di neve sui tetti,
era dinanzi ai miei occhi come d’un tratto ricordavo che era stato una volta o
due nella mia infanzia... Questo era il più importante nell’essere là:
non aver finito il mio viaggio; anzi forse averlo appena cominciato… Pareva che
non vi fosse stato nulla, o solo un sogno, un intermezzo d’animo, tra l’essere
a Siracusa e l’essere là, e che l’essere là fosse effetto della mia decisione,
d’un movimento della mia memoria…”
Nel ricordare, e
quindi nel rivivere una seconda volta, i fatti, gli oggetti diventano
doppiamente reali e fanno ancor più parte di noi stessi. La memoria diventa
realtà, e aiuta Silvestro a ritrovare il paesaggio, la casa, la madre: “…e io vidi, nell’odore dell’aringa, la sua
faccia senza nulla di meno di quando era stata una faccia giovane, come io ora
ricordavo che era stata, ogni cosa era questo, reale due volte…”. E la
madre, in questo processo di ricordo, perde, poco a poco, la dimensione
materna, per assumere quella di donna.
Concezione, la
madre, confessa il suo disprezzo per il marito che corteggia le altre donne, le
chiama “api regine”, e scrive per
loro poesie oltre a portarsele nel vallone; e per contrasto ammira
svisceratamente il padre. Nel dialogo tra madre e figlio, le figure del padre e
del marito finiscono per fondersi in una vivace altalena di immagini
rievocative. Tuttavia Silvestro percepisce che la madre non può essere
quella donna arida che si fa credere e la pungola quindi a rilevarsi, a
confessare che anch’essa è stata qualche volta “una sporca vacca”, come le altre donne: Concezione confessa il suo
episodio d’amore con un viandante che era pure lui un Gran Lombardo perché
pensava “ad altri doveri”.
Inizia ora la terza
parte. La madre si fa accompagnare dal figlio attraverso una “piccola Sicilia ammonticchiata, di nespoli,
e tegole, di buchi nella roccia, di terra nera, di capre, con musica di
zampogne che si allontanava dietro a noi, e diventava nuvola o neve, in alto”.
In ogni casa che visitano si ripete il rituale delle iniezioni, dell’odore di
chiuso e della malattia, delle parole scarne: una specie di litania sulle
sofferenze dell’umanità.
L’itinerario del
viaggio si sposta dalla memoria alla realtà di quel mondo offeso, e i due
mondi, ricordo-realtà, diventano un tutt’uno. Silvestro si rende sempre più
conto dell’offesa ogni volta che varca la porta di uno di quei tuguri bui e
maleodoranti. Attraverso i ragionamenti di Silvestro, Vittorini ci fa partecipi
della sua filosofia sulla vita, sul male: “Ma
forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. Questo
è un dubbio che viene, nella pioggia, quando uno non ha le scarpe rotte, e non
ha più nessuno in particolare che gli occupi il cuore, non più una vita sua
particolare, nulla più di fatto e da fare, nulla neanche da temere, nulla più
da perdere, e deve al di là di se stesso i massacri del mondo: Un uomo ride e un altro piange. Tutti e due sono
uomini; anche quello che ride è stato malato; è malato; eppure ride perché
l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che , nella non speranza, lo vede ridere nei suoi
giornali e manifesti di giornali, non va con lui che ride semmai piange, nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e
genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato.
Uccidete un uomo: egli sarà più uomo. E così è più uomo un malato, affamato; è
più genere umano il genere umano dei morti di fame”.
Sembra quasi che
Vittorini, partendo da un determinato fatto storico, il fascismo, ne abbia
voluto dare un ritratto simbolico, piuttosto che una descrizione realistica.
Concezione conduce il
figlio attraverso i meandri del sesso. Dapprima lo costringe ad assistere al “rito” dell’iniezione a due donne per
potergli mostrare “come è fatta una donna”
e, allo stesso tempo, continua a chiedergli “…quando è che hai visto la prima volta come è fatta una donna?” Il
figlio comincia a rivivere, ancora una volta, i suoi ricordi e si rifiuta di
accompagnare ancora la madre che vorrebbe fargli vedere la donna più bella, la
signorina Elvira.
Nella quarta parte
Silvestro incontra altri personaggi: l’arrotino Calogero, l’uomo Ezechiele, il
panniere Porfirio, lo gnomo Colombo. Ognuno di loro propone a Silvestro la
propria interpretazione degli altri doveri per alleviare i mali del mondo. Per
Calogero è una rivolta individuale che sfoga arrotando il temperino di
Silvestro: “Fa piacere arrotare una vera
lama: Voi potete lanciarla ed è dardo, potete impugnarla ed è pugnale. Ah, se
tutti avessero sempre una lama!”.
