Recensione di Ilaria Biondi
Si
adagia la sagoma della città di Parma, “perfetta
nella sua autoreferenzialità”, sulla mappa reale delle sue vie e dei suoi
quartieri, in bilico tra le trame quotidiane di un’esistenza appesa alla fatica
dignitosa di una vecchiaia tenace che annaspa paziente nei conti e nelle
miserie di fine mese, “i bar festanti di
aperitivi e sorrisi” dove l’esausta ricerca di felicità sguscia rancida dietro
il sipario delle bollicine di Berlucchi e il
traffico discorde di mille vite, infinite malinconie e solitudini nuove, che
sorridono avvizzite al ritmo pallido delle luci meste del Luna Park.
Ma
questa geografia urbana così “normale” cela un ventre nero, di asfalto e
sangue, una periferia umana che maleodora di disperazione, colpa, urla, miseria
lercia, dove la misura della speranza si tramuta in dannazione, piaga e macerie
di vita. Un abisso che disconosce salvazione e benedizione, spazio senza tregua
che somiglia pericolosamente a un girone infernale.
Parma,
che non ha disdegnato in passato un presuntuoso accostamento alla Ville
Lumière, assume nel romanzo di Fabio Carapezza certi toni da noir alla Léo Malet che la apparentano sì
in qualche modo alla capitale d’oltralpe, ma in ciò che essa ha di più truce e infame,
nel suo volto nascosto di squallida orgia del male.
I
personaggi e le loro azioni, aspirazioni, tensioni o insignificanze pacificate
e sterili costruiscono un’impalcatura tridimensionale: gli “uomini senza
qualità”, incartati in passi scialbi e scolorati, così come i benpensanti,
ipocriti e indifferenti, paghi della scorza luccicante delle loro vite
levigate, scivolano – seppur forse riarsi in qualche scheggia riposta
dell’anima – sulla superficie del reale, attenti e accorti a non avere slanci
in nessun’altra direzione, soprattutto verso l’alto (ché qualcuno, come
l’Assessore con lo spolverino color panna, pur guardando con devozione alle
altezze dell’Olimpo, si regala dei luridi sprofondamenti nella giungla
sotterranea degli schifosi traffici di vite e carne umana). I puri, come Giada
e Daniele, seppur con modalità differenti, inseguendo ognuno il proprio nume,
vogliono abbandonare la riva, cercare se stessi, sfilarsi da un’esistenza che è
solo farsa, compiendo un balzo verso il trascendente: lei, irrigidita in un
cinico agnosticismo, insofferente alle maglie di una vita asfittica e
illusoria, anela disperatamente a un ritorno all’eternità, all’infinita luce
che abbandoniamo alla nascita, inseguendo le vie indicate da Geber, Paracelso e
Vesalius, mentre il fratello crede nel Dio della preghiera, lo invoca e lo vagheggia
in un viaggio sofferto e agognato, dentro e fuori di sé. I disperati, gli
invisibili miserabili come Salvo, che fuggono la vita per affidarsi alle
braccia martirizzate dell’autodistruzione e al sudario stropicciato del Vuoto,
si ammantano di spine e percorrono invece, con coraggiosa tenacia, il calvario
dei sotterranei, inseguendo la morte, per sottrarsi alla vita. Le vene svuotate
di speranza del tossico nutrono le pance avide e le mani marce di individui
fuori dal consorzio umano, che accumulano denari, colpe e delitti negli
anfratti bui di periferie chiuse su se stesse. Ma se costoro hanno le pupille
bruciate dall’ombra marcia del potere e dei suoi vili tentacoli, Salvo – pur
nella sofferenza che lo prende a schiaffi, nella putrefazione di un corpo e di
un’anima ridotti a mucchio di rifiuti – reca in sé memoria antica e sepolta del
profumo della luce. E la ritroverà, per qualche acceso istante, nella fragile,
vulnerabile ingenuità di una donna che reca il nome di una pietra sacra agli
orientali e in una notte di marzo, in riva al mare, a farsi carezzare da quella
tavola selvaggia e reale che ascolta
tutti, in un luogo lontano e sospeso dalla farsa dei giorni. C’è infine
chi, come Padre Bartolomeo, consacra l’intero scorrere delle ore all’elevazione
spirituale, distaccato dalle grida amare del mondo, dalle viscere capovolte
delle disumane tracce: la Collina degli Ulivi s'
innalza nella luce della pace, nel respiro della serenità, nella perfezione
della meditazione, isola di solitudine e di incontro d’anime che contrappone al
maleodorante asfalto urbano il soffio verde di boschi e uliveti e l’alito
azzurro del lago, il silenzio quieto al frastuono vergognoso, la pienezza del
bene alla follia del passo sbagliato. Ma anche il paradiso può celare frammenti
sparsi di umano inferno: il cuore nero del Male si annida sotto le tacite
fronde della quercia e insozza l’anima trasparente del monaco. S’accorcia
l’orizzonte tra la funesta notte urbana e il radioso mattino della collina: il
sentiero che sale agli ulivi si sporca di peccati brutali e di miseri segreti.