Per Ezechiele
solamente il soffrire degli altri può alleviare il mondo: “Il mondo è grande e bello ma è molto offeso. Tutti soffrono per se
stessi, ma non soffrono per il mondo che è offeso e così il mondo continua ad
essere offeso”.
Per Porfirio invece
“solo l’acqua viva può lavare le offese
del mondo e dissetare l’uman genere offeso”.
E per Colombo “acqua viva” è il vino che ha il potere
di far dimenticare le sofferenze e le offese. Ma Silvestro, al quarto boccale
di vino, si rifiuta di continuare a bere perché il vino può far dimenticare le
sofferenze, ma non ha il potere di annullarle del tutto. “Generazioni e generazioni avevano cercato nel vino la nudità, e una
generazione beveva dall’altra, dalla nudità di squallido vino delle altre
passate, e da tutto il dolore versato.”
Silvestro abbandona
la cantina e i suoi compagni occasionali perché “non era in questo che avrei voluto credere, in questo non c’era altro
mondo”.
Nella quinta e
ultima parte Silvestro fa l’incontro decisivo della sua vita: il fratello Liborio
morto da poco in guerra. Dopo aver conosciuto l’ingiustizia, la miseria, la
malattia, Silvestro incontra la morte. Il suo pensiero torna al passato, al
ricordo delle recite del padre e agli spettatori che erano affascinati soltanto
per “virtù di vino” e non per
effettiva partecipazione. Di fronte a questa indifferenza, Silvestro esplode in
“Oh, mondo offeso! Mondo offeso!”. La
risposta che gli giunge è un enigmatico “Ehm”.
La conversazione diviene più serrata, e Silvestro si rende conto di parlare col
fratello minore.
“Era notte sulla Sicilia e la calma terra:
l’offeso mondo era coperto di oscurità, gli uomini avevano lumi accanto chiusi
con loro nelle stanze, e i morti, tutti gli uccisi, si erano alzati a sedere
nelle tombe, meditavano. Io pensai, e la grande notte fu in me notte su notte.
Quei lumi in basso, in alto, e quel freddo nell’oscurità, quel ghiaccio di
stella nel cielo, non erano una notte sola, erano infinite; e io pensai alle
notti di mio nonno, le notti di mio padre, e le notti di Noè, le notti
dell’uomo ignudo nel vino e inerme, umiliato, meno uomo di fanciullo o di un
morto.”
Il romanzo finisce
con l’immagine di Silvestro accanto a una donna in bronzo offerta ai morti come
estrema consolazione. Si chiude così un viaggio durato tre giorni e le notti
relative.
Mentre in Conversazione in Sicilia l’evento
storico viene analizzato attraverso una serie di simboli e un linguaggio
allusivo, in Uomini e no siamo messi
direttamente a confronto con la brusca realtà di quel periodo di fuoco.
In questo libro
Vittorini offre, da un lato, azione e cronaca, dall’altro, riflessione, che
viene messa in evidenza dall’uso del corsivo. Molto spesso la narrazione è
interrotta da un commento che potrebbe stonare, quale anche un figlio di puttana può dire “mamma”. Infatti, in questo
caso, ci si trova dinanzi a una scena drammatica, a una sorta di movimento
cinematografico incalzante: “Una bomba a
mano cadde sul camion. – Mamma mia! –, esclamò un milite. Anche un figlio di puttana può dire ‘mamma’. Ma un’altra
bomba esplose tra le ruote posteriori di una delle due macchine”.
Nell’evolversi
della narrazione si trovano anche scene grottesche, quale l’episodio del
fascista che affronta minaccioso la folla adunata in Largo Augusto domandando:
“Chi non è antropofago?”, mentre
cerca di liberarsi un dente da qualcosa,
tenendosi spalancata la bocca con una mano, frugarsi dentro con l’altra fin
quasi alla gola, la testa indietro, e tutto lui che traballava.
Le pagine iniziali
fino all’incontro di Enne 2 con Berta sono intense.
Un grande suono allora irruppe in lui; e spinse
correndo la bicicletta, attraversò i binari, raggiunse la piazza. Il tranvai
era già lontano, percoteva di squilli il suo binario già oltre la fermata
successiva, ma egli montò sulla bicicletta e lo rincorse. Un pezzo corse, e mai
rivide, nel nero della folla chiusa dentro il tranvai, il gomito e la spalla di
una donna per i quali correva. Pure sapeva di non essersi sbagliato, perdurava
in lui il grande suono, e da ogni giornata che era stata, settembre e ottobre,
novembre e dicembre, uno splendore veniva a lui, e si univa a quello che era
ora. In piazza della Scala la donna scese. “Lo sapevo”, le disse, “ch’eri tu”.
Lei si appoggiò alla bicicletta. “Era”, egli le disse, “come tu sei stata”. Lei
gli prese e baciò la mano, lasciò che parlasse.
Assieme ad altre
pagine queste possono rientrare nel quadro di Vittorini scrittore vero. Le
altre sono: il vagabondare di Berta nel parco e il colloquio con il vecchio; la
descrizione dei morti in Largo Augusto, con l’incontro tra i protagonisti
dell’attentato al circolo fascista senza che tra loro venga pronunciata una
sola parola; il loro dramma lo si legge negli occhi e negli sguardi che
si scambiano.
Nella parte finale
di Enne 2 ci si avvicina, anche se da lontano, a certe pagine di Hemingway in Per chi suona la campana, quando Jordan attende l’arrivo dei falangisti. Ma
l’attesa è diversa, infatti il gesto di Enne 2 sembra un rifiuto di vivere in
cui la politica si sovrappone al sentimento. L’attesa di Cane Nero è anche
l’attesa di un impossibile ritorno di Berta.
Così l’episodio di
Giulaj azzannato dai cani del Capitano Clemm riveste tre aspetti: l’allegorico,
il crudele e infine il mistico.
Il grande amore tra
Enne 2 e Berta è al passo con gli avvenimenti, e l’impossibilità di un incontro
definitivo tra loro è in carte causata dall’indecisione di Berta, ma anche
dall’incertezza e dal clima che caratterizza la lotta partigiana. L’uomo lotta
nella speranza di un futuro libero, di una libertà intesa universalmente. E
questo sentimento balza in primo piano anche alla fine quando il giovane
operaio non uccide un soldato tedesco perché era troppo triste.
In questo libro il
corsivo non rappresenta solo un elemento diverso per indurre alla riflessione,
ma dà la sensazione di un libro nel libro, un analizzare in profondità l’animo
dell’uomo alla ricerca di un senso da dare alla propria vita al di là del male
che distrugge l’uomo. In queste pagine l’amore per Berta non ha più ostacoli, e
il clima della guerra pare dissolversi. Ma Enne 2 non può ricordare, può
solo sognare quello che non è stato e che vorrebbe fosse.
Uomini e no non si chiude con Enne 2 in attesa della
morte – sentimento quindi negativo – ma con la frase dell’operaio imparerò
meglio, quasi ad aprire nuovi orizzonti per il futuro post-bellico.
Grazie per questo articolo, veramente interessante, un omaggio a un grande scrittore: Elio Vittorini. Mi ha fatto piacere leggerlo e ricordarlo. Di Elio Vittorini ho letto diversi libri e raccomando di leggere qualcuno di quelli raccomandati da Mimma Zuffi. Ne vale la pena! Giovanna Rotondo
RispondiEliminaGrazie Giovanna, soprattutto perchè detto da te. Tra i libri da leggere metterei anche "Il garofano rosso".
RispondiEliminaUn abbraccio. Mimma
Analisi approfondita di due capolavori scritti da un Maestro della letteratura italiana.
RispondiEliminaAntonella
Grazie Antonella del commento, e da quello che dici mi pare che tu conosca i libri di Vittorini!
EliminaBellissimo articolo, Mimma. Mi ha fatto riscoprire la vita di Vittorini ma soprattutto mi hai dato la voglia di andare a rileggermi Uomini e No. E quando un articolo ti spinge a leggere, vuol dire che è di quelli giusto. Grazie ancora. Carlo (A. Martigli)
RispondiEliminaGrazie a te Carlo, e detto da un Maestro della penna mi fa molto felice. E' uno splendido regalo.
RispondiEliminaMimma
Grazie a te ho ripreso in mano Uomini e no. Stupendo. Hai fatto un ottimo lavoro per uno scrittore con la S maiuscola.
RispondiEliminaDaniela
Uomini e no è splendido, così come gli altri scritti di Vittorini. Hai letto Il garofano rosso?
EliminaGrazie del commento e sono contenta che tu abbia ripreso a leggere uno dei miei autori preferiti. Mimma