Sulle
vite smarrite di questa pietosa umanità, violentata di violenza, “drogata di follia”, ingabbiata
nell’asfittica “placenta del mondo” governato
dall’implacabile meccanismo del produrre-rendere- dare-avere, si libra l’anacronistica
figura di Cagliostro Zolfanelli, che con la sua valigetta di pelle riempita di “vite possibili” e “alternative percorribili” fra le quali poter scegliere, entra ed
esce dalle giornate stanche dei personaggi, aprendo squarci nel loro presente e
trascinando la loro realtà quotidiana – per qualche indefinibile e
inafferrabile istante – sulle ali dell’altrove impossibile e surreale.
A
risplendere in questa eterna pena dell’esistere, come fioco fiore fragile
affondato nel fango ma con la corolla debolmente protesa ad abbracciare un
minuscolo raggio di alba, l’incontro tra Giada e Salvo, “due mari di solitudine” divelti dalla terraferma delle presunte e
appagate certezze : lei, a voler balzare nella notte dal balcone e dissolversi nella pace del Tutto,
ripulendosi le ali da una “voglia di
vivere sgonfia”, da una “vita
daltonica, monocorde, senza aria, né freschezza”, morta ai sorrisi e all’esistere
altrui; lui, incapace di diventare uomo, distante dalla vita, dalle sue
responsabilità e dalle sue minacce, dalle sue convenzioni e dai suoi obblighi,
con le braccia e le vene rifugiate nella strada e nell’eroina, a ricacciare indietro
la colpa della mancanza e il peccato dell’assenza insieme al candore della
pelle, al richiamo muto e agli occhi imploranti d’interrogativi di un bambino, che
non si arrende alle bugie pietose e alle ridicole ingenuità degli adulti.
Un
tentato suicidio. Un tentato furto d’appartamento. Delitti affogati nel sangue
e nel vomito. Un incontro di miserie che innesca una serie di “avventure”, di
fughe da sé, dagli altri, dalla morte e dalla vita. Vite disgregate che bramano
ferocemente di dissolversi. Vite che, giunte alla cima della croce, sentono
biancheggiare, lieve e potente, l’attaccamento alla Vita. Colpe espiate nelle
bestemmie e nelle lame insanguinate, peccati riscattati nell’ansito guerresco e
coraggioso dell’immolare se stessi per salvare l’altrui vita. Vite sacrificate
dal demonio del denaro, respiri sepolti nel Golgota di silenzi proibiti,
purezze perdute e inconfessabili viltà.
Un
romanzo denso e potente sull’esilio dolente dell’esistere, dove anime tagliate
e in perenne congedo dalla felicità si dibattono sghembe e oblique
sull’impossibile equilibrio tra innocenza e perdizione, tra il vuoto secco di
una vita morta ancora prima di finire e i fugaci e inconsapevoli balzi di
riscatto nelle anse nere e avvilite di una vita consegnata alle braccia brutali
della morte.
Fabio
Carapezza, affidandosi al carico sofisticato delle proprie frequentazioni
letterarie, ad una solida e appassionata formazione filosofica, alla vivida
voce poetica che già in passato ha prodotto esiti pregevolissimi, costruisce
nelle pagine de La Collina degli Ulivi
una geometria spessa e complessa, un ordito narrativo finemente strutturato che,
grazie a una polifonia di immagini, simboli, citazioni e rimandi radicati nelle
dimensioni mitiche, religiose e mistiche dell’immaginario umano, acquisisce un
respiro universale, facendosi riflessione inquieta e inesausta sul senso, o
piuttosto sul non-senso dell’esistere.
La
realtà descritta da Carapezza è porosa e sconfina volentieri nel surreale,
colta com’è dall’ occhio indagatore, disincantato e visionario del narratore che
sa e vuole squarciare il velo opaco che copre e nasconde la superficie, guidato
da intrepido e insopprimibile bisogno di Verità.
La
scrittura sa valersi opportunamente di un ampio ventaglio di registri, plasmandosi
sulle onde cangianti dei personaggi e del loro agire, a rendere ora il lurido
abisso che affonda le anime, ora le asperità e i tormenti della solitudine
svuotata, il grembo pungente e frantumato di una vita che ha smarrito il seme
della fecondità. Un sapiente uso degli artifici retorici, uno stile che indulge
volentieri e con cognizione di causa alla ricercatezza, una lingua che sa
essere lussureggiante, viva e pulsante quale si addice a un ottimo
affabulatore, pur mantenendo quel controllo lucido che è proprio di chi si
muove a suo agio nelle pieghe dell’ars
scribendi, rendono il romanzo di Fabio Carapezza una lettura mai scontata,
non facile e proprio per questo oltremodo affascinante, perché fa appello all’attenzione
e al senso critico del lettore, al suo desiderio di mettersi in discussione. Una
storia dal sapore noir, che coniuga
abilmente l’aspetto più meramente avventuroso delle vicende sporche e
delittuose che ruotano attorno al mondo del denaro, del potere e della droga
con la dimensione filosofico-teologica sul valore di questo nostro esistere,
che par essere solo e soprattutto un grande, immenso, irreparabile
inconveniente …
Forse
soltanto lo sguardo enigmatico dei gatti, il bisbiglio inaudibile di una pianta
dalle foglie carnose e misteriose, le chiazze imperscrutabili sul piano
apparentemente lucido di un lavabo possono illuminarci sul grande, ineffabile
Segreto del Mondo.
Bella recensione scritta con molta arguzia e sentimento. Queste sì che sono recensioni!
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